1 Durante il consolato di Lucio Genucio e di Servio Cornelio la
tregua da guerre esterne fu quasi completa. Vennero fondate le colonie di
Sora e di Alba. Ad Alba, che si trovava nel territorio degli Equi, furono
inviati 6.000 coloni. Sora aveva fatto in passato parte del territorio dei
Volsci, per poi essere occupata dai Sanniti. Lì vennero inviati 4.000
uomini. Nel corso degli stessi anni venne concessa la cittadinanza romana
agli abitanti di Arpino e di Trebula. Gli abitanti di Frusino furono
invece condannati alla perdita di un terzo del loro territorio, perché
emerse che avevano spinto gli Ernici a ribellarsi: dopo un'inchiesta
condotta dai consoli su incarico del senato, i capi del complotto furono
frustati e decapitati. Ciò non ostante, a far sì che l'anno non
trascorresse del tutto senza episodi militari, ci fu una modesta
spedizione in Umbria; era infatti giunta notizia di una banda armata che,
partendo da una caverna, compiva scorrerie per le campagne. Truppe romane
raggiunsero la caverna, ma per l'oscurità sulle prime subirono molte
ferite, fino a quando non scoprirono un altro accesso percorribile in
entrambe le direzioni, e appiccarono il fuoco a cataste di legna alle due
imboccature. E così i 2.000 uomini circa che si trovavano all'interno
della grotta, costretti a gettarsi attraverso le fiamme, alla fine
morirono soffocati dal fumo e dal calore nel tentativo di uscire.
Durante il consolato di Marco Livio Dentre e di Marco Emilio riprese la
guerra contro gli Equi. Poiché non accettavano la colonia romana, quasi
una roccaforte di Roma all'interno del loro territorio, gli Equi tentarono
con ogni mezzo di espugnarla, venendo però respinti dai coloni stessi. Ma
a Roma la cosa creò una tale apprensione - sembrava impossibile che gli
Equi, nel loro misero stato, avessero affrontato la guerra basandosi
soltanto sulle proprie forze -, che per far fronte a quell'insurrezione
venne nominato dittatore Gaio Giunio Bubulco. Questi, partito col maestro
di cavalleria Marco Titinio, al primo scontro ebbe la meglio sugli Equi e,
rientrato a Roma in trionfo dopo otto giorni, inaugurò come dittatore il
tempio alla Salute che aveva promesso in voto quand'era console e la cui
costruzione aveva dato in appalto al tempo della sua censura.
2 Nello stesso anno una flotta greca agli ordini dello spartano
Cleonimo approdò sulle coste italiche, andando a occupare la città di
Turie nel territorio dei Sallentini. Fu inviato ad affrontarlo il console
Emilio, che mise in fuga Cleonimo con un'unica battaglia, costringendolo a
trovare riparo sulle navi. Turie venne così restituita ai suoi cittadini,
e nel territorio sallentino ritornò la pace. In alcuni annali ho trovato
che a essere inviato tra i Sallentini fu il dittatore Giunio Bubulco, e
che Cleonimo lasciò l'Italia prima ancora che lo scontro coi Romani
diventasse inevitabile.
Dopo aver doppiato il capo di Brindisi ed esser stati spinti dai venti
in mezzo all'Adriatico, temendo sulla sinistra le coste italiche prive di
porti e sulla destra la presenza di Illiri, Liburni e Istri (popoli
bellicosi e di pessima fama perché dediti alla pirateria), avanzarono fino
alle coste abitate dai Veneti. Lì Cleonimo, dopo aver sbarcato alcuni
uomini col cómpito di esplorare la zona, ricevette queste informazioni:
che c'era una sottile striscia di terra oltre la quale si aprivano lagune
alimentate dall'acqua del mare; che si vedevano lì vicino campagne
pianeggianti e, poco oltre, colline; che inoltre avevano individuato la
foce di un fiume molto profondo dov'era possibile ormeggiare le navi in
maniera sicura (il fiume era il Brenta). Allora Cleonimo ordinò di
trasferire la flotta in quella zona risalendo la corrente. Poiché il letto
del fiume non permetteva il passaggio delle navi più pesanti, la massa
degli uomini armati si trasferì sulle imbarcazioni più leggere e arrivò in
una zona molto abitata, dov'erano stanziate tre tribù marittime di
Patavini. Sbarcati in quel punto, dopo aver lasciato una piccola
guarnigione di presidio alle navi, espugnarono i villaggi, incendiarono le
abitazioni, portarono via uomini e animali, allontanandosi sempre più
dalle navi nella prospettiva di ulteriore bottino.
Quando a Padova arrivò la notizia di ciò che stava succedendo, gli
abitanti, costretti a un perenne allarme dalla minaccia dei Galli,
divisero le proprie forze in due contingenti. Il primo si portò nella zona
in cui erano stati segnalate le incursioni nemiche, l'altro, seguendo un
percorso diverso per non incontrare gli avversari, si diresse invece verso
il punto in cui erano ancorate le navi, a quattordici miglia dalla città.
Eliminati gli uomini di guardia con un attacco di sorpresa, si riversarono
sulle navi, costringendo i marinai a spostarle sulla sponda opposta del
fiume. Anche lo scontro sulla terraferma contro gli autori dei saccheggi
ebbe esito positivo. E mentre i Greci cercavano scampo in direzione delle
navi, vennero affrontati dall'altro contingente di Veneti, che li
accerchiò e massacrò. Alcuni prigionieri rivelarono che la flotta col re
Cleonimo si trovava a tre miglia di distanza. Così, dopo aver lasciato i
prigionieri in un villaggio dei dintorni perché fossero sorvegliati, i
Patavini, imbarcandosi parte su battelli da fiume costruiti apposta col
fondo piatto per affrontare i bassi fondali delle lagune, e parte invece
sulle imbarcazioni sottratte ai Greci, raggiunsero la flotta nemica,
circondandone le navi rimaste immobili per paura del fondale sconosciuto
più che del nemico. E mentre i Greci fuggivano verso il largo senza
nemmeno cercare di opporre resistenza, i Patavini li inseguirono fino alla
foce del fiume, e dopo aver strappato loro e incendiato alcune delle navi
finite, nella grande confusione, sui banchi di sabbia, rientrarono
vincitori. Cleonimo se ne partì con soltanto un quinto della flotta
intatto, senza aver raccolto alcun risultato in nessuna parte
dell'Adriatico. A Padova ci sono ancora oggi molte persone che hanno visto
i rostri delle navi e le spoglie spartane appese nel vecchio santuario di
Giunone. A ricordo di quella battaglia fluviale, nel giorno in cui essa fu
combattuta si tengono oggi solenni gare di navi lungo il fiume che scorre
attraverso la città.
3 Nello stesso anno a Roma venne stipulato un trattato con gli
abitanti di Vesta giunti con una richiesta di amicizia. Ci furono poi
numerose ragioni di allarme. Arrivò la notizia che l'Etruria si stava
ribellando a séguito di un'insurrezione scoppiata ad Arezzo, dove
l'influente famiglia dei Cilni, odiata dagli Aretini per le ricchezze che
possedeva, stava per essere scacciata con la forza dalla città. Nel
contempo fu annunciato che i Marsi stavano difendendo con vigore la terra
sulla quale era stata fondata la colonia di Carseoli, costituita da 4.000
uomini. Per far fronte a questi disordini, venne nominato dittatore Marco
Valerio Massimo, che scelse come maestro di cavalleria Marco Emilio Paolo.
Personalmente preferisco questa versione dei fatti a quella secondo la
quale Quinto Fabio, non ostante l'età e le molte cariche ricoperte,
sarebbe stato subordinato a Valerio. D'altra parte sarei portato a credere
che l'errore sia dovuto alla confusione creata dal soprannome
Massimo. Uscito da Roma alla guida dell'esercito, il dittatore
sbaragliò i Marsi con un'unica battaglia. Dopo averli costretti a
barricarsi all'interno delle loro città fortificate, nel giro di pochi
giorni conquistò Milionia, Plestina e Fresilia. Condannò poi i Marsi alla
perdita di parte del territorio, rinnovando però il trattato di alleanza
con loro. Teatro delle operazioni fu in séguito l'Etruria. Mentre il
dittatore si era recato a Roma per il rinnovo degli auspici, il maestro di
cavalleria cadde in un'imboscata mentre usciva allo scoperto per cercare
rifornimenti: perse alcune insegne, venne risospinto nell'accampamento,
dopo un orribile massacro e la fuga vergognosa dei suoi uomini. Questa
reazione terrorizzata non può essere attribuita a Fabio, e non solo perché
se qualche altra dote più di altre gli valse il soprannome di Massimo
questa fu certo la perizia strategica in guerra, ma anche perché non si
sarebbe mai lasciato trascinare allo scontro senza un preciso ordine del
dittatore, memore com'era della severità di Papirio.
4 Quando la sconfitta venne annunciata a Roma, la reazione fu un
panico sproporzionato alla realtà dei fatti. Come se l'esercito fosse
stato fatto a pezzi, venne proclamata la sospensione delle attività
giudiziarie, vennero piazzate sentinelle alle porte e fissati turni di
vigilanza nei vari quartieri, mentre lungo il perimetro delle mura furono
accumulati armi e proiettili. Dopo aver costretto tutti i giovani a
prestare giuramento militare, il dittatore raggiunse l'esercito e trovò
che la situazione era meno preoccupante di quanto non si aspettasse, e che
il maestro di cavalleria aveva curato di rimettere tutto a posto: il campo
era stato trasferito in un punto più sicuro, le coorti che avevano perduto
le insegne erano state collocate al di là della trincea e non avevano
tende, mentre l'esercito era impaziente di gettarsi nella mischia per
riscattare quanto prima l'onta subita. Il dittatore fece pertanto spostare
il campo più avanti, nel territorio di Ruselle. I nemici lo seguirono e,
pur nutrendo dopo la vittoria grosse speranze di avere la meglio anche in
un confronto in campo aperto, ciò non ostante ricorsero di nuovo alla
tecnica dell'imboscata, di cui già si erano avvalsi con successo. Non
lontano dall'accampamento romano c'erano le case diroccate di un villaggio
messo a ferro e fuoco nel corso dei saccheggi alle campagne. I soldati
nemici vi si andarono a nascondere, spingendo del bestiame di fronte a un
presidio romano comandato dal luogotenente Gneo Fulvio. Poiché dalla
postazione romana nessuno si lasciava attirare dall'esca, uno dei pastori
arrivò fin sotto i dispositivi di difesa romani e gridando domandò ai
compagni impegnati a sospingere con grande esitazione il bestiame fuori
dai ruderi del villaggio che cosa avessero mai da aspettare, dato che
potevano tranquillamente far passare gli animali attraverso l'accampamento
romano. Alcuni soldati provenienti da Cere tradussero queste parole al
luogotenente suscitando grande sdegno nei soldati di tutti i reparti, i
quali però non osavano prendere alcuna iniziativa senza l'ordine del
comandante; quest'ultimo ordinò allora agli interpreti di prestare
attenzione se la lingua parlata da quei pastori fosse più simile a quella
delle campagne o a quella di città. Quando gli venne riferito che
l'inflessione della parlata, l'aspetto esteriore e la carnagione erano
troppo raffinati per dei pastori, egli disse: «Andate, dite pure che
rivelino il tranello che hanno cercato invano di nascondere: ormai i
Romani sono al corrente di tutto, e ingannarli è difficile quanto
superarli con le armi». Quando i sedicenti pastori sentirono queste parole
e le andarono a riferire agli uomini pronti all'imboscata, i nemici
saltarono immediatamente fuori dai nascondigli, e avanzarono in assetto da
guerra verso la pianura che si apriva alla vista nella sua estensione.
L'esercito schierato diede al luogotenente l'impressione di essere troppo
massiccio perché il suo presidio fosse in grado di affrontarlo. Per questo
mandò in fretta a chiedere aiuti al dittatore, sostenendo nel frattempo da
solo l'urto dei nemici.
5 Quando il dittatore ricevette il messaggio, ordinò ai soldati di
uscire dall'accampamento e di seguirlo con le armi in pugno. Occorse meno
tempo ad eseguire gli ordini che a impartirli. Gli uomini afferrarono in
un attimo armi e insegne, e non era facile impedire che partissero
immediatamente di corsa. A pungolarli erano tanto la rabbia per la
sconfitta subita quanto il frastuono che arrivava sempre più forte dal
campo di battaglia a misura che lo scontro aumentava di intensità. Così si
incitavano l'uno con l'altro, esortando gli alfieri ad accelerare
l'andatura. Ma il dittatore, più li vedeva impazienti, più era risoluto
nell'ordinar loro di rallentare la marcia e di procedere lentamente. Dal
canto loro gli Etruschi si erano gettati nella mischia impiegando sùbito
tutte le loro forze. Un messaggero dopo l'altro arrivavano a riferire al
dittatore che tutte le legioni etrusche stavano prendendo parte alla
battaglia e che il presidio romano non era più in grado di resistere. Egli
stesso poté vedere da un'altura in quali difficoltà si dibattessero i
suoi. Confidando però nel fatto che il luogotenente fosse ancora in grado
di reggere lo scontro, pur essendo già così vicino da poter accorrere in
aiuto in caso di pericolo, volle che il nemico si sfiancasse il più
possibile, in modo da poterlo aggredire con le truppe fresche quando ormai
fosse allo stremo delle forze. Pur avanzando molto lentamente, restava ora
poco spazio per lanciare la carica, specialmente per i cavalieri. In testa
marciavano le insegne della fanteria, per evitare che il nemico avesse a
sospettare mosse a sorpresa o tranelli. Ma il dittatore aveva lasciato
intervalli tra le file di fanti, in modo che ci fosse spazio a sufficienza
per far caricare i cavalli. Non appena si levò il grido di battaglia, i
cavalieri si lanciarono a briglia sciolta contro i nemici che, impreparati
a resistere all'urto imperioso della cavalleria, vennero colti da un
attacco improvviso di panico. Così, anche se l'aiuto per poco non arrivava
troppo tardi agli uomini che stavano per essere sopraffatti, ora poterono
finalmente riposarsi per bene. Infatti subentrarono nel combattimento i
soldati freschi, e lo scontro non fu più né incerto né si trascinò per le
lunghe. Travolti, i nemici puntarono verso l'accampamento, e cedendo ai
Romani che stavano già facendo breccia si andarono ad ammassare sul lato
opposto del campo. I fuggitivi restarono intrappolati negli stretti
passaggi delle porte: molti salivano sulla trincea e sul terrapieno,
sperando di difendersi meglio da quella posizione elevata o di scavalcarne
il perimetro in qualche punto e scappare. Ma per puro caso avvenne che il
terrapieno, non essendosi ancora rassodato per bene, a causa del peso dei
soldati che vi si trovavano al di sopra franò in un punto sbriciolandosi
nel fossato sottostante: sfruttando quella breccia i nemici - più numerosi
quelli disarmati che quelli armati - si precipitarono fuori urlando che
gli dèi avevano voluto aprire loro una via di fuga.
Quella battaglia fu la seconda occasione in cui la potenza etrusca
venne sopraffatta, e il dittatore concesse agli sconfitti di mandare
ambasciatori a Roma per discutere la pace, a patto che pagassero lo
stipendio di un anno all'esercito e lo rifornissero di viveri per due
mesi. La pace fu negata, mentre venne concessa una tregua di due anni. Il
dittatore tornò a Roma in trionfo. Alcuni autori riferiscono che il
dittatore riportò la pace in Etruria senza dover combattere battaglie
degne di menzione, limitandosi a soffocare l'insurrezione degli Aretini
grazie a una riconciliazione della plebe con la famiglia dei Cilni. Dopo
la dittatura, Marco Valerio venne eletto console. Secondo alcune fonti
egli venne eletto pur non avendo presentato la candidatura e per di più
restando assente, e a presiedere quelle elezioni fu un interré. Ciò su cui
tutti si trovano d'accordo, è che egli detenne il consolato insieme ad
Apuleio Pansa.
6 Durante il consolato di Marco Valerio e di Quinto Apuleio la
situazione all'estero si mantenne relativamente pacifica. La sconfitta
patita e la tregua concordata costringevano gli Etruschi a rimanere
inattivi; i Sanniti, provati dalle perdite di molti anni di guerra, per il
momento non erano scontenti del nuovo trattato; e anche a Roma la partenza
di una cospicua quantità di persone verso le colonie aveva reso la plebe
più tranquilla liberandola di molti oneri. Eppure, per far sì che non
tutto fosse calmo, i tribuni Quinto e Gneo Ogulnio aprirono una
controversia tra le famiglie più in vista del patriziato e della plebe.
Dopo aver tentato con ogni mezzo di mettere in cattiva luce i patrizi agli
occhi della plebe, i due tribuni, avendo visto fallire altri tentativi, si
fecero carico di un'iniziativa rivolta non tanto alla parte più bassa
della plebe, quanto piuttosto alle sue personalità egemoni, cioè quei
plebei che erano stati consoli riportando trionfi, ai quali - tra le tante
cariche ricoperte - mancavano ormai soltanto quelle di natura religiosa,
che non erano ancora aperte alla plebe. Proposero quindi una legge in base
alla quale venissero aggiunti ai quattro pontefici e ai quattro àuguri già
esistenti quattro pontefici e cinque àuguri eletti all'interno della
plebe. Non ho trovato alcuna spiegazione al fatto che in quel periodo il
collegio degli àuguri si fosse ridotto a contare su quattro membri, a meno
che ne fossero deceduti due. È noto infatti che il numero degli àuguri
dev'essere dispari, in maniera tale che le tre antiche tribù di Ramnensi,
Tiziensi e Luceri abbiano un àugure a testa, oppure, qualora si renda
necessario un numero più alto di officianti, i sacerdoti siano sempre
moltiplicati in proporzioni pari, come successe quando, aggiungendone
cinque ai quattro esistenti, si raggiunse il numero di nove, ovvero tre
per ogni tribù. Il fatto che si avessero àuguri scelti all'interno della
plebe suscitò nei patrizi un'indignazione pari a quella provata vedendo il
consolato divenire accessibile alle masse. Davanti all'opinione pubblica
fingevano che la cosa riguardasse più gli dèi che loro stessi: gli dèi
avrebbero fatto in modo di evitare che i riti sacri subissero
contaminazioni, ed essi si auguravano soltanto che non si abbattesse
qualche calamità sul paese. Tuttavia non si opposero con grande
accanimento, abituati ormai ad avere la peggio in confronti politici di
quel tipo. Vedevano infatti che i loro avversari ormai non si limitavano
soltanto più ad aspirare alle cariche di maggiore prestigio - cariche che
in passato avevano sperato a stento di ottenere -, ma avevano raggiunto
già tutti i traguardi per i quali la lotta era stata ben più incerta, e
cioè consolati, censure e trionfi in grande quantità.
Tuttavia si aprì il dibattito tra i fautori e gli oppositori della
legge, e in particolare fra Appio Claudio e Publio Decio Mure. Dopo
essersi confrontati discutendo sui diritti del patriziato e della plebe, e
ricorrendo più o meno agli stessi argomenti usati ai tempi della legge
Licinia, proprio nel momento in cui veniva chiesta l'ammissione della
plebe al consolato, pare che Decio abbia rievocato la figura del padre,
quale molti dei presenti avevano avuto modo di vedere in carne e ossa,
quando aveva offerto in voto la propria vita per il popolo e per
l'esercito romano, con i piedi sulla lancia e indosso la toga portata alla
maniera di Gabi. Diceva che in quel momento il console Publio Decio era
parso pio e puro agli dèi immortali, allo stesso modo in cui sarebbe
apparso il suo collega Tito Manlio nel caso in cui si fosse lui offerto in
voto. Forse che quello stesso Publio Decio non avrebbe potuto essere
regolarmente scelto per celebrare i riti sacri del popolo romano? C'era
forse il rischio che gli dèi non ascoltassero le sue preghiere come quelle
di Appio Claudio? Forse Appio era più devoto nella pratica dei culti
privata e onorava gli dèi in maniera più conforme al rito di quanto non
facesse lui? Chi si era mai lamentato dei voti pronunciati a nome dello
Stato da tanti consoli e da tanti dittatori plebei prima di partire per la
guerra e durante la guerra? Che andassero a passare in rassegna i
comandanti di quegli anni, da quando cioè le guerre avevano cominciato a
essere affidate al comando e agli auspici dei plebei. Che andassero a
contare i trionfi ottenuti: ormai i plebei non dovevano più lamentarsi
nemmeno di essere inferiori quanto a nobiltà di sangue. Decio era sicuro
che, se fosse scoppiata una guerra sul momento, il senato e il popolo
romano non avrebbero fatto affidamento sui comandanti patrizi più che sui
plebei.
«E visto che le cose stanno in questi termini», aggiunse, «chi tra gli
uomini e gli dèi può considerare indegno il fatto che le insegne di àuguri
e pontefici vengano attribuite a quei gentiluomini che voi avete insignito
delle sedie curuli, della toga pretesta, della tunica palmata, della toga
ricamata, della corona trionfale e dell'alloro, le cui case avete adornato
con le spoglie nemiche appese alle pareti? L'uomo che ha attraversato la
città sul cocchio dorato ed è salito fin sul Campidoglio con indosso la
veste onorata di Giove Ottimo Massimo non potrà forse farsi vedere con la
coppa e il lituo, quando ucciderà le vittime col capo coperto dal velo e
prenderà gli auspici dall'alto della cittadella? Se nell'iscrizione ai
piedi del busto voi leggete senza rimanere sconvolti la menzione del
consolato, della censura e del trionfo, pensate che i vostri occhi non
sopporteranno di vedervi aggiunta quella dell'augurato e del pontificato?
A essere sincero - e possano gli dèi accogliere bene le mie parole - sono
fermamente convinto che noi, grazie al popolo romano, ci troviamo ormai in
una posizione tale da garantire alle cariche sacerdotali, in virtù dei
meriti acquisiti, non minor prestigio di quanto esse ne riceveranno da
noi, e da poter chiedere, nell'interesse degli dèi più che nel nostro, di
celebrare il culto pubblico di quelle divinità che noi veneriamo in
privato.
8 Ma perché, fino a questo punto, mi sono espresso come se i
patrizi continuassero ad avere privilegi assoluti in materia di cariche
sacerdotali, e noi non avessimo già il controllo di una di esse, e per di
più molto importante? Sappiamo che sono plebei i decemviri addetti alle
cose sacre, interpreti delle profezie della Sibilla e del destino di
questa gente, e inoltre custodi del tempio di Apollo e depositari di altri
riti. E come i patrizi non hanno subito alcun torto quando il numero dei
duumviri addetti alle cose sacre è stato aumentato per far posto ai
plebei, allo stesso modo un tribuno forte e intraprendente ha adesso
aggiunto quattro cariche pontificali e cinque augurali riservate ai
plebei, non certo per scalzarvi dai vostri posti, Appio, ma perché gli
esponenti della plebe operino al vostro fianco anche nell'esercizio delle
funzioni divine, come già fanno in quelle umane per quanto sta in loro
potere. Non vergognarti, Appio, di avere come collega nel sacerdozio chi
può esserlo stato nella censura o nel consolato, o potrebbe essere
dittatore mentre tu sei maestro di cavalleria o ancora maestro di
cavalleria mentre tu eserciti la dittatura. I patrizi di un tempo
accolsero tra loro uno straniero venuto dalla Sabina, capostipite della
vostra nobile stirpe, l'uomo che voi chiamate Attio Clauso o Appio
Claudio: di conseguenza non disdegnare di ammetterci nel numero dei
sacerdoti. Portiamo con noi molti titoli di prestigio, anzi quelli stessi
che vi hanno resi arroganti. Lucio Sestio fu il primo console plebeo, Gaio
Licinio Stolone il primo maestro di cavalleria, Gaio Marcio Rutilo il
primo dittatore e il primo censore, Quinto Publilio Filone il primo
pretore. Da voi abbiamo sempre sentito le stesse argomentazioni: che gli
auspici appartengono a voi, che voi soli avete sangue nobile, voi soli il
potere legittimo nonché il diritto di prendere gli auspici in pace e in
guerra. Ma fino a oggi il comando affidato ai patrizi e quello affidato ai
plebei hanno fatto registrare gli stessi risultati, e sempre sarà così
negli anni a venire. Ma non avete mai sentito dire che in origine a essere
chiamati patrizi non furono esseri scesi dal cielo, ma piuttosto
quelli che potevano chiamare il padre, o più semplicemente quanti erano
nati liberi? Io posso ormai chiamare padre un console, e mio figlio potrà
chiamare console suo nonno. Quindi, Quiriti, qui null'altro è in causa se
non il fatto che ci venga concesso quanto ci era prima negato. La sola
cosa che i patrizi cercano è il confronto politico, senza preoccuparsi
dell'esito. Io sono dell'idea che questa legge dovrebbe essere approvata
così com'è stata presentata, e che ciò possa essere motivo di prosperità
per voi e per il paese».
9 Il popolo voleva che venissero immediatamente chiamate a votare
le tribù, e sembrava che la legge fosse sul punto di essere approvata. Ma
quel giorno la decisione venne rimandata perché alcuni tribuni opposero il
proprio veto. Il giorno successivo, però, i tribuni cambiarono parere, la
legge venne approvata a grande maggioranza. Furono eletti pontefici Publio
Decio Mure, l'uomo cioé che aveva presentato la legge, Publio Sempronio
Sofo, Gaio Marcio Rutilio, e Marco Livio Dentre. I cinque àuguri
ugualmente plebei furono Gaio Genucio, Publio Elio Peto, Marco Minucio
Feso, Gaio Marcio e Tito Publilio. Venne così raggiunto il numero di otto
pontefici e nove àuguri.
Nello stesso anno Marco Valerio presentò una legge relativa al diritto
di appello al popolo, che ne sanciva i termini in maniera più rigorosa. Fu
questa la terza legge presentata sul medesimo argomento dal tempo della
cacciata dei re, e sempre su iniziativa della stessa famiglia. Io penso
che essa fosse stata riproposta in più occasioni soltanto per il fatto che
lo strapotere economico di pochi valeva più della libertà della plebe.
Tuttavia sembra che soltanto la legge Porcia, stabilendo una pena cospicua
per chi avesse frustato o ucciso un cittadino romano, sia stata presentata
al fine di proteggere l'incolumità dei cittadini. La legge Valeria,
invece, pur vietando di frustare e decapitare un cittadino che avesse
fatto appello al popolo, non stabiliva alcuna pena per chi l'avesse
violata, salvo il fatto di giudicare tale violazione un'azione «mal
fatta». Ma secondo me, in quel tempo la moralità della gente era così
solida da far sembrare quel monito un incentivo sufficiente al rispetto
della legge. Oggi nessuno rivolgerebbe un simile monito parlando
seriamente.
Lo stesso console guidò una spedizione di modesta importanza contro gli
Equi che si erano ribellati, anche se della loro fortuna di un tempo non
avevano conservato nient'altro che la fierezza interiore. L'altro console,
Apuleio, era impegnato nell'assedio della città di Nequino in Umbria:
questa città, corrispondente all'attuale Narnia, si trovava in una
posizione sopraelevata e ripida da uno dei versanti, e non era quindi
possibile prenderla con la forza né col ricorso a dispositivi d'assedio.
Perciò i nuovi consoli in carica, Marco Fulvio Peto e Tito Manlio Torquato
ricevettero in eredità l'impresa ancora incompiuta.
Licinio Macro e Tuberone riferiscono questa notizia: siccome tutte le
centurie stavano per eleggere console per quell'anno Quinto Fabio pur non
avendo quest'ultimo presentato la propria candidatura, fu lui stesso a
differire il suo consolato a un anno caratterizzato da un numero superiore
di guerre. Per quell'anno sarebbe stato invece più utile al paese
nell'esercizio di una magistratura di carattere urbano. Così, pur non
essendosi presentato candidato, ma non avendo nascosto le proprie
preferenze, sarebbe stato nominato edile curule insieme con Lucio Papirio
Cursore. Chi mi porta a mettere in dubbio questa notizia è Pisone, autore
più antico, il quale riferisce che gli edili curuli di quell'anno furono
Gneo Domizio Calvino figlio di Gneo e Spurio Carvilio Massimo figlio di
Massimo. Ho l'impressione che a far nascere l'errore sia stato il
soprannome di quest'ultimo personaggio, e che di lì derivi la storia, in
piena sintonia con l'errore che mescola le elezioni degli edili a quelle
dei consoli. Nel corso di quell'anno fu anche tenuto il censimento dai
censori Publio Sempronio Sofo e Publio Sulpicio Savarrone, e vennero
aggiunte due nuove tribù, la Aniense e la Teretina. Questo quanto avvenne
a Roma.
10 Nel frattempo, mentre attorno alla fortezza di Nequino il tempo
si trascinava in un lento assedio, due cittadini le cui abitazioni si
trovavano a ridosso delle mura scavarono un cunicolo e arrivarono di
nascosto ai posti di guardia romani; condotti al cospetto del console
asserirono di poter far entrare un manipolo armato all'interno delle mura.
La proposta non sembrò da trascurare, ma nemmeno così rassicurante da
fidarsene ciecamente. Uno dei due disertori venne trattenuto in ostaggio,
e due esploratori vennero inviati con l'altro attraverso il cunicolo
sotterraneo. Quando le loro informazioni confermarono la praticabilità del
progetto, 300 soldati alla guida del Nequinate entrarono in città nel
cuore della notte e occuparono la porta più vicina. Dopo averla abbattuta,
il console e l'esercito romano penetrarono in città senza dover alzare un
dito. Così Nequino finì in mano dei Romani. La colonia che vi venne
inviata nell'intento di fronteggiare gli Umbri prese il nome di Narnia da
quello del fiume che la attraversava: quanto all'esercito, venne riportato
a Roma carico di bottino.
Nello stesso anno gli Etruschi fecero preparativi di guerra,
contravvenendo alla tregua stipulata. Ma mentre erano impegnati in queste
faccende, un grosso contingente di Galli fece ingresso nel loro
territorio, distogliendoli per qualche tempo dai loro progetti. Ricorrendo
al denaro, di cui disponevano in grande quantità, cercarono di trasformare
i Galli da nemici in amici, in maniera da poter affrontare la guerra con
Roma contando sul loro appoggio militare. I barbari non negarono
l'alleanza, limitandosi a trattare sul prezzo. Dopo aver negoziato e
ricevuto quanto richiesto, quando ormai tutto era pronto per la guerra e
gli Etruschi li invitavano a seguirli, i Galli negarono di aver pattuito
il compenso per fare guerra ai Romani, sostenendo invece che la somma era
stata riscossa per non saccheggiare il territorio etrusco e non
tormentarne gli abitanti col ricorso alle armi. In ogni caso, se proprio
gli Etruschi insistevano, i Galli avrebbero partecipato alla guerra, ma
solo a patto di ottenere parte del territorio etrusco, in modo da potersi
finalmente stanziare in una sede sicura. I popoli dell'Etruria
organizzarono parecchie assemblee per prendere una decisione in proposito,
senza però arrivare a risultati concreti, e non tanto perché non si
sentissero di accettare una riduzione del loro territorio, quanto perché
tutti inorridivano all'idea di avere come vicini un popolo tanto feroce. I
Galli vennero così congedati, con una grossa somma di denaro conquistata
senza correre rischi e senza fatica alcuna. A Roma la notizia dell'allarme
da parte dei Galli alleati agli Etruschi seminò il panico. Fu per questo
che col popolo dei Piceni venne stipulato un trattato in tempi ancora più
brevi.
11 La campagna in Etruria toccò in sorte al console Tito Manlio.
Egli, appena entrato in territorio nemico, mentre era impegnato in
un'esercitazione insieme ai cavalieri, venne sbalzato di sella nell'atto
di far invertire la marcia al cavallo, e per poco non morì sul colpo.
Spirò due giorni dopo. Interpretando la cosa come un augurio positivo
sugli esiti del conflitto, gli Etruschi imbaldanzirono, sia per la
scomparsa di un uomo di quella levatura, sia per le difficoltà contingenti
che ne derivavano ai Romani. Il senato si astenne dal nominare un
dittatore soltanto perché dalle elezioni consolari uscì il nome
caldeggiato dai capi della città: infatti tutti i voti e tutte le centurie
designarono in qualità di console Marco Valerio, che il senato si
proponeva di nominare dittatore. Egli ricevette sùbito la disposizione di
partire per l'Etruria, per assumervi il comando dell'esercito. Il suo
arrivo frenò gli Etruschi, al punto che nessun uomo osava più uscire fuori
dai dispositivi di difesa, e la paura li aveva resi simili a tanti
assediati. Il nuovo console non riuscì a trascinarli in battaglia nemmeno
mettendo a ferro e fuoco le campagne e incendiando le case, anche se da
ogni parte si alzava il fumo degli incendi, non solo dalle fattorie, ma
anche da popolosi villaggi.
Mentre la guerra si trascinava più lentamente del previsto, i Piceni, i
nuovi alleati, vennero a informare il senato di un'altra guerra, che non a
torto incuteva timore, per i numerosi rovesci che entrambe le parti
avevano subito. I Sanniti stavano compiendo preparativi per riprendere le
ostilità, e avevano cercato di sobillare gli stessi Piceni. Il senato,
ringraziati gli alleati, si concentrò quasi integralmente sul Sannio,
distogliendo l'attenzione dall'Etruria.
Nel corso dell'anno la città venne afflitta anche da una carestia, e si
sarebbe arrivati al massimo di disagio, se - come sostengono gli autori
secondo cui Fabio Massimo sarebbe stato edile della plebe in quell'anno -
nel distribuire i viveri e nel procacciare grano quest'uomo non avesse
dimostrato lo stesso attaccamento alla causa che in molti frangenti aveva
dimostrato in guerra. Quell'anno si ebbe un interregno, di cui però non è
stata tramandata la causa. Gli interré furono Appio Claudio e quindi
Publio Sulpicio. Questi presiedette le elezioni consolari, proclamando
eletti Lucio Cornelio Scipione e Gneo Fulvio.
All'inizio dell'anno i due nuovi consoli ricevettero una delegazione di
Lucani venuti a lamentarsi del fatto che i Sanniti, non essendo riusciti a
convincerli per via diplomatica a stipulare un trattato di alleanza, erano
entrati nel loro territorio con un esercito in assetto da guerra, e lo
stavano mettendo a ferro e fuoco nella speranza appunto di indurli alla
guerra. In passato il popolo lucano aveva già commesso troppi errori: ora
erano assolutamente convinti che fosse preferibile sopportare qualsiasi
difficoltà piuttosto che irritare di nuovo i Romani. Pregavano il senato
sia di prendere i Lucani sotto la protezione di Roma, sia di liberarli
dalla violenza e dalla prepotenza dei Sanniti. Da parte loro, pur avendo
già fornito una prova di sicura lealtà scendendo in campo contro i
Sanniti, erano comunque disposti a consegnare degli ostaggi.
12 La discussione in senato fu breve: tutti si dichiararono
d'accordo nello stringere un patto di alleanza con i Lucani e nel chiedere
riparazione ai Sanniti. Ai Lucani venne data risposta positiva e fu
stipulato un trattato. Ai Sanniti furono invece inviati i feziali con
l'ordine perentorio di allontanarsi dal territorio degli alleati e di
ritirare l'esercito dai confini della Lucania. Ma sulla strada vennero
loro incontro degli inviati di parte sannita, i quali dichiararono che,
qualora fossero comparsi di fronte a un'assemblea nel Sannio, non ne
sarebbero usciti illesi. Quando la cosa si venne a sapere a Roma, il
senato propose di dichiarare guerra ai Sanniti e il popolo avallò la
proposta.
I consoli si divisero gli incarichi: a Scipione toccò l'Etruria, a
Fulvio il Sannio, e ciascuno partì per il fronte che gli era stato
assegnato. Scipione, che progettava una campagna blanda, sul tenore di
quella dell'anno precedente, venne affrontato presso Volterra dai nemici
schierati in ordine di battaglia. Lo scontro proseguì per quasi tutto il
giorno, ed entrambe le parti subirono forti perdite. La notte sopraggiunse
senza che si potesse capire a chi fosse andata la vittoria. Ma la luce del
giorno successivo mise in chiaro chi fosse il vincitore e chi il vinto:
gli Etruschi, infatti, avevano abbandonato l'accampamento durante la
notte. I Romani scesi in battaglia, vedendo che la partenza del nemico
aveva consegnato loro in mano la vittoria, si avvicinarono
all'accampamento: lo trovarono deserto e se ne impadronirono raccogliendo
un bottino ricchissimo (era infatti un campo fisso abbandonato in fretta e
furia). Il console riportò poi le truppe nel territorio dei Falisci.
Lasciati i carriaggi a Faleri insieme con una guarnigione di modeste
proporzioni, si diede a saccheggiare il territorio nemico con gli uomini
liberi da pesi. Tutto venne messo a ferro e fuoco, e dovunque si rastrellò
del bottino. E non si limitarono a devastare le campagne, ma incendiarono
anche posizioni fortificate e villaggi. Il console evitò comunque di
attaccare la città, dove il panico aveva costretto gli Etruschi a cercare
rifugio.
Una celebre battaglia nei pressi di Boviano, nel Sannio, fece
registrare una netta vittoria del console Gneo Fulvio che, avendo assalito
Boviano e poco dopo anche Aufidena, le prese entrambe con la forza.
13 Nello stesso anno fu fondata una colonia a Carseoli, nel
territorio degli Equicoli. Il console Fulvio celebrò il trionfo sui
Sanniti. Quando le elezioni dei consoli erano ormai alle porte, cominciò a
circolare la voce che Etruschi e Sanniti stavano allestendo grossi
eserciti. Si diceva che in tutte le assemblee i capi etruschi venivano
attaccati senza mezzi termini per non essere riusciti a trascinare in
nessun modo i Galli in guerra, i magistrati sanniti per aver gettato allo
sbaraglio contro i Romani l'esercito che era stato raccolto contro i
Lucani. E così i nemici, unendo le proprie forze a quelle degli alleati,
stavano per sollevarsi in guerra, e i Romani dovevano affrontare uno
scontro impari. Questo stato di grande allarme fece sì che, pur aspirando
al consolato dei candidati di valore, tutti votarono Quinto Fabio Massimo,
che in un primo tempo non aveva nemmeno presentato la propria candidatura,
e che poi, vedendo l'orientamento degli elettori, continuava a rifiutare
la carica. Chiedeva perché mai continuassero a rivolgersi a lui, vecchio
com'era e dopo tutte le fatiche sostenute e i riconoscimenti avuti in
cambio delle sue fatiche. Diceva che il fisico e la mente non erano più
nelle condizioni di un tempo, e aveva paura che a qualche dio sembrasse
eccessiva la fortuna toccatagli, e più costante di quanto non fosse lecito
alla natura umana. Era salito fino alla gloria dei più anziani, e adesso
sarebbe stato un piacere vedere altri assurgere alla sua gloria. E a Roma
non mancavano certo né alti riconoscimenti per uomini di valore, né uomini
di valore all'altezza di tali riconoscimenti. Con una modestia simile non
faceva che incrementare il più che giusto entusiasmo del popolo: pensando
allora di poterne vincere la resistenza con un richiamo al rispetto delle
leggi, pregò di leggere ad alta voce la legge in virtù della quale nessuno
poteva essere rieletto console prima del termine di dieci anni. Ma il
frastuono era tale che la legge si udì a malapena; per giunta i tribuni
della plebe ripetevano che essa non avrebbe rappresentato affatto un
ostacolo: si impegnavano a presentare al popolo una legge che dispensasse
Fabio dall'obbligo di rispettare la normativa precedente. Fabio insisteva
nel rifiutare, domandando che senso avesse fare delle leggi se poi a
violarle per primi erano gli stessi che le proponevano. Ma anche così il
popolo iniziò a votare, e ogni centuria convocata all'interno non aveva
esitazioni a designare console Fabio. Fu allora che Fabio, vinto infine
dal consenso di un'intera città, disse: «Possano gli dèi approvare,
Quiriti, quello che fate e che siete sul punto di fare. Ma dato che di me
finirete per fare ciò che volete voi, almeno accontentatemi nella nomina
del collega: vi prego di nominare console con me Publio Decio, uomo degno
di voi e del padre: di lui ho potuto sperimentare le qualità durante un
consolato retto in perfetto accordo». La raccomandazione sembrò giusta.
Tutte le centurie residue nominarono consoli Quinto Fabio e Publio
Decio.
Quell'anno molti cittadini vennero citati in giudizio dagli edili,
perché possedevano più terreno di quanto fosse consentito dalla legge.
Quasi nessuno venne assolto, il che pose un forte freno agli eccessi di
cupidigia.
14 I nuovi consoli, Quinto Fabio Massimo per la quarta volta e
Publio Decio Mure per la terza, dovevano scegliere il proprio campo di
operazione, contro i Sanniti l'uno, contro gli Etruschi l'altro. Mentre
discutevano quante forze fossero necessarie per ciascun fronte, e chi dei
due fosse più indicato a gestire l'una o l'altra campagna, arrivarono
ambasciatori da Sutri, Nepi e Faleri ad annunciare che i popoli
dell'Etruria stavano tenendo assemblee apposite sulla richiesta di pace.
Perciò tutti gli sforzi bellici vennero concentrati sull'obiettivo
sannita. Partiti da Roma, i consoli guidarono gli eserciti nel Sannio
seguendo percorsi diversi, per far sì che l'approvvigionamento di viveri
fosse più facile e il nemico avesse maggiori incertezze sulla direzione
dell'attacco. Fabio passò attraverso il territorio di Sora, Decio
attraverso quello dei Sidicini. Arrivati al confine, entrambi avanzarono
in ordine sparso dedicandosi al saccheggio, spingendosi però ad esplorare
aree più lontane di quelle saccheggiate. Per questo non sfuggì loro che i
nemici si erano concentrati in una valle nascosta presso Tiferno, con il
proposito di aggredire i Romani da un punto sopraelevato quando fossero
entrati nella valle. Lasciati i carriaggi in un luogo sicuro, con un
modesto presidio, Fabio avvertì gli uomini dell'imminenza del
combattimento, e si avvicinò in formazione a colonne affiancate al
nascondiglio dei nemici. I Sanniti, persa la speranza della sorpresa,
poiché prima o poi si doveva pure arrivare allo scontro aperto,
preferirono uscire allo scoperto schierandosi anch'essi in ordine di
battaglia. Così scesero a valle, affidandosi alla sorte più con la forza
del coraggio che con quella della speranza. Ciò non ostante, sia perché
avevano messo insieme il meglio degli uomini di tutte le genti sannite,
sia perché uno scontro la cui posta era tanto elevata ne accresceva
l'ardore, anche in campo aperto restarono per qualche tempo avversari
capaci di incutere timore.
Fabio, vedendo che il nemico non cedeva in nessun punto, ordinò ai
tribuni militari Massimo, suo figlio, e Marco Valerio, col quale si era
spinto fino in prima fila, di avvicinarsi ai cavalieri e di esortarli, nel
ricordo di altre occasioni in cui l'intervento della cavalleria aveva
aiutato la repubblica, a fare di tutto quel giorno per mantenere intatta
la reputazione del loro ordine. Nell'urto con la fanteria, i nemici erano
rimasti sulle proprie posizioni, e ormai ogni speranza era affidata alla
carica dei cavalieri. Poi, rivolgendosi in particolare ai due giovani con
lo stesso affetto, li coprì di lodi e di promesse. Qualora però anche quel
tentativo di sfondamento non avesse avuto successo, convinto di dover
ricorrere all'astuzia ove la forza non fosse stata sufficiente, Fabio
ordinò al luogotenente Scipione di ritirare dallo scontro gli astati della
prima legione e di portarli verso i monti vicini, agendo nella maniera
meno evidente possibile, e poi, attraverso un percorso non in vista, di
far salire il suo manipolo fin sulla cima, sbucando all'improvviso alle
spalle del nemico. E i cavalieri, con alla testa i tribuni spintisi tutt'a
un tratto in prima linea, crearono scompiglio tra i nemici non meno che
tra gli stessi compagni. Il fronte sannita tenne duro contro la carica
della cavalleria, senza indietreggiare o aprirsi in alcun punto. I
cavalieri, poiché il loro assalto non aveva avuto successo, si ritirarono
alle spalle della fanteria abbandonando il combattimento. Quell'episodio
fece crescere l'ardore dei nemici, e la prima linea non avrebbe potuto
reggere un urto protratto tanto a lungo, se il console non avesse ordinato
alla seconda di prenderne il posto. Fu allora che le forze fresche
fermarono i Sanniti già in procinto di avanzare, mentre la vista degli
uomini armati comparsi all'improvviso sulle cime delle alture, e le urla
da essi levate spaventarono i nemici al punto da far loro temere un
pericolo superiore alle sue reali proporzioni. Fabio infatti gridò che il
collega Decio si stava avvicinando, e allora ogni soldato romano esultò,
urlando al colmo dell'eccitazione che stava arrivando l'altro console con
le sue legioni. Quest'errata interpretazione, un vero vantaggio per i
Romani, diventò per i Sanniti motivo di sgomento e incentivo alla fuga:
già stremati, avevano il terrore di essere sopraffatti da quell'altro
esercito in forze e ancora intatto. Erano fuggiti disordinatamente in
varie direzioni, e il massacro che seguì non eguagliò per proporzioni la
vittoria. Le vittime tra i nemici furono 3.400, i prigionieri 830,
ventitré le insegne conquistate.
15 Prima della battaglia, ai Sanniti si sarebbero uniti gli Apuli,
se solo il console Publio Decio non si fosse accampato di fronte a loro a
Malevento, e non li avesse attirati a combattere e duramente sconfitti.
Anche in questo caso la fuga fu più grossa del massacro: vennero uccisi
2.000 Apuli. Lasciando poi da parte quel nemico, Decio guidò le sue
legioni nel Sannio. Lì i due eserciti consolari, sparpagliandosi in zone
diverse, in cinque mesi misero a ferro e fuoco tutta la regione. Decio si
accampò in quarantacinque punti diversi del Sannio, l'altro console in
ottantasei. E non rimasero soltanto le tracce della trincea e del
terrapieno, ma in tutte le regioni saccheggiate i segni delle devastazioni
furono ben più evidenti. Fabio espugnò anche la città di Cimetra, dove
vennero fatti prigionieri 2.900 soldati e uccisi circa 930 nemici nello
scontro.
Fabio andò poi a Roma per presiedere le elezioni, compiendo rapidamente
le operazioni connesse. Poiché le prime centurie chiamate al voto
designavano tutte Quinto Fabio come console, Appio Claudio, candidato alla
carica, energico e ambizioso com'era, impiegò tutte le proprie risorse e
quelle dell'intero patriziato per farsi nominare console assieme a Quinto
Fabio, non tanto perché gli premesse la carica, quanto piuttosto perché i
patrizi si riappropriassero dei due posti di console. Sulle prime Fabio
rifiutava l'incarico, con gli stessi argomenti dell'anno precedente. Fu
allora che l'intera nobiltà si avvicinò al suo scranno, pregandolo di
tirare fuori il consolato dal fango plebeo, e di restituire la nobiltà di
un tempo sia alla carica sia alle famiglie patrizie. Imposto il silenzio,
Fabio con un discorso molto equilibrato placò l'animosità delle parti in
causa. Disse infatti che avrebbe accettato come validi i nomi dei due
patrizi, se solo avessero eletto console una persona che non fosse lui.
Non avrebbe però ritenuta valida la propria elezione, per il cattivo
esempio che sarebbe venuto da una violazione della legge. Così, assieme ad
Appio Claudio venne eletto console il plebeo Lucio Volumnio (i due si
erano già trovati a fianco in un precedente consolato). I nobili
accusarono Fabio di aver voluto evitare un collega come Appio Claudio che
gli sarebbe senza dubbio stato superiore per capacità oratorie e per doti
politiche.
16 Concluse le elezioni, ai consoli uscenti venne data disposizione
di proseguire la guerra nel Sannio, con la concessione di sei mesi di
proroga al loro incarico. E così anche l'anno successivo, durante il
consolato di Lucio Volumnio e Appio Claudio, Publio Decio - lasciato dal
collega nel Sannio in qualità di console - continuò come proconsole a
saccheggiare senza tregua le campagne, fino a quando riuscì finalmente a
espellere l'esercito sannita, che non aveva mai avuto il coraggio di
affidarsi allo scontro aperto. I Sanniti respinti si diressero in Etruria:
pensando con quell'esercito tanto massiccio, mescolando preghiere e
minacce, di poter meglio raggiungere lo scopo più volte vanamente
inseguito per vie diplomatiche, chiesero che venisse convocata
un'assemblea dei capi Etruschi. Una volta riuniti, ricordarono agli
Etruschi per quanti anni avessero combattuto contro i Romani in difesa
della loro libertà: avevano tentato ogni via, pur di riuscire a sostenere
soltanto con le proprie forze una guerra tanto onerosa, arrivando perfino
a chiedere il sostegno (a dire il vero ben poco efficace) dei popoli
circostanti. Avevano chiesto al popolo romano di ottenere la pace, quando
non erano più in grado di sostenere la guerra. Avevano ricominciato a
combattere, perché una pace da servi era ben più pesante di una guerra da
liberi. La sola speranza residua era riposta negli Etruschi. Sapevano che
era la gente più ricca d'Italia quanto ad armi, uomini e denaro, e che
come vicini avevano i Galli, un popolo nato tra il ferro e le armi, già
disposto alla guerra per la sua stessa natura, e in particolare nei
confronti dei Romani, che essi ricordavano, certo senza vana millanteria,
di aver sottomesso e obbligato a un riscatto a peso d'oro. Se solo negli
Etruschi albergava ancora lo spirito che in passato aveva animato Porsenna
e i suoi antenati, non mancava nulla perché essi, cacciati i Romani da
tutta la terra al di qua del Tevere, li costringessero a lottare per la
propria salvezza, invece che per un insopportabile dominio sull'Italia.
L'esercito sannita era lì, pronto per loro, con armi e denaro per pagare i
soldati, disposto a seguirli su due piedi, anche se avessero voluto
portarlo ad assediare addirittura Roma.
17 Mentre i Sanniti andavano agitando e macchinando questi
propositi, la guerra portata dai Romani stava devastando il loro paese.
Infatti Publio Decio, quando venne a sapere tramite gli informatori che
l'esercito sannita si era messo in marcia, convocò il consiglio di guerra
e disse: «Perché restiamo a vagare per le campagne, portando la guerra da
un villaggio all'altro? Perché non attacchiamo le mura delle città? Il
Sannio ormai non è più presidiato da nessun esercito: ritirandosi dalle
loro terre, si sono inflitti da soli l'esilio». Poiché tutti approvavano
la sua proposta, guidò l'esercito all'assalto di Murganzia, una città ben
fortificata. E l'entusiasmo dei soldati fu tanto, sia per l'attaccamento
alla persona del comandante, sia per la speranza di poter raccogliere un
bottino più cospicuo di quello ricavato dalle incursioni nelle campagne,
che la città venne espugnata in un solo giorno. I soldati sanniti
sopraffatti e catturati furono 2.100, e si aggiunse altro bottino in
grande quantità. Per evitare che l'eccessivo peso della preda rallentasse
la marcia dell'esercito, Decio convocò i soldati e disse loro: «Volete
accontentarvi di quest'unica vittoria e di quest'unico bottino? Volete
coltivare sogni all'altezza dei vostri meriti? Tutte le città del Sannio e
le fortune rimaste nelle città sono vostre, perché finalmente avete
cacciato via dal Sannio le loro legioni sconfitte in così numerose
battaglie. Vendete questi beni e attirate i mercanti a seguire la marcia
dell'esercito agitando ai loro occhi la prospettiva di lauti guadagni: io
vi procurerò sempre nuovo bottino da vendere. Partiamo per Romulea, dove
vi aspettano non maggiore fatica e maggiore guadagno».
Venduto il bottino, furono i soldati stessi a sollecitare il
comandante, e si partì alla volta di Romulea. Anche lì, senza dover
ricorrere ad assedi e macchine da lancio, appena le truppe si avvicinarono
alla città, non ci fu forza che riuscisse a contenerne l'urto: accostarono
sùbito le scale alle mura nei punti che si trovavano più vicino a ogni
soldato, e ne raggiunsero in un attimo la sommità. La città fu presa e
saccheggiata. Gli uomini uccisi furono circa 2.300, i prigionieri 6.000. I
soldati romani si impadronirono di un cospicuo bottino, che misero in
vendita, come già quello precedente. Di lì vennero portati a Ferentino,
sempre sostenuti dall'entusiasmo, non ostante non fosse stato loro
concesso alcun riposo. In quella città le difficoltà e i rischi furono
maggiori: le mura erano difese con estremo accanimento, e la posizione era
protetta da fortificazioni e dalla conformazione stessa del luogo. Ma gli
uomini, abituati a far bottino, riuscirono a superare ogni ostacolo. Circa
3.000 nemici vennero uccisi attorno alle mura, mentre la preda venne
lasciata ai soldati. Secondo alcuni annalisti, il merito maggiore della
cattura di queste città fu di Massimo: riferiscono che Murganzia sarebbe
stata espugnata da Decio, Ferentino e Romulea invece da Fabio. C'è poi chi
attribuisce quest'impresa ai nuovi consoli. Altri ancora non a entrambi,
ma al solo Lucio Volumnio, cui sarebbe stato affidato il comando della
spedizione nel Sannio.
18 Mentre nel Sannio venivano compiute queste imprese (non importa
sotto il comando e gli auspici di chi), in Etruria molti popoli stavano
preparando una grossa guerra contro i Romani; la mente dell'operazione era
il sannita Gellio Egnazio. Quasi tutti gli Etruschi avevano deciso di
prendere parte a quel conflitto, che aveva contagiato le popolazioni della
vicina Umbria, e anche truppe ausiliarie formate da Galli attirati dai
soldi. Tutta questa gente si stava radunando presso l'accampamento dei
Sanniti. Quando la notizia dell'improvvisa sollevazione arrivò a Roma -
dato che il console Lucio Volumnio era già partito alla volta del Sannio
con la seconda e la terza legione e con 15.000 alleati -, si decise che
Appio Claudio partisse quanto prima per l'Etruria. Lo seguivano due
legioni, la prima e la quarta, e 12.000 alleati. L'accampamento venne
posto non lontano dal nemico.
L'arrivo del console servì più perché giunse opportunamente a
trattenere con la sola paura del nome di Roma alcune popolazioni
dell'Etruria che avevano già intenzione di entrare in guerra, che perché
sotto il suo comando fosse stata realizzata qualche abile o riuscita
operazione. Molti scontri si svolsero in punti e momenti sfavorevoli, e i
nemici, fiduciosi com'erano nelle proprie forze, diventavano giorno dopo
giorno sempre più temibili. Ormai si era già quasi arrivati al punto che i
soldati romani non avevano fiducia nel comandante, né il comandante nei
soldati. In tre diversi annalisti ho trovato che Appio avrebbe inviato al
collega un messaggio col quale lo richiamava dal Sannio. Tuttavia non mi
sento di accettare come vera la notizia, perché i due consoli romani - che
ricoprivano quella stessa carica già per la seconda volta - si trovarono
in disaccordo sullo svolgimento dei fatti: Appio negava di aver mandato il
messaggio, mentre Volumnio sosteneva di esser stato convocato da una
lettera di Appio. Volumnio aveva già espugnato nel Sannio tre piazzeforti,
uccidendovi circa 3.000 nemici e facendone prigionieri 1.500. In Lucania
c'era poi stata un'insurrezione organizzata da plebei e indigenti: a
sedarla, con grande soddisfazione degli ottimati, era stato Quinto Fabio,
spedito in quella zona come proconsole, con il vecchio esercito. Volumnio
lasciò al collega l'incarico di mettere a ferro e fuoco il territorio
nemico, e partì coi suoi uomini per l'Etruria, per raggiungervi il
collega. Il suo arrivo venne salutato con entusiasmo da tutti. Ma Appio
che, immagino, in base alla sua coscienza avrebbe dovuto o sentirsi a buon
diritto in collera (nel caso non avesse scritto nulla), oppure dimostrarsi
ingiusto e ingrato (qualora stesse cercando di nascondere la cosa pur
avendo chiesto soccorso), gli andò incontro senza ricambiare il saluto e
disse: «Come va, Lucio Volumnio? E la situazione nel Sannio? Cosa ti ha
spinto ad abbandonare il fronte di guerra che ti è stato assegnato?».
Volumnio replicò che le cose nel Sannio procedevano bene, e aggiunse di
essersi presentato perché convocato da un suo messaggio. Se però si
trattava di un falso allarme, e non c'era bisogno di lui in Etruria,
allora sarebbe immediatamente ripartito. «Vai pure, allora», replicò
Appio, «nessuno ti trattiene: non ha senso che tu, che sei a malapena in
grado di fronteggiare la tua campagna, ti debba vantare di esser venuto a
portare aiuto agli altri». Augurandosi che Ercole potesse fare andare
tutto per il meglio, Volumnio disse che preferiva aver perduto tempo
invano, piuttosto che fosse successo qualcosa per cui in Etruria un solo
esercito consolare non fosse sufficiente.
19 Mentre erano già sul punto di congedarsi, i due consoli vennero
circondati dai luogotenenti e dai tribuni dell'esercito di Appio. Alcuni
di essi imploravano il loro comandante di non respingere l'aiuto offerto
spontaneamente dal collega (aiuto che sarebbe stato necessario
richiedere); la maggior parte, attorniando Volumnio in atto di partire, lo
supplicava di non tradire il paese per un'insulsa rivalità col collega: se
solo ci fosse stato qualche disastro, la responsabilità sarebbe stata
addossata più su chi aveva abbandonato l'altro che su chi era stato
abbandonato. La situazione era tale, che ormai tutto il merito di un
successo o il disonore di un insuccesso sarebbero toccati a Lucio
Volumnio. Nessuno si sarebbe preoccupato di sapere quali fossero state le
parole di Appio, ma solo quale sorte fosse toccata all'esercito. Appio lo
aveva congedato, ma a trattenerlo erano la repubblica e l'esercito:
bastava solo mettesse alla prova la volontà dei soldati.
Con queste parole di monito e queste suppliche essi riuscirono a
trascinare nell'assemblea i due consoli riluttanti. Lì vennero pronunciati
dei discorsi più argomentati, ma identici nella sostanza a quelli già
pronunciati nella discussione ristretta. E poiché Volumnio, il quale aveva
maggiori ragioni, quanto a doti oratorie non sembrava meno dotato del
brillante collega, Appio disse ironicamente che i soldati gli dovevano
gratitudine, se ora avevano un console eloquente, da muto e senza lingua
ch'era prima: nel corso del precedente consolato, non era mai riuscito ad
aprire bocca, mentre adesso teneva discorsi che conquistavano il favore
delle masse. Volumnio allora ribatté: «Come preferirei che tu avessi
imparato da me ad agire con decisione, piuttosto che io da te a esprimermi
in maniera raffinata!». Poi propose di stabilire in questo modo chi dei
due fosse non tanto il miglior oratore (non di questo aveva bisogno lo
Stato), quanto il miglior generale: poiché le zone di operazione erano
l'Etruria e il Sannio, Appio scegliesse pure quella che preferiva. Lui,
Volumnio, con il suo esercito avrebbe condotto la campagna
indifferentemente sia in Etruria che nel Sannio.
Allora i soldati cominciarono a gridare che la guerra contro gli
Etruschi doveva essere condotta collegialmente da entrambi. E Volumnio,
vedendo che tutti erano di questo avviso, disse: «Poiché ho sbagliato
nell'interpretare le intenzioni del collega, non lascerò che restino dubbi
circa le vostre: fatemi capire col vostro grido se preferite che io resti
oppure che me ne vada». L'urlo che allora si levò fu così potente, che i
nemici uscirono dalle tende e presero le armi andandosi a schierare in
campo. Anche Volumnio fece dare il segnale di battaglia e ordinò di uscire
dall'accampamento. Pare che Appio abbia avuto un attimo di esitazione,
constatando che la vittoria sarebbe stata merito del collega, che egli
intervenisse nel combattimento o no. Poi, temendo che le sue legioni
seguissero Volumnio, diede anch'egli il segnale di battaglia ai suoi che
lo stavano chiedendo con impazienza.
I due eserciti non avevano potuto schierarsi in maniera ordinata.
Infatti da una parte il comandante dei Sanniti si era allontanato con
alcune coorti per andare alla ricerca di rifornimenti e i soldati si
gettavano nella mischia seguendo più l'stinto che gli ordini e la guida di
un comandante; dall'altra, gli eserciti romani non erano stati portati in
linea di combattimento nello stesso istante e non c'era stato nemmeno il
tempo sufficiente perché le forze venissero schierate. Volumnio si scontrò
col nemico prima dell'arrivo di Appio, e così nel fronte di combattimento
non ci fu continuità. E poi, come se il destino avesse voluto invertire i
nemici di sempre, gli Etruschi andarono a fronteggiare Volumnio, mentre i
Sanniti, dopo un attimo di esitazione per l'assenza del loro comandante,
si presentarono nella zona di Appio. Pare che nel pieno dello scontro
Appio levò le mani al cielo tra le prime file (in modo che tutti lo
vedessero), pronunciando questa preghiera: «O Bellona, se oggi ci
garantisci la vittoria, prometto di dedicarti un tempio». Dopo aver
rivolto questa preghiera, quasi lo sospingesse la dea, eguagliò il collega
in atti di valore, e i suoi uomini furono pari al generale. I comandanti
fecero il loro dovere, mentre i soldati si impegnarono al massimo perché
la vittoria non avesse inizio dall'altra parte dell'esercito. Così
travolsero e misero in fuga i nemici, che non potevano reggere l'urto di
forze superiori a quelle con cui di solito combattevano in passato.
Incalzandoli quando cominciavano a cedere e poi inseguendoli mentre
fuggivano disordinatamente, li ricacciarono verso l'accampamento. Lì
l'arrivo di Gellio e delle coorti sannite fece sì che la battaglia si
riaccendesse per un po' di tempo. Ma anche queste nuove forze vennero in
breve sopraffatte, e i vincitori si lanciarono all'assalto
dell'accampamento. Mentre Volumnio in persona spingeva le sue truppe
contro la porta, e Appio infiammava gli animi dei suoi soldati continuando
ad acclamare Bellona vincitrice, fecero breccia attraverso il terrapieno e
il fossato. L'accampamento fu preso e saccheggiato. Il bottino prelevato
fu cospicuo e venne lasciato ai soldati. Furono uccisi 7.800 nemici, fatti
prigionieri 2.120.
20 Mentre entrambi i consoli e tutte le forze romane erano
impegnati sul fronte della guerra etrusca, i Sanniti, allestito un nuovo
esercito, cominciarono a mettere a ferro e fuoco i territori soggetti al
dominio romano: scesi in Campania e nell'agro Falerno attraverso il
territorio dei Vescini, colsero un ingente bottino. Mentre Volumnio stava
rientrando nel Sannio a marce forzate - per Fabio e Decio si stava già
infatti avvicinando il termine della proroga dell'incarico -, le notizie
relative all'esercito sannita e alle devastazioni nel territorio campano
lo fecero deviare per andare a proteggere gli alleati. Non appena giunse
nella zona di Cale, vide coi propri occhi i segni dei recenti disastri, e
venne informato dai Caleni che il nemico stava trascinando un carico tale
di bottino da riuscire a stento a mantenere l'ordine di marcia; per questo
i comandanti sanniti affermavano senza remore che si doveva rientrare
quanto prima nel Sannio per scaricarvi il bottino, e non rischiare lo
scontro con un esercito tanto appesantito. Anche se queste informazioni
erano verisimili, il console volle saperne di più e mandò in giro dei
cavalieri col cómpito di intercettare i predatori sparsi per le campagne.
Dopo averli interrogati, venne a sapere che il nemico era accampato nei
pressi del fiume Volturno e che aveva intenzione di partire di lì a
mezzanotte, con direzione il Sannio.
Verificate le informazioni, si mise in marcia andandosi a fermare a una
distanza dai nemici tale che, per la prossimità, non potessero rendersi
conto del suo arrivo e li si potesse sorprendere mentre uscivano
dall'accampamento. Poco prima dell'alba si avvicinò all'accampamento e
inviò degli uomini che parlavano la lingua osca a esplorare i movimenti
del nemico. Ed essendosi mescolati agli avversari - cosa che non fu
difficile nella confusione della notte -, essi vennero a sapere che gli
sparuti reparti armati erano già usciti, e che adesso stavano uscendo
quelli incaricati di vigilare sul bottino, ovvero una schiera statica, in
cui ciascuno pensava soltanto alle proprie cose, senza che ci fossero una
volontà comune e un comando ben definito. Sembrò quello il momento più
indicato per l'attacco. Poiché era infatti già quasi chiaro, il console
fece dare il segnale e si riversò sulla formazione nemica. Appesantiti dal
bottino, i Sanniti, pochi dei quali erano armati, cercarono in parte di
accelerare il passo spingendo avanti il carico del bottino, e in parte
invece si fermarono, non sapendo se fosse più sicuro procedere o rientrare
al campo. Mentre esitavano, furono sopraffatti. I Romani avevano già
superato la trincea, gettando lo scompiglio e mietendo vittime
nell'accampamento. A sconvolgere la colonna dei Sanniti era stata, oltre
al repentino attacco nemico, anche l'improvvisa sollevazione dei
prigionieri, che essendosi in parte già liberati toglievano i lacci ai
compagni, mentre in parte afferravano le armi legate ai basti e,
mescolandosi alla colonna, contribuivano a rendere la situazione più
caotica della battaglia stessa. Poi però realizzarono un'impresa
eccezionale: assalito il comandante Staio Minacio che si aggirava tra i
suoi cercando di incitarli, dispersero i cavalieri del suo séguito, lo
circondarono, e fattolo prigioniero in sella al suo cavallo lo
trascinarono di fronte al console romano. La prima linea sannita tornò
indietro richiamata da quel frastuono, e la battaglia che sembrava già
decisa riprese, anche se i nemici non riuscirono a reggere a lungo.
Vennero uccisi circa in 6.000, mentre 2.500 furono fatti prigionieri (tra
di loro anche quattro tribuni militari), trenta insegne conquistate, e -
motivo di gioia ancor più grande per i vincitori - furono liberati 7.400
prigionieri e riconquistato il grosso bottino strappato agli alleati. I
legittimi proprietari vennero convocati con un editto a riconoscere le
proprie cose e a riprenderle entro un termine preciso. Gli oggetti che
nessuno si presentò a reclamare furono lasciati ai soldati, che vennero
obbligati a vendere la preda, per evitare che si concentrassero su
qualcosa di diverso delle armi.
21 La spedizione nell'agro campano aveva suscitato grande
trepidazione a Roma. Inoltre, proprio in quei giorni, dall'Etruria era
arrivata la notizia che dopo la partenza dell'esercito di Volumnio gli
Etruschi erano corsi alle armi, e che Gellio Egnazio, comandante dei
Sanniti, cercava non solo di spingere gli Umbri alla ribellione ma anche
di allettare i Galli con la promessa di una grossa ricompensa. Preoccupato
da queste notizie il senato ordinò la sospensione delle pubbliche attività
e bandì la leva generale degli uomini di ogni classe sociale. Ad essere
arruolati non furono solo gli uomini liberi e i più giovani, ma vennero
formate anche coorti di veterani, e i liberti furono inquadrati in
centurie. Inoltre fu predisposto anche un piano di difesa per Roma, e a
capo della città venne posto il pretore Publio Sempronio. Ma a liberare il
senato di parte delle sue preoccupazioni giunse una lettera con la quale
il console Lucio Volumnio riferiva che i predoni della Campania erano
stati fatti a pezzi e dispersi. Pertanto i senatori, a nome del console,
decretarono pubblici ringraziamenti agli dèi per l'esito favorevole
dell'impresa, e revocarono la sospensione dei pubblici affari, durata
diciotto giorni. E venne celebrato il rito della supplica.
Si iniziò poi a discutere circa il modo di proteggere la regione
devastata dai Sanniti, e venne deciso di fondare due colonie nei territori
di Vescia e di Falerno, una presso la foce del Liri (alla quale andò il
nome di Minturno), l'altra sulle alture di Vescia, vicino al territorio di
Falerno, dove si dice si trovasse la città greca di Sinope, chiamata poi
dai coloni romani Sinuessa. I tribuni ricevettero l'incarico di presentare
all'approvazione del popolo un decreto in base al quale il pretore Publio
Sempronio avrebbe nominato tre magistrati col cómpito di presiedere alla
fondazione di quelle colonie. Tuttavia non era facile trovare la gente da
iscrivere: dominava l'impressione di essere spediti non in una colonia
agricola, ma come a un avamposto permanente in una zona minacciata dai
nemici.
A distogliere il senato da questi problemi furono la guerra in Etruria,
che stava diventando sempre più preoccupante, e i frequenti messaggi di
Appio che consigliava con insistenza di non trascurare i moti di quella
regione: quattro popoli - Etruschi, Sanniti, Umbri e Galli - stavano
unendo le proprie forze, e avevano già posto due accampamenti distinti,
perché un unico campo non era in grado di contenere tutta quella massa di
armati. Per questo motivo, e anche per presiedere le elezioni (la data era
già alle porte), venne richiamato a Roma il console Lucio Volumnio.
Questi, prima di chiamare le centurie al voto, dopo aver convocato
l'assemblea generale, pronunciò un lungo discorso sulla gravità della
guerra in Etruria. Disse che fino a quel momento, fino a quando cioè aveva
gestito insieme al collega la campagna in Etruria, la guerra era stata
così dura, che per sostenerla non erano stati sufficienti un unico
comandante e un unico esercito. In séguito, stando a quanto si diceva, si
erano aggiunti gli Umbri e i Galli con un grosso esercito. Tenessero bene
a mente, quindi, che quel giorno venivano scelti i consoli destinati a
fronteggiare quei quattro popoli. Personalmente, se non fosse stato
convinto che il voto del popolo stava per designare al consolato l'uomo
che in quel momento era giudicato senza alcun dubbio il miglior generale a
disposizione, lo avrebbe nominato immediatamente dittatore.
22 Nessuno dubitava che Fabio sarebbe stato eletto all'unanimità
per la quinta volta: e infatti le centurie prerogative e quelle chiamate
al voto per prime lo avevano nominato console insieme a Lucio Volumnio. E
Fabio pronunciò un discorso simile a quello di due anni prima. Poi, visto
che nulla poteva contro il volere unanime del popolo, chiese infine che
gli fosse assegnato come collega Publio Decio: sarebbe stato un sostegno
per la sua vecchiaia. Nella censura e in due consolati condotti insieme
aveva avuto modo di sperimentare come nulla fosse più utile agli interessi
dello Stato che l'armonia tra i colleghi. Il suo temperamento di vecchio
avrebbe fatto fatica ad abituarsi a un nuovo compagno di comando. Con una
persona già nota sarebbe stato invece più facile concordare le strategie
di guerra. Il console si dichiarò d'accordo con le parole di Fabio,
elogiando Publio Decio per i suoi effettivi meriti, insistendo sui
vantaggi che derivano dall'armonia tra i consoli nella gestione delle
campagne militari e sui danni che nascono dal loro disaccordo, e ancora
ricordando come poco tempo prima si fosse giunti a un passo dal disastro
proprio per la divergenza di vedute tra lui e il collega. Decio e Fabio
avevano invece un solo cuore e una sola mente, e poi erano uomini nati per
la vita militare, grandi nell'azione e poco portati agli scontri a base di
lingua e parole. Queste sì erano personalità tagliate per la carica di
console: i furbi e gli scaltri, gli esperti di diritto e di eloquenza,
come Appio Claudio, bisognava tenerli per il governo della città e per la
vita pubblica, per l'elezione dei pretori deputati all'amministrazione
della giustizia. L'intera giornata trascorse in questi discorsi. Il giorno
successivo le elezioni di consoli e pretori si tennero secondo le
disposizioni del console: pur essendo tutti assenti, vennero eletti
consoli Quinto Fabio e Publio Decio, pretore Appio Claudio. In base a un
decreto del senato e a una deliberazione della plebe, a Lucio Volumnio
venne prorogato il comando delle truppe per un anno.
23 Nel corso dell'anno si verificarono molti prodigi. Per evitarne
le possibili conseguenze, il senato decretò due giorni di suppliche:
vennero offerti a spese dell'erario vino e incenso, mentre uomini e donne
andarono in massa a supplicare gli dèi. Quella supplica rimase nelle
cronache per una lite scoppiata tra le matrone all'interno del santuario
della Pudicizia patrizia, situato nel foro Boario in prossimità del tempio
rotondo di Ercole. Le matrone avevano escluso dalla partecipazione ai riti
sacri Virginia, figlia di Aulo, una patrizia moglie di un plebeo, il
console Lucio Volumnio, perché, celebrato il matrimonio, non faceva più
parte del patriziato. Ne nacque un breve screzio che, per colpa
dell'irascibilità tipica delle donne, si trasformò in una violenta lite:
Virginia a buon diritto si vantava di essere entrata da patrizia e casta
nel santuario della Pudicizia patrizia, in quanto sposata a un solo uomo
in casa del quale era stata condotta ancor vergine, e di non aver alcun
motivo di vergognarsi del marito, né della sua carriera e né dei suoi
successi in campo militare. A queste parole piene di orgoglio fece seguire
un gesto bizzarro: nel suo palazzo di via Lunga - dove abitava -, fece
ricavare uno spazio sufficiente alla costruzione di un tempietto, vi
collocò un altare e, convocate le matrone plebee, lamentandosi
dell'affronto subito dalle matrone patrizie, disse: «Consacro quest'altare
alla Pudicizia plebea e vi esorto affinché alla competizione di valori che
in questa città tiene impegnati gli uomini corrisponda, tra le donne, un
confronto in materia di pudicizia, e vi invito a impegnarvi a fondo perché
questo altare venga onorato in maniera più conforme alla religione e da
donne più caste, se è mai possibile, di quello patrizio». L'altare venne
in séguito venerato più o meno con lo stesso rituale di quello più antico,
e non aveva diritto di compiervi sacrifici nessuna matrona che non fosse
di specchiata castità e avesse contratto più di un matrimonio. Col tempo
il culto fu allargato anche alle donne che avevano perduto la castità, e
non soltanto alle matrone, ma anche alle donne di ogni classe, fino a
quando non cadde in disuso.
Lo stesso anno gli edili curuli Gneo e Quinto Ogulnio citarono in
giudizio alcuni usurai, condannati poi alla confisca di parte del
patrimonio. Col denaro che le casse dello Stato ricavarono vennero
costruite le porte di bronzo del tempio di Giove Capitolino, le
suppellettili d'argento di tre mense nella cella di Giove, il rilievo di
Giove con le quadrighe sul frontone del tempio, nonché la statua dei
gemelli fondatori di Roma sotto le mammelle della lupa, collocata nei
pressi del fico Ruminale. Venne inoltre lastricato con massi quadrati il
marciapiede tra la porta Capena e il tempio di Marte. Anche gli edili
plebei Lucio Elio Peto e Gaio Fulvio Curvo, utilizzando fondi costituiti
con ammende comminate a persone che avevano appaltato terreni sotto
vincolo, fecero allestire dei giochi e porre piatti d'oro nel tempio di
Cerere.
24 Entrarono poi in carica Quinto Fabio (console per la quinta
volta) e Publio Decio (per la quarta), che erano già stati colleghi in tre
consolati e nella censura, celebri per l'armonia di rapporti più ancora
che per la gloria militare, per altro ragguardevole. Ma a impedire che il
clima di armonia durasse in perpetuo fu una divergenza di vedute, dovuta -
a mio parere - più che a loro stessi alle rispettive classi sociali di
provenienza: mentre i patrizi premevano perché a Fabio venisse assegnato
il comando in Etruria con un provvedimento straordinario, i plebei
spingevano Decio a esigere il sorteggio. Se ne discusse in senato e,
quando fu chiaro che in quel contesto Fabio avrebbe avuto la meglio, si
finì col ricorrere al giudizio del popolo.
Di fronte all'assemblea, così come si addiceva a uomini d'armi abituati
più ai fatti che alle parole, i consoli pronunciarono due brevi discorsi.
Fabio sosteneva non fosse giusto che altri raccogliesse i frutti
dall'albero che lui aveva piantato: era stato lui a inaugurare la selva
Ciminia e ad aprire la strada agli eserciti romani attraverso quegli
scoscesi dirupi. Perché andarlo tanto a sollecitare, se poi intendevano
gestire la guerra con un altro comandante? Si rimproverava di aver scelto
un avversario, non un compagno nell'esercizio del comando, e rinfacciava a
Decio di aver tradito lo spirito di concordia col quale essi avevano
insieme condotto tre consolati. Concluse dicendo di non volere altro se
non di essere inviato su quel fronte di guerra, qualora però lo
ritenessero degno del comando. Quanto a se stesso, si sarebbe rimesso alla
volontà del popolo, così come si era rimesso a quella del senato. Publio
Decio si lamentava dell'affronto subito da parte del senato, sostenendo
che i patrizi si erano sforzati, finché era in loro potere, di impedire ai
plebei l'accesso alle magistrature più importanti. Ma poi, da quando i
valori morali erano riusciti da soli a superare i pregiudizi sociali, gli
ottimati cercavano il modo di eludere non solo il voto del popolo, ma
anche le decisioni della sorte, vincolandola alla volontà arbitraria di
pochi individui. Tutti i consoli che li avevano preceduti si erano divisi
le zone di operazioni ricorrendo al sorteggio: adesso il senato affidava a
Fabio il comando della campagna senza alcun sorteggio. Se ciò era dovuto a
un atto di onore nei suoi confronti, i meriti di quell'uomo nei riguardi
dello Stato e di lui stesso erano così grandi, da essere pronto a
favorirne la gloria, purché non risplendesse a spese del suo disonore.
Infatti, quando ci si trovava di fronte a una guerra dura e difficile e la
si affidava a uno dei due consoli senza il sorteggio, a chi poteva non
venire in mente che l'altro console era considerato inutile e di troppo?
Fabio vantava imprese compiute in Etruria: anche Publio Decio voleva avere
la possibilità di gloriarsene. E forse avrebbe spento lui il fuoco che
quell'altro aveva lasciato acceso sotto la cenere, e che tante volte
sarebbe potuto divampare, all'improvviso, in un nuovo incendio. Per
concludere, avrebbe lasciato al collega premi e riconoscimenti per il
rispetto dovuto all'età e alla dignità della persona: quando però si fosse
trattato di andare incontro al pericolo o di gettarsi nella mischia, non
si sarebbe tirato indietro di sua volontà, né lo avrebbe fatto in séguito.
E se non avesse ottenuto nient'altro da quel confronto, avrebbe almeno
ricavato questo: e cioè che fosse il popolo a ordinare ciò che spettava al
popolo di decidere, piuttosto che a concederlo, come un loro favore,
fossero i patrizi. Pregava Giove Ottimo Massimo e gli dèi immortali di
concedergli col sorteggio opportunità pari a quelle del collega, ma che
insieme gli concedessero lo stesso valor militare e la stessa buona stella
nella conduzione delle operazioni. Era certo naturale ed esemplare e in
sintonia con la fama del popolo romano che i consoli avessero una
personalità tale da permetter loro di condurre con esiti positivi la
campagna in Etruria, a chiunque dei due toccasse il comando in capo.
Fabio, rivolta al popolo un'unica preghiera prima che le tribù venissero
chiamate al voto - e cioè di ascoltare i rapporti inviati dall'Etruria dal
pretore Appio Claudio -, lasciò l'assemblea. Il comando delle operazioni
venne affidato a Fabio senza sorteggio, con un consenso del popolo non
inferiore a quello del senato.
25 Tutti i giovani si presentarono di corsa al console,
arruolandosi ciascuno di sua spontanea volontà, tanto grande era il
desiderio di prestare servizio militare agli ordini di quel generale.
Circondato da questa massa di giovani, Fabio disse: «Ho intenzione di
arruolare soltanto 4.000 fanti e 600 cavalieri. Porterò con me quanti
daranno i loro nomi tra oggi e domani. A me preme più riportarvi in patria
ricchi dal primo all'ultimo, piuttosto che fare la guerra con molti
soldati». Partito con un esercito adatto alle esigenze del momento e
formato da uomini che erano tanto più fiduciosi e sicuri per il fatto che
non era stata richiesta una grande quantità di uomini, si diresse in
fretta al campo del pretore Appio, nei pressi della città di Aarna, che
non distava molto dalle posizioni nemiche. A poche miglia da quel punto si
imbatté in alcuni soldati usciti per far legna con una scorta armata.
Quando questi si videro venire incontro i littori e vennero a sapere che
il console era Fabio, ne furono felicissimi e ringraziarono gli dèi e il
popolo romano per aver mandato loro quel comandante. Mentre poi si
accalcavano intorno al console per salutarlo, Fabio chiese loro dove
fossero diretti e, sentendo che andavano a raccogliere legna, disse loro:
«E allora? Il vostro campo non è forse circondato da una palizzata?».
Quelli risposero all'unisono che il campo era sì circondato da una doppia
palizzata e da una doppia trincea, ma che ciò non ostante vivevano nel
terrore. Fabio disse: «Dunque legna ne avete a iosa: tornatevene indietro
e abbattete la palizzata». Quelli rientrarono all'accampamento e si misero
ad abbattere la palizzata, suscitando sgomento tra gli uomini rimasti nel
campo e Appio stesso, fino a quando, passandosi parola l'uno con l'altro,
fecero sapere di agire su ordine del console Quinto Fabio. Il giorno dopo
il campo venne spostato e il pretore Appio fu rispedito a Roma. Da quel
momento i Romani non posero un campo stabile da nessuna parte: l'idea di
Fabio era che a nessun esercito giovasse lo star fermo, e che anzi le
marce e i cambiamenti di zona facessero acquistare in mobilità e in
salute. Le marce, tuttavia, duravano quanto lo permetteva l'inverno non
ancora concluso.
All'inizio della primavera Fabio lasciò la seconda legione a Chiusi -
un tempo chiamata Camars - e, affidato l'accampamento a Lucio Scipione coi
gradi di propretore, rientrò a Roma per tenervi un consiglio di guerra.
Questo sia che vi si fosse recato di sua spontanea volontà dopo aver
constatato di persona che la guerra era più delicata di quanto non
lasciassero intuire le notizie arrivate dal fronte, sia che fosse stato
convocato da un decreto del senato: le fonti riferiscono entrambe le
versioni dei fatti. Secondo alcune a farlo convocare sarebbe stato il
pretore Appio Claudio, che di fronte al senato e al popolo esagerò la
gravità del conflitto in Etruria, come per altro aveva sempre fatto nelle
sue relazioni dal fronte: sosteneva che per tener testa a quattro popoli
non sarebbero bastati un unico generale e un unico esercito. Sia che essi
avessero fatto pressione con le forze congiunte, sia che avessero gestito
la guerra separatamente, c'era il rischio che un unico comandante non
riuscisse a far fronte contemporaneamente a tutti. Egli aveva lasciato
laggiù due legioni romane, e agli ordini di Fabio erano arrivati meno di
5.000 tra fanti e cavalieri. La sua idea era che il console Publio Decio
raggiungesse quanto prima il collega in Etruria, e che le operazioni nel
Sannio venissero affidate a Lucio Volumnio. Se il console preferiva
recarsi sul fronte assegnatogli, allora era meglio che Volumnio partisse
per l'Etruria e raggiungesse il console con una regolare formazione
consolare. A quanto pare, mentre il discorso del pretore aveva convinto la
maggior parte degli uomini, Publio Decio propose invece di lasciare piena
libertà operativa e strategica a Fabio, fino al giorno in cui si fosse
presentato di persona a Roma (qualora fosse stato in grado di farlo senza
danneggiare il paese), oppure avesse inviato uno dei suoi luogotenenti,
tramite il quale il senato avrebbe potuto rendersi conto dell'effettiva
gravità della guerra in Etruria e di quanti uomini e quanti comandanti
fossero necessari per condurla.
26 Non appena Fabio arrivò a Roma, tanto in senato quanto di fronte
al popolo in assemblea non si sbilanciò nei discorsi che tenne, in maniera
da dare l'impressione di non ingrandire né diminuire le proporzioni del
conflitto e, nel caso in cui avesse associato al comando un altro
generale, di farlo più per assecondare le paure altrui che evitare a se
stesso e al paese una situazione di pericolo. E poi, se davvero volevano
assegnargli un aiuto per la guerra e un compagno da associare al comando,
come avrebbe potuto dimenticare il console Publio Decio, che aveva
sperimentato come collega in tante magistrature condotte insieme? Di tutti
non c'era nessuno che preferisse avere a fianco: con Decio le truppe
sarebbero state sufficienti e i nemici non sarebbero mai stati troppi. Se
però il collega aveva altre preferenze, gli assegnassero allora come
collaboratore Lucio Volumnio. Tanto il popolo quanto il senato e lo stesso
collega lasciarono ogni decisione finale a Fabio: e poiché Decio si era
detto pronto a partire sia per il Sannio sia per l'Etruria, la gioia e il
compiacimento generale furono tali, che già la gente pregustava la gioia
della vittoria, e si aveva l'impressione che ai consoli non fosse stata
affidata la guerra ma decretato il trionfo.
In alcuni autori ho trovato che Fabio e Decio partirono alla volta
dell'Etruria sùbito dopo essere entrati in carica, senza però alcun
accenno al sorteggio delle zone di operazione e ai dissapori tra i
colleghi di cui ho già parlato. Altri invece non soltanto riferiscono di
questi scontri verbali, ma parlano anche di accuse mosse da Appio di
fronte al popolo contro la persona di Fabio (che al momento era assente),
e di una tenace ostilità da parte del pretore verso il console quando
questi rientrò a Roma, e di altri contrasti tra i colleghi, dovuti al
fatto che Decio pretendeva che ciascuno rispettasse gli esiti del
sorteggio nell'assegnazione delle campagne. Le versioni cominciano a
coincidere dal momento in cui entrambi i consoli si trovano al fronte.
Ma prima che i consoli arrivassero in Etruria, nei pressi di Chiusi
comparve una massa di Galli Senoni, le cui intenzioni erano di attaccare
l'esercito e l'accampamento romani. Scipione, che aveva il comando del
campo, volendo sopperire all'inferiorità numerica con il favore della
posizione, fece salire l'esercito su un'altura che si trovava tra la città
e l'accampamento. Ma dato che nella fretta non aveva potuto fare
controllare il percorso, raggiunse una cima che era già stata occupata dal
nemico, salito dalla parte opposta. Così la legione, schiacciata da ogni
parte dai nemici, fu presa alle spalle e sopraffatta. Alcuni autori
sostengono che quel contingente fu completamente annientato, al punto che
non rimase in vita un solo soldato in grado di riferire la notizia della
disfatta, e che i consoli, essendo ormai nei pressi di Chiusi, non
ricevettero alcuna informazione su quel disastro fino al momento in cui
non videro coi propri occhi i cavalieri dei Galli che portavano le teste
dei romani uccisi appese al petto dei cavalli e conficcate sulle lance, e
si esibivano nei loro caratteristici canti di trionfo. Stando ad altri
autori, i nemici sarebbero stati Umbri e non Galli, e la sconfitta avrebbe
avuto altre proporzioni: a rimanere circondato sarebbe stato un reparto di
soldati addetti al foraggiamento agli ordini del luogotenente Lucio Manlio
Torquato, e il propretore Scipione sarebbe intervenuto con rinforzi
dall'accampamento, e dopo aver riequilibrato le sorti della battaglia
avrebbe piegato gli Umbri già vincitori, togliendo di nuovo dalle loro
mani i prigionieri e il bottino. Tuttavia è più aderente alla verità dei
fatti che a infliggere questa disfatta ai Romani siano stati i Galli e non
gli Umbri, perché - come già successo molte altre volte in passato - anche
quell'anno Roma venne invasa da un'ondata di panico dovuto alla minaccia
gallica. Così, mentre entrambi i consoli erano già partiti alla volta del
fronte con quattro legioni, un massiccio contingente di cavalleria romana,
1.000 cavalieri campani forniti per quel conflitto, e un esercito di
alleati e di Latini numericamente superiore a quello romano, non lontano
da Roma altri due eserciti vennero collocati di fronte all'Etruria, uno
nel territorio dei Falisci, l'altro nell'agro Vaticano. I propretori Gneo
Fulvio e Lucio Postumio ricevettero la disposizione di accamparsi
stabilmente in quelle zone.
27 Valicato l'Appennino, i consoli raggiunsero i nemici nel
territorio di Sentino, e si accamparono a circa quattro miglia da loro.
Tra i nemici ci furono quindi riunioni, nelle quali venne deciso di non
mescolarsi in un unico accampamento e di non dare battaglia tutti insieme.
I Galli vennero aggregati ai Sanniti, gli Umbri agli Etruschi. Fu
stabilita la data della battaglia, e lo scontro fu affidato ai Sanniti e
ai Galli. Gli Etruschi e gli Umbri ebbero invece l'ordine di attaccare
l'accampamento romano nel corso della battaglia. Questi piani li mandarono
a monte tre disertori di Chiusi, i quali di notte si presentarono in
segreto al cospetto del console Fabio e lo informarono dei progetti messi
a punto dal nemico. Dopo averli ricompensati, Fabio li congedò, rimanendo
d'accordo con loro che si sarebbero informati accuratamente su ogni nuova
iniziativa e sarebbero poi venuti a riferirgli. I consoli inviarono una
lettera rispettivamente a Fulvio e a Postumio: le disposizioni erano di
abbandonare la zona di Faleri e l'agro Vaticano, e di portare i loro
eserciti a Chiusi, mettendo a ferro e fuoco con la massima violenza il
territorio nemico. La notizia di queste incursioni costrinse gli Etruschi
a lasciare la zona di Sentino per andare a proteggere il proprio paese. Fu
allora che i consoli cercarono in ogni modo di arrivare allo scontro,
sfruttando la loro assenza. Per due giorni istigarono i nemici a venire
alle armi, ma in quell'arco di tempo non si registrarono operazioni degne
di nota. Da entrambe le parti ci furono poche perdite, e gli animi dei
combattenti furono spinti ad affrontare una battaglia campale, senza però
che si arrivasse mai allo scontro decisivo. Il terzo giorno i due eserciti
scesero in campo dispiegando tutte le forze in loro possesso.
Mentre erano schierati in ordine di battaglia, dalle alture scese di
corsa una cerva inseguita da un lupo, andando ad attraversare nella sua
fuga il pianoro che si apriva tra i due opposti schieramenti. Di lì i due
animali rivolsero la loro corsa in direzioni opposte, la cerva verso i
Galli, il lupo verso i Romani. Il lupo ebbe via libera tra le file, mentre
la cerva venne trafitta dai Galli. Allora un soldato romano
dell'avanguardia disse: «La fuga e il massacro sono avvenuti là dove ora
vedete a terra l'animale sacro a Diana. Da questa parte il lupo vincitore
caro a Marte, sano e salvo, ci ha richiamato alla memoria la nostra
discendenza da Marte e il nostro fondatore».
I Galli andarono ad occupare l'ala destra, i Sanniti la sinistra. Di
fronte ai Sanniti, all'ala destra romana, Quinto Fabio schierò la prima e
la terza legione, mentre contro i Galli alla sinistra Decio schierò la
quinta e la sesta. La seconda e la quarta, agli ordini del proconsole
Lucio Volumnio, erano utilizzate nella spedizione contro il Sannio. Al
primo scontro l'equilibrio tra le forze opposte fu tale, che se solo
fossero intervenuti gli Etruschi e gli Umbri rivolgendo le proprie truppe
in una qualunque delle direzioni - o verso l'accampamento o sul campo di
battaglia -, per i Romani la disfatta sarebbe stata inevitabile.
28 D'altra parte, pur essendo incerto l'esito dello scontro, e non
ostante la fortuna non avesse ancora fatto capire verso quale delle due
parti avrebbe inclinato la sua bilancia, tuttavia all'ala destra e all'ala
sinistra il combattimento non aveva affatto la stessa intensità. Dalla
parte di Fabio i Romani difendevano più che attaccare, e lo scontro si
stava trascinando fino alle ultime luci del giorno, perché il console era
fermamente convinto che i Sanniti e i Galli erano irruenti al primo urto,
ma che poi era sufficiente resistervi: se la battaglia si protraeva, a
poco a poco l'ardore dei Sanniti veniva meno, e il fisico dei Galli,
incapaci più di ogni altro popolo di sopportare fatica e calura, perdeva
vigore col passare delle ore, e mentre all'inizio dello scontro erano
qualcosa più che degli uomini, alla fine risultavano essere meno che
donne. Per questo egli cercava di conservare intatte quanto più a lungo
possibile le energie dei suoi, fino a quando il nemico cominciava a dare
segni di cedimento. Decio, più irruente per l'età che per temperamento,
impiegò sùbito nel primo scontro tutte le forze che aveva. E poiché
l'azione della fanteria gli sembrava eccessivamente statica, buttò nella
mischia la cavalleria, e mescolatosi lui stesso a quella schiera di
giovani valorosi incitò il fiore della gioventù a lanciarsi con lui
all'assalto del nemico: la loro gloria sarebbe stata doppia, se i primi
segni della vittoria fossero arrivati dall'ala sinistra e dalla
cavalleria. Per due volte costrinsero la cavalleria gallica a
indietreggiare; la seconda si spinsero più avanti, mentre stavano già
combattendo in mezzo alle schiere di fanti, e rimasero sconcertati da un
tipo di battaglia mai vista prima: arrivarono nemici armati in piedi su
cocchi e carri, con un grande frastuono di ruote e cavalli che terrorizzò
i cavalli dei Romani non abituati a quel rumore. Così la cavalleria
romana, che aveva già la vittoria in pugno, venne dispersa dal panico, con
cavalli e uomini che rovinavano a terra in una fuga precipitosa. Pertanto
anche le linee della fanteria risentirono dello sbandamento, e molti
uomini delle prime linee vennero travolti dall'impeto dei cavalli e dei
carri lanciati in mezzo alle file. Non appena la fanteria dei Galli
comprese che i nemici erano in preda al panico, si fece sotto senza
lasciar loro il tempo di riprendere fiato e di rimettersi in sesto. Decio
chiedeva urlando dove stessero fuggendo e che cosa sperassero nella fuga:
si parava di fronte ai fuggitivi e richiamava quelli già dispersi. Poi,
rendendosi conto di non essere in grado di mantenere uniti i suoi uomini
ormai allo sbando, invocando per nome il padre Publio Decio, disse:
«Perché ritardo il destino della mia famiglia? È questa la sorte data alla
nostra stirpe, di esser vittime espiatorie nei pericoli dello Stato. Ora
offrirò con me le legioni nemiche in sacrificio alla Terra e agli dèi
Mani!». Pronunciate queste parole, ordinò al pontefice Marco Livio, al
quale aveva ingiunto di non allontarsi da lui mentre scendevano in campo,
di recitargli la formula con cui offrire in sacrificio se stesso e le
legioni nemiche per l'esercito del popolo romano dei Quiriti. Si consacrò
in voto recitando la stessa preghiera, indossando lo stesso abbigliamento
con cui presso il fiume Veseri si era consacrato il padre Publio Decio
durante la guerra contro i Latini, e avendo aggiunto alla formula di rito
la propria intenzione di gettare di fronte a sé la paura, la fuga, il
massacro, il sangue, il risentimento degli dèi celesti e di quelli
infernali, e quella di funestare con imprecazioni di morte le insegne, le
armi e le difese dei nemici, e aggiungendo ancora che lo stesso luogo
avrebbe unito la sua rovina e quella di Galli e Sanniti - lanciate dunque
tutte queste maledizioni sulla propria persona e sui nemici, spronò il
cavallo là dove vedeva che le schiere dei Galli erano più compatte, e
trovò la morte offrendo il proprio corpo alle frecce nemiche.
29 Da quel momento in poi sembrò che la battaglia non dipendesse
troppo da forze umane. I Romani, perso il proprio comandante - ciò che di
solito in altri casi crea scompiglio -, riuscirono a bloccare la fuga e
cercarono di riequilibrare le sorti della battaglia. I Galli, in
particolar modo quella parte di essi che stava intorno al cadavere del
console, tiravano frecce a caso e fuori bersaglio, come avessero perso
l'uso della ragione. Alcuni erano come paralizzati e non riuscivano a
concentrarsi né sul combattimento né sulla fuga. Dalla parte opposta il
pontefice Livio, cui Decio aveva affidato i littori dandogli disposizione
di sostituirlo nel comando, urlava che i Romani avevano vinto, perché con
la morte del console si erano liberati del debito nei confronti degli dèi:
i Galli e i Sanniti appartenevano ormai alla madre Terra e agli dèi Mani,
Decio trascinava con sé richiamandolo l'esercito che aveva votato in
sacrificio con la propria persona, e i nemici erano in preda al panico e
alle furie. Poi, mentre già quelli stavano riequilibrando la battaglia,
dalle retrovie arrivarono con rinforzi Lucio Cornelio Scipione e Gaio
Marcio, inviati dal console Quinto Fabio in aiuto al collega. Lì essi
appresero la fine di Publio Decio, che era un grande incitamento a osare
qualunque tipo di azione in nome dello Stato. Poi, visto che i Galli
serravano i ranghi tenendo gli scudi attaccati al corpo per proteggersi, e
il corpo a corpo non sembrava facilmente praticabile, i luogotenenti
ordinarono di raccogliere le aste che si trovavano al suolo in mezzo ai
due schieramenti, e di scagliarle contro la formazione a testuggine dei
nemici. La maggior parte delle aste andarono a conficcarsi negli scudi e
solo poche punte trafissero la carne, ma la formazione nemica perdette
compattezza, perché molti, pur non avendo ricevuto un graffio,
stramazzarono a terra storditi.
All'ala sinistra romana furono queste le alterne vicende che si
verificarono. Alla destra Fabio - come già detto in precedenza -
temporeggiando era riuscito a protrarre lo scontro. Quando ebbe
l'impressione che sia le urla e l'animosità dei nemici sia i loro colpi
non avessero più la stessa intensità, ordinò ai prefetti della cavalleria
di guidare le ali ai fianchi dei nemici, per assalirli di lato con il
maggior impeto possibile al segnale convenuto. Ai fanti ordinò invece di
avanzare per gradi, stanando il nemico dalle posizioni in cui era
attestato. Quando si rese conto che gli avversari non opponevano
resistenza e che davano evidenti segni di spossatezza, raccolti tutti i
riservisti (tenuti in serbo per quel preciso momento), lanciò la fanteria
all'assalto e diede ai cavalieri il segnale della carica contro il nemico.
I Sanniti non ressero l'urto: superato nella foga della ritirata lo
schieramento dei Galli, abbandonarono gli alleati nella mischia, correndo
a perdifiato verso l'accampamento. I Galli, da parte loro, riformarono la
testuggine, e non si disunirono. Fu allora che Fabio, saputo della morte
del collega, ordinò ai 500 cavalieri che formavano l'ala campana di
abbandonare la linea del combattimento e di aggirare lo schieramento dei
Galli per prenderli alle spalle. Ai principes della terza legione
ordinò di seguirli, e, là dove si fossero imbattuti in reparti nemici
scompigliati dall'assalto della cavalleria, di incalzarli massacrandoli
mentre erano in preda al panico. Egli poi, promesso in voto un tempio e le
spoglie nemiche a Giove Vincitore, si diresse verso l'accampamento
sannita, dove stava convergendo tutta la massa sbandata. Proprio sotto la
trincea, poiché le porte non erano ampie abbastanza per far passare una
tale quantità di armati, gli uomini rimasti chiusi fuori cercarono ancora
una volta di ricorrere alla battaglia: lì cadde Gello Egnazio, il
comandante in capo delle forze sannite. I Sanniti vennero poi ricacciati
al di là della trincea, e dopo un brevissimo scontro l'accampamento venne
conquistato e i Galli raggiunti alle spalle. In quella giornata vennero
uccisi 25.000 nemici, mentre i prigionieri catturati ammontarono a 8.000.
Ma la vittoria non fu certo priva di perdite, visto che tra gli uomini di
Decio vi furono 7.000 caduti, tra quelli di Fabio più di 1.700. Questi
fece cercare il corpo del collega, e bruciò in onore di Giove Vincitore
una catasta fatta con le spoglie dei nemici. Per quel giorno non si riuscì
a trovare il corpo del console, perché giaceva sepolto sotto i cumuli di
Galli ammassati l'uno sull'altro. Fu rinvenuto il giorno successivo e
riportato indietro accompagnato dalle lacrime copiose dei soldati. Fabio,
lasciando da parte ogni altra incombenza, rese gli onori funebri al
collega, che onorò in ogni modo e cui rivolse un meritato elogio.
30 In quegli stessi giorni, anche in Etruria il propretore Gneo
Fabio condusse la campagna attenendosi ai piani convenuti, e oltre a
danneggiare il nemico devastandone le campagne, combatté pure con
successo, uccidendo più di 3.000 Perugini e abitanti di Chiusi e
catturando circa venti insegne militari. Mentre erano in fuga attraverso
il territorio dei Peligni, le truppe sannite furono circondate dai Peligni
stessi, e dei 5.000 originari ne vennero uccisi grosso modo 1.000.
Anche per chi non si discosta dalla realtà dei fatti, la gloria di
quella giornata in cui ebbe luogo lo scontro di Sentino è grandissima. Ma
alcuni autori, a forza di esagerazioni, hanno superato i limiti del
credibile, arrivando a scrivere che tra le file nemiche vi erano 330.000
fanti, 46.000 cavalieri e 1.000 carri (ivi inclusi Umbri ed Etruschi, che
a loro detta avrebbero preso parte anch'essi alla battaglia). Per poi
aumentare pure le forze romane, ai consoli associano come comandante il
proconsole Lucio Volumnio, unendo alle legioni consolari l'esercito di
quest'ultimo. Nella maggior parte degli annali, però, la vittoria viene
attribuita soltanto ai due consoli: nel frattempo Volumnio era occupato
nella spedizione nel Sannio e, dopo aver costretto l'esercito sannita a
riparare sul monte Tiferno, lo travolgeva costringendolo alla fuga, senza
lasciarsi mettere in soggezione dalla natura impervia del terreno.
Quinto Fabio, lasciato a Decio il cómpito di presidiare l'Etruria col
proprio esercito, riportò a Roma le sue legioni e ottenne il trionfo su
Galli, Etruschi e Sanniti. I soldati lo seguivano nella sfilata, e nei
rozzi canti militari la valorosa morte di Decio venne celebrata non meno
della vittoria di Fabio, e tra le lodi rivolte al figlio venne richiamata
la memoria del padre, il cui sacrificio e i cui successi in campo pubblico
erano stati adesso eguagliati. Dal bottino raccolto in guerra ogni soldato
ricevette ottantadue assi di rame, un mantello e una tunica, che in quel
tempo erano riconoscimenti militari non certo disprezzabili.
31 Pur avendo conseguito questi successi, né in Etruria né nel
Sannio c'era ancora la pace: infatti, dopo il ritiro dell'esercito voluto
dal console, i Perugini avevano riaperto le ostilità e i Sanniti erano
scesi a compiere saccheggi in parte nel territorio di Vescia e di Formia,
e in parte nella zona di Isernia e nella valle del Volturno. A
fronteggiarli venne inviato il pretore Appio Claudio con l'esercito di
Decio. Fabio, ritornato in Etruria per il riaccendersi delle ostilità,
uccise 4.500 Perugini e ne catturò circa 1.740, che vennero riscattati al
prezzo di 310 assi a testa: il resto del bottino raccolto venne lasciato
ai soldati. Le truppe sannite, delle quali una parte aveva alle calcagna
il pretore Appio Claudio mentre l'altra Lucio Volumnio, raggiunsero l'agro
Stellate; lì si accamparono nei pressi di Caiazia le forze sannite
riunite, mentre Appio e Volumnio allestirono un unico accampamento. Si
combatté con estremo accanimento, perché i Romani erano spinti dal
risentimento per un popolo che si era già tante volte ribellato, mentre i
Sanniti si battevano ormai per salvare le poche speranze residue. Vennero
uccisi 16.300 Sanniti, e 2.700 fatti prigionieri. Tra i Romani i caduti
furono 2.700.
Se quell'anno fu fortunato per i successi in campo militare, a
funestarlo e a turbarne la serenità furono una pestilenza e una serie di
prodigi. Arrivò infatti la notizia che in molti luoghi era piovuta terra e
che numerosi soldati dell'esercito di Appio Claudio erano stati colpiti da
fulmini: per queste ragioni vennero consultati i libri sibillini.
Quell'anno Quinto Fabio Gurgite, figlio del console, condannò al pagamento
di un'ammenda alcune matrone riconosciute colpevoli, al cospetto del
popolo, del reato di adulterio, e col denaro ricavato fece edificare il
santuario di Venere che sorge accanto al Circo Massimo.
Erano ancora in corso le guerre contro i popoli del Sannio, delle quali
stiamo parlando già da quattro libri e per la durata di quarantasei anni,
a partire dal consolato di Marco Valerio e Aulo Cornelio, che furono i
primi a guidare le legioni nel Sannio. E per non passare in rassegna le
disfatte subite da una parte e dall'altra e i disagi sopportati - che però
non riuscirono a fiaccare quei temperamenti tenaci -, basterà ricordare
che nel corso dell'ultimo anno i Sanniti erano stati sconfitti a Sentino,
nel territorio dei Peligni, sul Tiferno e nell'agro Stellate, o da soli o
insieme con altri popoli, ad opera di quattro eserciti e quattro
comandanti romani; che avevano perso il loro comandante più capace, che
vedevano Etruschi, Umbri e Galli, i loro alleati, ridotti nelle stesse
condizioni in cui essi stessi versavano; che ormai non erano in grado di
sostenersi né con le proprie forze né con quelle degli altri. Eppure non
volevano rinunciare allo scontro. Tanto lontani erano dal rinunciare a
difendere la propria libertà, anche se con scarso successo, e preferivano
uscire battuti piuttosto che abbandonare un tentativo di successo. Chi mai
potrebbe stancarsi, scrivendone o leggendone, della lunghezza di quelle
guerre, che non riuscirono a stancare gli uomini che le combatterono?
32 A Quinto Fabio e Publio Decio seguirono come consoli Lucio
Postumio Megello e Marco Atilio Regolo. Vennero entrambi inviati nel
Sannio, perché correva voce che i nemici avessero arruolato tre eserciti,
e cioè uno per ritornare in Etruria, uno per riprendere a devastare le
terre della Campania e uno per difendere il proprio territorio. Postumio
venne trattenuto a Roma da una malattia. Atilio, ligio alle decisioni
prese dal senato, partì invece immediatamente per piegare la resistenza
dei nemici prima che uscissero dal Sannio. Quasi ci fosse stato un accordo
preliminare, i Romani incontrarono i nemici in un punto in cui era loro
sbarrato l'accesso in territorio sannita, ma nel quale impedivano ai
Sanniti di scendere verso le zone assoggettate e nei territori degli
alleati del popolo romano. Accampatisi gli uni a ridosso degli altri, i
Sanniti ebbero il coraggio di mettere in pratica - questo è il grado di
temerarietà cui spinge la disperazione! - ciò che avrebbero a malapena
osato i Romani già tante volte vincitori, cioè un attacco all'accampamento
nemico. E un'iniziativa tanto audace, pur non avendo raggiunto gli scopi
prefissati, tuttavia non fu del tutto priva di efficacia. Fino a giorno
inoltrato ci fu una nebbia così spessa da rendere quasi nulla la
visibilità, impedendo di vedere non soltanto ciò che avveniva al di là
della trincea, ma anche quelli che poco più in là vi si avvicinavano
procedendo gli uni accanto agli altri. I Sanniti, sfruttando questa nebbia
come una copertura alla loro imboscata, alle prime e incerte luci
dell'alba (per di più offuscata dalla caligine), arrivarono nei pressi
della garitta dove la sentinella vigilava con scarsa attenzione la porta.
Sorpresi dall'attacco improvviso, i Romani non ebbero né la prontezza di
riflessi né la forza sufficienti per opporre resistenza. Alle loro spalle
ci fu un'irruzione attraverso la porta decumana, che portò così alla
cattura della tenda del questore e all'uccisione del questore stesso,
Lucio Opimio Pansa. Fu allora che venne dato l'allarme.
33 Svegliato dalle grida, il console ordinò a due coorti di alleati
- una composta di Lucani e l'altra di Suessani - che casualmente erano le
più vicine, di difendere il pretorio, e si mise a capo dei manipoli delle
legioni sulla via principale. Dopo aver cinto in qualche modo le armi, gli
uomini si inquadrarono nei reparti, riconoscendo i nemici più con l'udito
che con la vista, senza che fosse possibile valutarne la consistenza
numerica. Sulle prime indietreggiarono, non riuscendo a rendersi conto di
quanto stava succedendo, e lasciarono che il nemico penetrasse fino al
centro dell'accampamento. Ma poi, siccome il console gridando chiedeva se
aspettassero di farsi cacciare dalla trincea per poi espugnare quello che
era il loro accampamento, dopo aver levato il grido di battaglia,
profondendo il massimo delle sforzo riuscirono sulle prime a resistere,
poi ad avanzare e premere il nemico. Una volta respintolo, senza
lasciargli il tempo di riprendersi dalla sorpresa, lo risospinsero fuori
della porta e della trincea. Poi, mancando loro il coraggio di gettarsi
all'inseguimento, dato che la mancanza di visibilità faceva temere il
rischio di un agguato nei pressi, soddisfatti di aver liberato
l'accampamento, si ritirarono all'interno della trincea. Avevano ucciso
circa 300 nemici. Le perdite romane ammontarono a circa 730 unità, fra gli
uomini del primo posto di guardia e quelli sorpresi intorno alla tenda del
questore.
Questo episodio non certo privo di efficacia ridiede coraggio ai
Sanniti, che non solo impedirono ai Romani di avanzare, ma anche di andare
a rifornirsi di viveri nel loro territorio: gli uomini addetti al
vettovagliamento erano costretti a tornare indietro nella zona
assoggettata di Sora. La notizia dell'episodio, descritto a Roma in
termini più allarmanti di quanto in realtà non fosse, spinse il console
Lucio Postumio appena uscito dalla malattia a partire dalla città.
Comunque, prima di mettersi in marcia, dopo aver dato ordine ai soldati di
concentrarsi a Sora, inaugurò il tempio della Vittoria, che aveva fatto
edificare in qualità di edile curule usando il denaro ricavato dalle
ammende. Ricongiuntosi poi con l'esercito a Sora, di lì raggiunse il campo
del collega nel Sannio. I Sanniti allora si ritirarono, non avendo più
speranze di poter fronteggiare con successo i due eserciti, e i consoli si
misero in marcia in direzioni diverse con l'intento di mettere a ferro e
fuoco le campagne e di attaccare i centri abitati.
34 Postumio cercò in un primo tempo di impossessarsi con la forza
di Milionia. Poi, vedendo che questa tattica non dava grossi risultati,
ricorse a dispositivi d'assedio e alla fine riuscì a conquistarla
appoggiando vigne alle mura. Lì, non ostante la città fosse già occupata,
si continuò a combattere in tutti i settori dalle dieci fino quasi alle
due del pomeriggio, e l'esito fu a lungo incerto; ma alla fine i Romani si
impadronirono della cittadella. I Sanniti uccisi furono 3.200, quelli
fatti prigionieri 4.700; venne raccolto altro bottino.
L'esercito fu poi condotto a Feritro, i cui abitanti erano usciti di
nascosto nel cuore della notte attraverso la porta opposta, portando con
sé quanto poteva essere trasportato. Di conseguenza il console, non appena
arrivò nei pressi della città, cominciò ad avvicinarsi con l'esercito
schierato e pronto a sostenere una battaglia simile a quella affrontata a
Milionia. In un secondo tempo, notando che in città regnava un profondo
silenzio e vedendo che sulle torri e sulle mura non c'erano né armi né
uomini, per non cadere incautamente in un tranello, trattenne i soldati
che non vedevano l'ora di scalare le mura deserte, e ordinò a due
squadroni di cavalieri latini di esplorare accuratamente tutta la cinta
muraria. I cavalieri videro spalancate una porta e lì accanto un'altra
nella stessa zona, e sulle vie che le attraversavano riconobbero le tracce
della fuga notturna dei nemici. Cavalcarono poi con prudenza attraverso le
porte, e si resero conto che le vie cittadine si potevano percorrere in
assoluta tranquillità. Riferirono al console che la città era stata
abbandonata, come era evidente dall'assenza di abitanti, dalle tracce
recenti della fuga e dai cumuli di oggetti abbandonati alla rinfusa nel
trambusto della notte. Ascoltato questo rapporto, il console guidò
l'esercito verso la zona dove erano entrati i cavalieri latini. Fatte
fermare le truppe non lontano dalla porta, ordinò a cinque cavalieri di
entrare in città, predisponendo che dopo una limitata perlustrazione
all'interno tre rimanessero in quello stesso punto (se tutto sembrava
tranquillo), e due tornassero a riferire l'esito della missione. Quando i
cinque rientrarono riferendo di essere arrivati fino a un punto da dove si
poteva spingere lo sguardo in tutte le direzioni e di aver di lì ovunque
constatato solitudine e silenzio, il console ordinò sùbito ai reparti
armati alla leggera di entrare in città, dando nel frattempo agli altri
disposizione di fortificare l'accampamento. Entrati in città e abbattute
le porte delle abitazioni, i soldati trovarono soltanto pochi vecchi e
invalidi, insieme con le sole cose che, essendo troppo difficili da
trasportare, erano state abbandonate. Se ne impossessarono, e dai
prigionieri vennero a sapere che in molte città dei dintorni era stato
deciso per volontà comune l'evacuazione dei residenti; che i loro
concittadini erano partiti nel cuore della notte, e che probabilmente
avrebbero trovato lo stesso deserto anche in molti altri centri. Si prestò
fede alle parole dei prigionieri, e il console occupò le città deserte.
35 Per l'altro console, Marco Atilio, la campagna non fu certo
altrettanto facile. Mentre era alla guida delle legioni sulla strada per
Luceria - che aveva saputo attaccata dai Sanniti -, gli si parò innanzi il
nemico ai confini del territorio di Luceria. Fu la rabbia a rendere pari
le forze in campo: la battaglia si svolse nell'incertezza e a fasi
alterne, ma il verdetto finale fu più pesante per i Romani, sia perché non
erano abituati alla sconfitta, sia perché all'atto di allontanarsi dal
campo, più ancora che nel pieno dello scontro, si accorsero quanto fossero
numericamente superiori le loro perdite e i loro feriti. Perciò tra i
soldati al rientro al campo ci fu una tale ondata di sconforto, che se
solo li avesse colti nel corso della battaglia li avrebbe portati a una
pesante sconfitta. La notte fu ugualmente carica di tensioni, perché i
Romani erano convinti che i Sanniti attaccassero di lì a poco
l'accampamento, o che altrimenti alle prime luci del giorno si dovesse
ricominciare a combattere col nemico reduce dalla vittoria. Gli avversari
avevano subito perdite minori, anche se non potevano contare su un morale
più alto. Non appena fu giorno, volevano andarsene senza combattere, ma
c'era una sola strada e passava proprio vicino al nemico. Così, essendosi
messi in marcia attraverso quella via, diedero ai Romani l'impressione di
essere diretti ad attaccare l'accampamento. Il console diede disposizione
agli uomini di armarsi e di seguirlo al di là della trincea, e ordinò ai
luogotenenti, ai tribuni e ai prefetti alleati ciò che ciascuno di essi
avrebbe dovuto fare. Tutti si dissero pronti a eseguire ogni ordine, ma
rilevarono che i soldati erano demoralizzati, dopo aver passato una notte
insonne tra le ferite e i lamenti dei moribondi. Se i nemici si fossero
avvicinati all'accampamento romano prima del sorgere del sole, la paura
sarebbe stata così grande da far abbandonare agli uomini i posti di
combattimento. Al momento a trattenerli dalla fuga era solo la vergogna,
ma per il resto erano come degli sconfitti.
Quando il console udì queste parole, decise di andare in giro di
persona a parlare ai soldati, e appena arrivava presso i vari reparti
rimproverava sùbito quelli che indugiavano a vestire le armi, e domandava
quale fosse il motivo di tutti quei tentennamenti e quelle esitazioni.
Diceva che i nemici sarebbero entrati nell'accampamento, se essi non ne
fossero usciti, e che si sarebbero trovati a combattere di fronte alle
proprie tende, se non volevano andare a combattere al di là della trincea:
la vittoria - ricordava - è sì incerta per chi prende le armi e va a
combattere, ma quelli che attendono il nemico disarmati e senza difendersi
sono destinati alla schiavitù o alla morte. Di fronte a queste aspre
rampogne, gli uomini replicavano di essere stremati per la battaglia del
giorno prima, di non avere più a disposizione né forze né sangue, e di
aver l'impressione che il numero dei nemici fosse ancora superiore
rispetto alla giornata precedente. Nel frattempo l'esercito nemico si
stava avvicinando, e quando lo si poté distinguere per il diminuire della
distanza, gli uomini cominciarono a dire che i Sanniti avevano con sé i
paletti per la trincea, e che avrebbero certamente circondato
l'accampamento con una palizzata. Allora il console gridò che era indegno
accettare una simile vergognosa umiliazione da un nemico vile più di ogni
altro, e aggiunse: «Dunque ci lasceremo assediare anche all'interno
dell'accampamento, e moriremo di fame con ignominia, piuttosto che
valorosamente - se sarà necessario - a colpi di spada?». Ciascuno si
regolasse nel modo che gli sembrava più degno di sé (e che gli dèi lo
aiutassero): il console Marco Atilio, se nessun altro lo voleva seguire,
avrebbe marciato contro il nemico anche da solo cadendo in mezzo alle
insegne dei Sanniti, piuttosto che vedere l'accampamento romano circondato
da una palizzata. I luogotenenti, i tribuni, tutti gli squadroni di
cavalleria e i centurioni dei reparti scelti salutarono con un applauso le
parole del console.
Allora i soldati, toccati nell'onore, si armarono contro voglia,
uscirono contro voglia dal campo schierati in una fila lunga e rarefatta,
e con l'aria di chi era già battuto marciarono contro il nemico che non
aveva certo né il morale più alto né maggiori speranze di vittoria. E
così, non appena i Sanniti videro le insegne romane, dalle prime file alle
ultime cominciò sùbito a correre voce che i Romani - come essi temevano -
stavano uscendo dall'accampamento per impedire loro il passaggio. Quindi
non c'era più alcuno sbocco aperto nemmeno per la fuga, ed era inevitabile
cadere lì o uscire vivi passando sui corpi dei nemici stesi a terra.
36 Accatastati i bagagli nel mezzo, si armarono e si disposero in
ordine di battaglia nei rispettivi reparti. Lo spazio tra i due eserciti
era ormai molto ridotto, ed entrambi erano fermi nell'attesa che i nemici
levassero il grido di battaglia e si lanciassero all'assalto. Ma da una
parte e dall'altra non c'era alcuna inclinazione allo scontro, e si
sarebbero allontanati in direzioni opposte intatti e illesi, se solo non
avessero temuto che il nemico si avventasse su quanti si stavano
ritirando. Fra quei soldati poco ispirati e incerti la battaglia iniziò
meccanicamente e in sordina, con un grido né unanime né convinto, e con
nessuno che si muovesse dal proprio posto.
Allora il console romano, per suscitare le energie, spedì fuori dalle
file alcuni squadroni di cavalleria. Ma poiché buona parte di essi vennero
sbalzati da cavallo e altri gettati nello scompiglio, dallo schieramento
sannita ci fu chi accorse per finire i cavalieri caduti, e dalla parte
romana intervennero in aiuto dei compagni. La battaglia prese allora
vigore. Ma i Sanniti erano accorsi più numerosi e con maggiore
determinazione, e i cavalieri romani trascinati dai cavalli imbizzarriti
calpestavano quegli stessi compagni arrivati in loro soccorso. Da quel
momento cominciò la fuga, che coinvolse l'intero schieramento romano. E i
Sanniti stavano già attaccando alle spalle i fuggitivi, quando il console
andò a cavallo di fronte alla porta dell'accampamento, vi lasciò una
guarnigione di cavalieri cui diede il cómpito di trattare da nemici
chiunque - romano o sannita - si fosse avvicinato alla trincea, e quindi
andò anch'egli a sbarrare la strada ai suoi uomini che stavano cercando di
raggiungere disordinatamente l'accampamento, rivolgendo loro parole
minacciose: «Dove andate, soldati? Anche lì vi troverete di fronte armi e
uomini, e finché il vostro console sarà vivo, non entrerete
nell'accampamento se non da vincitori: scegliete se preferite scontrarvi
con dei concittadini o con dei nemici».
Mentre il console pronunciava queste parole, i cavalieri circondarono i
fanti brandendo le lance, e ingiunsero loro di tornare a combattere. A
venire in aiuto non fu solo il valore del console, ma anche il destino,
perché i nemici non affondarono l'inseguimento, e ci fu così il tempo per
voltare le insegne e per rivolgere il fronte dall'accampamento al nemico.
I Romani si misero allora a incitarsi l'uno con l'altro e a rigettarsi
nella mischia: i centurioni strappavano le insegne agli alfieri e le
portavano avanti, gridando ai compagni che i nemici erano pochi e venivano
allo sbaraglio con i reparti allo sbando. Nel frattempo il console,
levando le mani al cielo e alzando la voce in modo che tutti lo potessero
sentire, promise in voto un tempio a Giove Statore, se l'esercito romano
avesse smesso di fuggire e si fosse lanciato nella mischia travolgendo le
legioni sannite. In ogni parte dello schieramento tutti fecero quanto era
nelle loro possibilità per riequilibrare le sorti della battaglia -
comandanti, soldati semplici, fanti e cavalieri. Si ebbe l'impressione che
a fianco dei Romani intervenisse anche una volontà divina, tanto
facilmente venne capovolta la situazione: i nemici furono allontanati
dall'accampamento e immediatamente risospinti verso il punto in cui la
battaglia era iniziata. Lì furono costretti a fermarsi perché la strada
era sbarrata dai bagagli accatastati nel mezzo: allora, per impedire che i
Romani vi mettessero mano, formarono un cerchio di uomini armati intorno
ai bagagli stessi. Ma davanti erano pressati dalla fanteria, e alle spalle
avevano i cavalieri. Così, presi nel mezzo, furono uccisi o fatti
prigionieri. I prigionieri ammontarono a 7.800, che vennero spogliati dal
primo all'ultimo e fatti passare sotto il giogo. I caduti toccarono il
numero di 4.800. Ma anche per i Romani quella vittoria non fu una festa:
quando infatti il console fece contare i soldati che mancavano all'appello
dopo quei due giorni di scontri, gli venne riferito che le perdite
raggiungevano le 7.800 unità.
Mentre in Apulia si verificavano questi eventi, l'altro esercito dei
Sanniti tentò di conquistare Interamna, una colonia romana situata sulla
via Latina, ma non riuscì nell'impresa. Allora il nemico mise a ferro e
fuoco le campagne. Mentre però i Sanniti stavano trascinando via gli
uomini - tra i quali c'erano dei coloni fatti prigionieri - e le bestie
rastrellate, si imbatterono nel console che tornava vincitore da Luceria,
e non si limitarono a perdere il bottino, ma finirono per essere
massacrati perché procedevano in una formazione lunga e sfilacciata. Il
console fece proclamare un bando col quale venivano convocati a Interamna
i legittimi proprietari per riconoscere e riprendersi le rispettive cose,
e lasciando lì l'esercito si spostò a Roma per presiedere le elezioni.
Richiese il trionfo ma non gli fu accordato, perché aveva perduto tutte
quelle migliaia di uomini, e perché aveva fatto passare i prigionieri
sotto il giogo, senza però porre delle condizioni.
37 Postumio, l'altro console, visto che nel Sannio non aveva più
materia di guerra, guidò il suo esercito in Etruria, e in un primo tempo
mise a ferro e fuoco il territorio dei Volsinii. Poi, a breve distanza
dalle mura, si scontrò coi nemici usciti in campo aperto per difendere le
proprie terre. Vennero uccisi 2.800 Etruschi; gli altri scamparono grazie
alle città che si trovavano nei dintorni. L'esercito venne poi portato nel
territorio di Ruselle, e lì non ci si limitò a saccheggiare le campagne,
ma venne anche espugnata la città. Più di 2.000 uomini vennero fatti
prigionieri, mentre di poco inferiori per numero furono quelli uccisi
lungo le mura. Ciò non ostante la pace ottenuta in Etruria fu maggiore
motivo di gloria e più determinante rispetto alla guerra portata
quell'anno: tre città potentissime, tra le più in vista dell'Etruria -
ossia Volsinii, Perugia e Arezzo -, chiesero la pace, e dopo essersi
accordate col console nel garantire vestiti e viveri all'esercito purché
fosse loro concesso di inviare ambasciatori a Roma, ottenero una tregua
quarantennale. A ciascuna venne comminata un'ammenda di 500.000 assi, da
pagare in contanti.
Poiché il console, più per abitudine che per speranza di ottenerlo,
aveva chiesto al senato il trionfo per questi successi, vedendo che alcuni
erano propensi a non concederglielo perché aveva impiegato troppo tempo a
uscire dalla città, mentre altri si opponevano perché si era trasferito
dal Sannio in Etruria senza la relativa autorizzazione del senato - e si
trattava o di suoi nemici o di amici del collega decisi a consolarlo con
un identico rifiuto -, disse: «Io non sarò, o senatori, tanto rispettoso
della vostra autorità, da scordarmi della mia carica di console. In virtù
della stessa autorità con la quale ho condotto le guerre, portandole a
termine con esito positivo, dopo aver sottomesso il Sannio e l'Etruria, e
aver ottenuto la vittoria e la pace, celebrerò il trionfo». E dopo aver
pronunciato queste parole, abbandonò il senato. Ne nacque una controversia
tra i tribuni della plebe: alcuni sostenevano che avrebbero posto il veto,
per evitare che quel suo trionfo venisse a costituire un pericoloso
precedente, mentre altri dichiararono che avrebbero fatto ricorso al
diritto di intercessione in favore del trionfatore contro i loro colleghi.
La questione venne sottoposta al giudizio del popolo e fu chiamato il
console: questi, dopo aver ricordato che i consoli Marco Orazio e Lucio
Valerio, e poco tempo prima Gaio Marcio Rutulo, padre del censore in
carica, avevano trionfato per volere del popolo e non per decreto del
senato, dichiarò che anche lui avrebbe presentato la cosa al giudizio del
popolo, se solo non avesse saputo che certi tribuni della plebe al
servizio degli ottimati si sarebbero opposti alla proposta. Per lui, in
quel preciso momento e per i giorni a venire, la volontà e il favore del
consenso popolare avrebbero contato più di qualunque decreto. Il giorno
successivo, con il sostegno di tre tribuni della plebe contro il veto di
sette e la volontà del senato, il console celebrò il proprio trionfo con
un grande concorso di popolo.
Anche sulle vicende di quell'anno la tradizione storica non è concorde.
Claudio sostiene che Postumio, conquistate alcune città del Sannio, venne
poi sconfitto e sbaragliato in Apulia, e costretto a rifugiarsi ferito e
con pochi uomini a Luceria. A condurre la campagna in Etruria sarebbe
stato Atilio che avrebbe riportato il trionfo. Fabio scrive invece che
entrambi i consoli combatterono nel Sannio e presso Luceria, e che
l'esercito venne poi portato in Etruria, senza però specificare da quale
dei due consoli; che presso Luceria le perdite furono gravi da entrambe le
parti, e che il tempio a Giove Statore venne promesso in voto durante
quella battaglia. Il tempio l'aveva promesso già Romolo in passato, ma
fino a quel momento era stato consacrato solo lo spazio sui cui doveva
sorgere il sacrario: quell'anno finalmente il senato, già vincolato per la
seconda volta dallo stesso voto e preso come fu da uno scrupolo di natura
religiosa, decretò che il tempio venisse effettivamente edificato.
38 L'anno che seguì ebbe un console, Lucio Papirio Cursore, famoso
sia per la gloria conquistata dal padre sia per quella personale, nonché
una grossa guerra e una vittoria sui Sanniti quale nessuno fino a quei
giorni - salvo Lucio Papirio, padre appunto del console - aveva mai
riportato. E il caso volle che i nemici preparassero la guerra con lo
stesso sforzo e lo stesso spiegamento di mezzi, arricchendo le truppe di
armi più sfarzose e ricche che mai. E avevano cercato anche il sostegno
degli dèi, iniziando, per così dire, i soldati con un antico rito
sacramentale: in tutto il Sannio venne bandita la leva militare con una
legge inusitata, in virtù della quale qualunque giovane in età non si
fosse presentato alla chiamata dei comandanti o avesse lasciato il paese
senza autorizzazione sarebbe stato maledetto e consacrato a Giove. La
convocazione per tutti gli effettivi venne fissata ad Aquilonia, dove
convennero circa 40.000 soldati, che rappresentavano il meglio di tutte le
forze sannite.
Lì, al centro dell'accampamento, venne tracciato un recinto delimitato
da picchetti e assicelle e ricoperto con una tela di lino, che misurava
circa duecento piedi tanto in lunghezza quanto in larghezza. All'interno
del recinto celebrò i sacrifici attenendosi alle indicazioni di un antico
libro rilegato in lino il sacerdote Ovio Paccio, un uomo molto avanti con
gli anni, che sosteneva di aver desunto quel rito da un'antica usanza
sannita, praticata un tempo dagli antenati quando avevano concepito il
progetto di strappare Capua agli Etruschi. Concluso il sacrificio, il
comandante in capo ordinò a un banditore di convocare gli uomini più in
vista per ascendenti e valore, facendoli venire uno per volta. L'intero
apparato della cerimonia era allestito in modo da suscitare negli animi
timore religioso: contribuivano a questo effetto soprattutto gli altari al
centro del recinto integralmente coperto, le vittime sgozzate intorno agli
altari e i centurioni in cerchio con le spade in pugno. I convocati
venivano fatti avvicinare agli altari, più come vittima che come effettivo
partecipante al sacrificio, e dovevano giurare di non rivelare quanto
avevano visto o sentito in quel punto. Mediante una formula intimidatoria
venivano costretti a giurare che sarebbero state maledette le loro
persone, la famiglia e la stirpe, qualora non fossero scesi in campo là
dove i comandanti li guidavano, o avessero abbandonato il campo di
battaglia, o ancora vedendo qualcuno darsi alla fuga non lo avessero
ucciso su due piedi. All'inizio alcuni che non accettavano di prestare
questo giuramento vennero passati per le armi davanti agli altari, e i
loro cadaveri distesi tra le vittime servirono poi da monito agli altri
affinché non si tirassero indietro. Quando poi i nobili sanniti si furono
vincolati con questo giuramento, il comandante fece i nomi di dieci di
loro e ordinò che ciascuno di essi scegliesse un altro uomo, e questi un
altro ancora fino a raggiungere la cifra di 16.000. Quella legione, dalla
copertura del recinto all'interno del quale la nobiltà aveva consacrato se
stessa, venne chiamata linteata. A quanti ne facevano parte vennero
consegnate armi sfavillanti ed elmi crestati, in modo da distinguerli in
mezzo a tutti gli altri. Il resto dell'esercito ammontava a poco più di
20.000 uomini che, quanto a forza fisica, valore militare e armamento, non
erano inferiori alla legione linteata. Tutti questi effettivi, il meglio
delle forze del Sannio, si accamparono nei pressi di Aquilonia.
39 I consoli partirono da Roma: il primo fu Spurio Carvilio, cui
erano state assegnate le vecchie legioni, lasciate l'anno prima dal
console Marco Atilio nella zona di Interamna. Marciando alla volta del
Sannio alla testa di queste legioni, mentre i nemici tenevano riunioni
segrete impegnati nelle loro pratiche di iniziazione, conquistò con la
forza la città di Amiterno togliendola ai Sanniti. In quel luogo caddero
2.800 uomini, i prigionieri furono 4.270. Arruolato un nuovo esercito come
era stato stabilito, Papirio espugnò la città di Duronia. Catturò meno
uomini del collega, uccidendone però un numero più alto. In entrambe le
zone venne conquistato un ricco bottino. I due consoli poi, dopo aver
effettuato scorrerie ad ampio raggio nel Sannio, e devastato in particolar
modo la zona di Atina, arrivarono Carvilio a Cominio, e Papirio ad
Aquilonia, dove si era concentrato il grosso delle truppe sannite. Lì, per
alcuni giorni, le due parti, pur senza astenersi del tutto da azioni
militari, non arrivarono mai però a uno scontro vero e proprio:
provocavano il nemico se era inattivo, tornavano sui propri passi se
opponeva resistenza, e ingannavano il tempo rendendosi minacciosi più che
attaccando battaglia. Qualunque fosse l'operazione intrapresa o sospesa,
ogni decisione in merito, anche la più insignificante, veniva rinviata da
un giorno all'altro. L'altro esercito romano, che si trovava a venti
miglia di distanza, e il collega lontano partecipavano col pensiero alla
gestione di tutte le operazioni, e Carvilio era più concentrato su
Aquilonia di quanto non lo fosse Cominio che la stava assediando.
Lucio Papirio, preparata ormai ogni cosa per il combattimento, inviò un
messaggero al collega per dirgli che era sua intenzione, se gli auspici
fossero stati favorevoli, di attaccare battaglia il giorno successivo: era
necessario che anche Carvilio attaccasse Cominio con la maggior forza
d'urto possibile, perché i Sanniti non avessero più modo di inviare dei
rinforzi ad Aquilonia. Il messaggero ebbe un giorno di tempo per compiere
il tragitto: ritornò nella notte riferendo che il collega approvava il
piano. Inviato il messaggero, Papirio aveva sùbito convocato un'assemblea,
durante la quale tenne un lungo discorso sull'arte di gestire le guerre in
generale, e in particolare sulle attrezzature che al presente i nemici
potevano vantare, e che risultavano più belle a vedersi di quanto non
fossero efficaci all'atto pratico: infatti non erano certo i cimieri a
procurare le ferite e il giavellotto romano era in grado di trapassare
anche gli scudi colorati e carichi d'oro, e quell'esercito sfavillante per
il candore delle tuniche si sarebbe sporcato di sangue, quando fossero
entrate in azione le spade. In passato suo padre aveva fatto a pezzi un
altro esercito sannita tutto oro e argento, e quelle spoglie aveva
garantito maggiore rinomanza al nemico vittorioso che ai Sanniti stessi.
Forse era destino che la sua gens e il suo nome si opponessero agli
sforzi maggiori dei Sanniti, e riportassero quelle spoglie che
rappresentavano uno straordinario ornamento anche per i luoghi pubblici.
Gli dèi immortali erano dalla parte dei Romani, dopo che i patti tante
volte richiesti erano stati altrettante volte violati. E se era mai
possibile penetrare nei disegni della mente divina, gli dèi non erano mai
stati tanto avversi a nessun esercito quanto a quello che, dopo essersi
macchiato con un rito sacrilego in cui il sangue umano era stato mescolato
a quello delle bestie, avviato a una duplice ira divina, temendo da una
parte l'ira degli dèi testimoni dei patti conclusi coi Romani, e
dall'altra le maledizioni legate al giuramento pronunciato, aveva giurato
contro la propria volontà, odiava il giuramento, ed era intimorito
contemporaneamente dagli dèi, dai concittadini e dai nemici.
40 Esposte queste cose - di cui era venuto a conoscenza tramite le
rivelazioni dei disertori - di fronte a uomini già infiammati dal
risentimento, questi ultimi, pieni di speranze sia negli dèi sia negli
uomini, chiesero all'unisono battaglia, rammaricandosi che lo scontro
fosse rinviato al giorno successivo e trovando intollerabile il ritardo di
un giorno e di una notte. Passata la mezzanotte, quando gli venne riferita
la risposta del collega, Papirio si alzò in silenzio e ordinò all'aruspice
addetto ai polli di trarre gli auspici. Nel campo non c'era un solo uomo
che non ardesse dal desiderio di combattere, e dai gradi più alti a quelli
più subalterni tutti avevano dentro la stessa fiamma: il comandante
guardava alla determinazione dei soldati, i soldati a quella del
comandante. Questo diffuso spirito venne trasmesso anche a quanti stavano
passando in rassegna gli auspici: infatti, anche se i polli non stavano
affatto mangiando, l'aruspice giunse a falsare l'auspicio e annunciò al
console un pasto quanto mai favorevole. Felicissimo il console riferì ai
suoi che gli auspici erano eccellenti e che avrebbero combattuto col
favore degli dèi; diede così il segnale di battaglia. Mentre stava già per
uscire dall'accampamento, un disertore riferì che venti coorti sannite di
circa 400 uomini l'una erano partite alla volta di Cominio. Il console
inviò sùbito un messaggio al collega per informarlo della cosa; ordinò poi
di accelerare le operazioni. Distribuì i riservisti nelle posizioni più
adatte e assegnò loro i rispettivi ufficiali. A capo dell'ala destra
piazzò Lucio Volumnio, alla sinistra Lucio Scipione, affidando la
cavalleria ad altri luogotenenti, Gaio Cedicio e Tito Trebonio. A Spurio
Nauzio diede disposizione di far togliere i basti ai muli e di portarli in
fretta, insieme ad alcune coorti di ausiliarii, su un'altura ben visibile;
gli ordinò di farsi notare, a combattimento iniziato, alzando un polverone
quanto più fitto possibile.
Mentre il comandante sbrigava queste disposizioni operative, tra gli
aruspici sorse una controversia circa gli auspici tratti quel giorno, e la
lite arrivò alle orecchie di alcuni cavalieri romani che, pensando non
fosse una questione priva di rilievo, ne riferirono a Spurio Papirio,
figlio del fratello del console, dicendogli che erano sorte contestazioni
sugli auspici. Quel giovane, nato prima della dottrina che insegna a
disprezzare gli dèi, si informò sui fatti, per evitare di riferire solo
dicerie prive di fondamento, poi riportò la cosa al console. Questi gli
rispose così: «Onore alla tua virtù e al tuo zelo. Però, se quanti
traggono gli auspici dànno falsi annunci, essi attirano su di sé la
maledizione divina. A me è stato annunciato un pasto consumato con grande
voracità, ciò che rappresenta un ottimo auspicio per l'esercito e il
popolo romano». Ordinò così ai centurioni di schierare gli aruspici nelle
prime file. Anche i Sanniti fecero avanzare le loro insegne, seguite dagli
uomini con le loro armature splendenti, uno spettacolo straordinario anche
per i nemici. Prima dell'urlo di guerra e dell'inizio delle ostilità,
l'aruspice addetto ai polli, colpito da un giavellotto lanciato a caso,
cadde nelle prime file. Quando la cosa venne riferita al console, questi
commentò così: «Gli dèi sono presenti sul campo di battaglia: il colpevole
è stato punito». Mentre il console pronunciava queste parole, un corvò
gracchiò ad alta voce lì davanti a lui. Felice per questo segno
beneagurante, il console ordinò di suonare il segnale di attacco e di
alzare il grido di guerra, affermando che mai in passato gli dèi erano
intervenuti con maggior tempestività nelle vicende umane.
41 La battaglia venne combattuta con estremo accanimento, anche se
lo spirito con cui i contendenti la affrontarono era di gran lunga
differente: a trascinare in battaglia i Romani, assetati di sangue nemico,
erano la rabbia, la speranza e la determinazione; buona parte dei Sanniti,
costretti dalla necessità e dalle fobie religiose più a resistere che ad
attaccare, combatteva invece contro voglia. E certo non avrebbero retto al
primo grido di guerra e al primo assalto dei Romani - abituati com'erano
alla sconfitta da ormai molti anni -, se a trattenerli dalla fuga non
fosse stata un'altra più forte paura, relegata nel loro intimo. Avevano
infatti ancora davanti agli occhi tutto l'apparato di quel rito segreto -
i sacerdoti armati, cadaveri di uomini e bestie ammassati alla rinfusa,
gli altari lordi di sangue pio ed empio, la terribile professione di fede
e l'invocazione delle furie, a maledire la stirpe e la famiglia. Erano
questi gli ostacoli che impedivano la fuga ai Sanniti, intimoriti più
dalla loro gente che dai nemici. La pressione dei Romani si esercitava sia
sulle due ali sia sul centro, portandoli a seminare la strage tra i nemici
attoniti per il timore degli dèi e degli uomini. Resistevano senza troppa
convinzione, come uomini cui soltanto la codardia impedisca di darsi alla
fuga.
Il massacro era già arrivato quasi alle insegne, quando da un lato si
alzò un gran polverone, come di solito succede per il passaggio di un
esercito in marcia. Era Spurio Nauzio (anche se alcuni autori sostengono
si trattasse di Ottavio Mecio), a capo delle coorti ausiliarie. Il
polverone che sollevavano era molto più consistente di quanto non
comportasse il loro numero, perché gli uomini in groppa ai muli
trascinavano rami frondosi. Davanti, attraverso l'aria resa torbida dal
polverone, si scorgevano le insegne e le armi: poco più dietro il
pulviscolo più spesso e denso faceva pensare che a chiudere la marcia
fosse la cavalleria, e il trucco non ingannò soltanto i Sanniti ma anche i
Romani. Il console diede consistenza all'errata interpretazione, gridando
ad alta voce nelle prime file - in modo che le sue parole arrivassero
anche ai Sanniti - che Cominio era stata presa, e che il collega reduce
dalla vittoria si stava avvicinando: quindi si impegnassero a fondo per la
vittoria prima che il merito toccasse interamente all'altro esercito.
Gridò queste parole dritto sul cavallo, poi diede ordine ai tribuni e ai
centurioni di aprire il passaggio per la cavalleria (in precedenza aveva
già avvisato Trebonio e Cedicio che, non appena lo avessero visto vibrare
l'asta in alto, lanciassero i cavalieri a caricare il nemico con la
maggiore violenza possibile). Al segnale convenuto tutto si svolse come
era stato concertato: tra le file della fanteria venne lasciato libero il
passaggio, i cavalieri si lanciarono avanti e caricarono lancia in resta
le schiere nemiche, sfondandone i ranghi dovunque irrompevano. Volumnio e
Scipione incalzavano seminando la morte tra i nemici in ritirata.
Fu allora che, non potendo più nulla la minaccia degli dèi e degli
uomini, le coorti linteate vennero travolte, senza distinzione tra quanti
avevano prestato giuramento o meno, non temendo più nient'altro se non il
nemico. I fanti scampati alla battaglia ripararono nell'accampamento o ad
Aquilonia, mentre i nobili e i cavalieri fuggirono a Boviano. I cavalieri
romani inseguirono la cavalleria, i fanti la fanteria. Le due ali si
mossero in direzioni differenti: la destra verso l'accampamento sannita,
la sinistra verso la città. Volumnio prese l'accampamento molto prima,
mentre dalle parti della città Scipione incontrò maggiore resistenza, non
certo perché gli sconfitti avessero più coraggio, quanto perché una cinta
muraria è certo più indicata di una trincea a respingere un assalto
armato. E gli assediati, scagliando pietre dalle mura, tenevano lontani i
nemici. Scipione, convinto che se non si fosse giunti a una soluzione
rapida - prima che gli animi si riprendesso dalla sorpresa -, l'assedio di
quella città fortificata sarebbe andato troppo per le lunghe, chiese ai
soldati se accettavano di buon grado di essere ricacciati dalle porte
della città, pur avendo vinto la battaglia, mentre l'altra ala si era
impossessata dell'accampamento. Tutti protestarono a gran voce; allora
Scipione, sollevato lo scudo sopra la testa, si avviò per primo verso la
porta. Gli altri si inquadrarono a testuggine e irruppero in città.
Cacciarono i Sanniti occupando la cinta nei pressi della porta, senza però
avere il coraggio di addentrarsi ulteriormente, visto il numero esiguo
della loro formazione.
42 Il console in un primo tempo non era al corrente di questi
avvenimenti ed era impegnato a chiamare a raccolta gli uomini, perché il
sole stava ormai per tramontare e l'imminente oscurità rendeva tutto
insidioso e pieno di pericoli, anche per il vincitore. Spintosi un po' più
avanti, vide sulla sua destra che l'accampamemnto nemico era stato
occupato, mentre dalla sinistra sentì arrivare dalla città un boato misto
di urla di battaglia e grida di terrore. Proprio in quel momento infuriava
la battaglia presso la porta. Avvicinatosi in sella al cavallo, non appena
vide i suoi uomini sulle mura e si rese conto di non avere più la
situazione sotto controllo, perché l'imprudenza di pochi gli offriva il
destro per portare a termine una grande impresa, diede ordine di
richiamare le truppe già raccolte, e ingiunse loro di avanzare verso la
città. Entrati dalla parte più vicina, vi si fermarono perché stava
calando la notte. Nel corso della notte i nemici si ritirarono.
In quella giornata furono uccisi, nella zona di Aquilonia, 20.340
Sanniti, 3.870 furono fatti prigionieri e vennero catturate novantasette
insegne militari. Stando a quanto è stato tramandato, pare che non si
fosse mai visto un comandante tanto allegro nel corso di una battaglia,
sia per la sua naturale disposizione di carattere, sia per la fiducia che
aveva nel successo dell'impresa.
In virtù di questa determinazione, non riuscì a trattenerlo
dall'attaccare battaglia nemmeno l'auspicio controverso, e proprio nel
pieno dello scontro, quando di solito si promettono in voto i templi agli
dèi, egli promise a Giove Vincitore che in caso di vittoria sull'esercito
nemico gli avrebbe offerto un bicchierino di vino al miele, dopo
un'abbondante libagione personale di vino puro. La promessa andò a genio
agli dèi, che rivolsero in bene gli auspici.
43 La stessa fortuna ebbe l'altro console nelle operazioni intorno
a Cominio. Alle prime luci del giorno, avvicinate le truppe alle mura,
circondò l'intero perimetro della città e fece rinforzare le guarnigioni
intorno alle porte, per evitare ogni genere di sortita. Stava già per dare
il segnale di battaglia, quando arrivò trafelato il messaggero inviatogli
dal collega con l'annuncio che le venti coorti nemiche si stavano
avvicinando. La notizia lo trattenne dal lanciarsi all'assalto,
costringendolo a richiamare parte delle truppe già schierate e pronte ad
attaccare la città. Al luogotenente Decimo Bruto Scevola diede ordine di
scagliarsi contro i rinforzi nemici con la prima legione, dieci coorti e
la cavalleria: doveva bloccarli e trattenerli dovunque vi si fosse
imbattuto, arrivando a scendere in battaglia se le circostanze lo
richiedevano, in maniera tale che quelle forze non raggiungessero Cominio.
Personalmente fece quindi accostare le scale alle mura in ogni settore
della città, avvicinandosi alle porte dopo aver inquadrato i suoi in
formazione a testuggine: nello stesso istante vennero abbattute le porte e
scalate le mura. I Sanniti, se prima di vedere sulle mura dei soldati con
le armi in pugno mantennero il coraggio necessario per fronteggiare i
Romani, ora che lo scontro non avveniva più a distanza né con armi da
lancio, ma corpo a corpo, e i Romani, saliti a fatica sulle mura, una
volta superato lo svantaggio naturale della posizione (era questo che
temevano di più), combattevano in scioltezza e a parità di condizioni con
un nemico inferiore, abbandonarono le torri e le mura, e si andarono ad
ammassare tutti nel foro, dove per qualche tempo diedero vita a un estremo
tentativo di risollevare le sorti della battaglia. Alla fine deposero però
le armi, arrendendosi senza condizioni al console in numero di circa
11.400. I caduti erano stati invece circa 4.880.
Fu questo l'andamento delle operazioni a Cominio e ad Aquilonia. Nella
zona tra le due città, dove si prevedeva ci sarebbe stata una terza
battaglia, non ci si imbatté nei nemici: richiamati indietro dai compagni
quando erano a sette miglia da Cominio, non parteciparono a nessuna delle
due battaglie. Stava quasi per calare la notte, e mentre vedevano già sia
l'accampamento sia Aquilonia, il frastuono che giungeva da entrambe le
parti li fece fermare. Poi la vista delle fiamme, segnale inequivocabile
della disfatta, che si levavano per largo tratto dall'accampamento
incendiato dai Romani, li trattenne dall'avanzare ulteriormente. Dopo
essersi stesi disordinatamente a terra là dove si trovavano, con le armi
indosso, trascorsero nell'angoscia l'intera nottata, attendendo
terrorizzati la luce del giorno. All'alba, quando non sapevano da che
parte dirigersi, avvistati dai cavalieri, che sulle tracce dei Sanniti
usciti nottettempo dalla città avevano individuato una massa di uomini
sprovvista di protezioni difensive e di guarnigioni armate, si diedero
immediatamente alla fuga. Quel gruppo di soldati era stato avvistato anche
dalle mura di Aquilonia, nonché da reparti di fanteria messisi sulle loro
tracce. I fanti non riuscirono però a raggiungere i fuggiaschi, mentre i
cavalieri eliminarono circa 280 uomini della retroguardia. Nel panico i
nemici abbandonarono molte delle armi e diciotto insegne militari. Il
resto della schiera arrivò sano e salvo a Boviano, per quanto fu possibile
in tutta quella confusione.
44 La gioia di ciascuno dei due eserciti romani aumentò per il
successo ottenuto dall'altro. Dopo essersi consultati tra loro, i consoli
permisero che le due città fossero saccheggiate dai soldati, facendovi
appiccare il fuoco una volta svuotate da cima a fondo. Aquilonia e Cominio
vennero distrutte dalle fiamme lo stesso giorno, e i consoli unirono i due
accampamenti, tra l'entusiasmo e le reciproche felicitazioni delle legioni
e dei comandanti stessi. Di fronte ai due eserciti Carvilio coprì di elogi
i suoi uomini per i meriti dei singoli, mentre Papirio, sotto il cui
comando si era combattuto in più punti diversi - sul campo di battaglia,
nei pressi dell'accampamento nemico e in città -, diede in premio dei
braccialetti e delle corone d'oro a Spurio Nauzio, il nipote di Spurio
Papirio, a quattro centurioni e a un manipolo di hastati: a Nauzio
per l'azione con cui aveva seminato il panico tra i nemici dando
l'impressione che ci fosse un grosso esercito in marcia; al giovane
Papirio per quanto aveva fatto con la cavalleria sia durante la battaglia
sia nel corso della notte, disturbando la fuga dei Sanniti usciti da
Aquilonia di nascosto; ai centurioni e ai soldati perché avevano occupato
per primi la porta e le mura di Aquilonia. A tutti i cavalieri, per
l'opera valorosa prestata in diversi punti del fronte, venne consegnato un
distintivo onorifico da mettere sull'elmo e un braccialetto d'argento.
Ci fu poi una riunione per decidere se fosse già arrivato il momento di
ritirare i due eserciti, o almeno uno di essi, dal Sannio. La cosa
migliore sembrò però quella di insistere portando fino in fondo ciò che
restava delle operazioni militari con tanto più ostinata determinazione
quanto maggiore era l'indebolimento della potenza sannita, in modo tale
che ai consoli dell'anno a venire si potesse consegnare il Sannio
interamente domato. Poiché non c'era più un esercito nemico apparentemente
in grado di poter affrontare una battaglia in campo aperto, l'unica forma
di guerra che restava era l'espugnazione delle città, la cui distruzione
poteva garantire ai soldati un arricchimento, e l'annientamento definitivo
del nemico che lottava ormai soltanto per sopravvivere. Così, inviato al
senato e al popolo romano un rapporto dettagliato sulle operazioni portate
a termine, i consoli guidarono le legioni in diverse direzioni: Papirio si
rivolse verso Sepino, mentre Carvilio puntò su Velia.
45 La lettura del rapporto trasmesso dai consoli fu motivo di
grande entusiasmo in senato e nell'assemblea del popolo, e l'esultanza
generale venne resa solenne da quattro giorni di festosi ringraziamenti,
che videro una grande partecipazione di popolo. Per i cittadini romani
questa vittoria non fu soltanto di grande prestigio, ma arrivò anche al
momento più adatto, perché proprio in quel momento giunse la notizia che
gli Etruschi avevano riaperto le ostilità. Occorreva pensare a come si
potesse sostenere il peso di una guerra contro l'Etruria se le cose nel
Sannio non fossero andate per il meglio, visto che l'Etruria, imbaldanzita
dall'insurrezione generale nel Sannio, vedendo i due consoli e tutte le
forze impegnate sul fronte sannita, aveva pensato che questa fosse
un'occasione propizia per riprendere le armi. Gli alleati inviarono
ambasciatori, che furono introdotti in senato dal pretore Marco Atilio;
lamentavano che le loro campagne venissero devastate e incendiate dagli
Etruschi, solo perché essi non avevano voluto staccarsi dai Romani, e per
questo scongiuravano i senatori di proteggerli dalla tracotanza e dalle
offese dei nemici comuni. Agli ambasciatori venne risposto che il senato
avrebbe fatto il possibile perché gli alleati non dovessero pentirsi della
propria fedeltà: presto agli Etruschi sarebbe toccata la stessa sorte dei
Sanniti. Eppure la campagna contro gli Etruschi non sarebbe stata condotta
con la stessa determinazione, se non fosse giunta la notizia che i
Falisci, da lungo tempo amici dei Romani, avevano unito le proprie forze
agli Etruschi. La vicinanza di questa popolazione aumentò la
preoccupazione del senato, che decise di inviare i feziali a chiedere
soddisfazione dell'accaduto. La richiesta fu respinta, e così su proposta
del senato, approvata dal popolo, venne dichiarata guerra ai Falisci, e i
consoli ricevettero disposizione di sorteggiare chi dei due avrebbe dovuto
trasferirsi dal Sannio in Etruria.
Carvilio aveva già conquistato le città sannite di Velia, Palombino ed
Ercolaneo: Velia nel giro di pochi giorni, Palombino lo stesso in cui si
era presentato sotto le mura. A Ercolaneo dovette invece affrontare una
battaglia in campo aperto dall'esito incerto, subendo più perdite di
quelle inflitte ai nemici. Dopo essersi accampato, costrinse il nemico a
trincerarsi all'interno delle mura, e la città venne conquistata con la
forza. In questi tre centri vennero catturati o uccisi circa 10.000 uomini
(il numero dei prigionieri superò di poco quello dei morti). Il sorteggio
tra i due consoli destinò l'Etruria a Carvilio, com'era nei desideri dei
soldati, che ormai non reggevano più il rigido freddo del Sannio. Nei
pressi di Sepino i Sanniti opposero maggiore resistenza a Papirio: a più
riprese, o in campo aperto, o durante la marcia, o ancora nei pressi della
città, egli dovette rintuzzare le sortite dei nemici. Più che un assedio
era una guerra vera e propria, perché i Sanniti non erano protetti dalle
mura più di quanto le mura non lo fossero dalle armi e dai soldati. Ma
alla fine, a forza di combattere, il console costrinse i nemici a subire
un assedio in piena regola, concludendolo con l'espugnazione della città,
conquistata con il ricorso a macchine da guerra. Presa la città, la
tensione portò a un massacro ancora più sanguinoso: gli uccisi ammontarono
a 7.400, mentre i prigionieri furono meno di 3.000. Il bottino raccolto,
ricchissimo perché i Sanniti avevano concentrato le loro cose in poche
città, fu lasciato ai soldati.
46 La neve aveva ormai coperto tutto il paese, e fuori dalle
abitazioni non era possibile resistere al freddo. Per questo il console
ritirò le truppe dal Sannio. Al suo rientro a Roma il consenso unanime del
popolo gli fece tributare il trionfo. Lo celebrò mentre era ancora in
carica, in maniera fastosa per le abitudini dei tempi. I cavalieri e i
fanti procedevano e cavalcavano con indosso le decorazioni ottenute: si
vedevano anche molte corone civiche, vallari e murali. Oggetto di grande
ammirazione erano le spoglie sannite, paragonate per splendore e bellezza
a quelle riportate dal padre, che avevano un aspetto familiare perché
ornavano molti luoghi pubblici. Nel corteo dei prigionieri vi erano membri
dell'aristocrazia sannita, famosi per le imprese compiute da loro o dai
loro padri. Sfilarono 2.530.000 assi di rame da una libbra - si diceva
fosse la somma ricavata dalla vendita dei prigionieri di guerra -, e 1830
libbre d'argento razziate nelle città. Tutto il rame e l'argento vennero
versati nell'erario, senza che ai soldati venisse concesso alcunché del
bottino. Questa decisione accrebbe il malcontento della plebe, perché in
aggiunta venne imposto un tributo per pagare gli stipendi ai soldati, là
dove, rinunciando al nobile gesto di versare nell'erario il denaro
ricavato dal bottino di guerra, sarebbe stato possibile concedere ai
soldati parte della preda e utilizzarne parte per pagare la diaria ai
militari. Il console inaugurò il tempio di Quirino - anche se in nessun
autore ho trovato che egli lo avesse promesso in voto durante la guerra,
né per Ercole avrebbe mai potuto portarne a termine la costruzione in un
tempo così esiguo - promesso in voto dal padre dittatore, ornandolo con le
spoglie nemiche, che erano tanto ricche da permettere non solo di decorare
il tempio e il Foro, ma di essere anche distribuite agli alleati e alle
colonie circostanti perché le utilizzassero per abbellire templi e luoghi
pubblici. Dopo il trionfo Papirio portò l'esercito a trascorrere l'inverno
nella zona di Vescia, infestata dai Sanniti.
Nel frattempo in Etruria il console Carvilio si preparò a espugnare
Troilo, e dopo aver concesso a 400 tra i cittadini più ricchi di uscirne
dietro pagamento di una grossa somma di denaro, ebbe la meglio con la
forza del resto della popolazione e della città stessa. Espugnò poi cinque
villaggi fortificati che si trovavano in posizioni ben protette, e vi
uccise 2.400 nemici, facendo meno di 2.000 prigionieri. Ai Falisci che si
presentarono a chiedere la pace egli concesse un anno di tregua, a
condizione che pagassero 100.000 assi pesanti e le diarie militari di
quell'anno. Portate a termine queste operazioni, partì per celebrare il
trionfo, che fu meno fastoso di quello del collega sul versante sannita,
ma lo eguagliò con le vittorie conquistate in Etruria. Versò nell'erario
380.000 assi pesanti, e col resto del ricavato dalla vendita del bottino
diede in appalto la costruzione del tempio della Forte Fortuna, situato
accanto al santuario di quella stessa dea consacrato dal re Servio Tullio.
Ai suoi uomini assegnò 102 assi a testa presi dal bottino, mentre per i
centurioni e i cavalieri la somma fu doppia, e la donazione risultò ancora
più gradita perché messa a confronto con la grettezza del collega. Il
favore del console servì a garantire la protezione del popolo al suo
luogotenente Lucio Postumio che, citato in giudizio dal tribuno Marco
Scanzio, riuscì a sottrarsi al giudizio del popolo - come dicevano le voci
- grazie alla sua carica di luogotenente; e così l'accusa nei suoi
confronti venne soltanto presentata, senza però aver séguito.
47 Alla fine dell'anno erano entrati in carica i nuovi tribuni
della plebe. Solo che per irregolarità intercorse nella nomina cinque
giorni dopo vennero sostituiti con altri. Nel corso dell'anno i censori
Publio Cornelio Arvina e Gaio Marcio Rutilio tennero il censimento: furono
censiti 262.321 cittadini. I censori erano i ventiseiesimi entrati in
carica da quando era iniziata la censura, e quello fu il diciannovesimo
censimento. Lo stesso anno, per la prima volta, gli uomini che avevano
ricevuto delle decorazioni militari nelle campagne poterono assistere ai
giochi romani con la corona sul capo, e ugualmente per la prima volta
venne concessa ai vincitori la palma del trionfo, secondo un'usanza
introdotta dalla Grecia. Ancora in quell'anno gli stessi edili curuli che
avevano organizzato i giochi, servendosi del denaro ricavato dalle ammende
inflitte ad alcuni appaltatori di pascoli, fecero lastricare la strada del
tempio di Marte fino a Boville.
Lucio Papirio presiedette le elezioni consolari, e proclamò eletti
Quinto Fabio Gurgite figlio di Massimo e Decimo Giunio Bruto Sceva.
Papirio stesso ottenne la nomina a pretore.
I molti eventi positivi di quell'anno bastarono appena per consolare
gli animi di un'unica sciagura, un'epidemia che prostrò sia le città sia
le campagne. E poiché la calamità era il segno di una volontà
soprannaturale, vennero consultati i libri sibillini, per conoscere quale
fossero la fine o l'eventuale rimedio concessi dagli dèi a quella
sciagura. Dalla consultazione emerse che era necessario far venire
Esculapio da Epidauro a Roma. Ma per quell'anno non si fece nulla, perché
i consoli erano impegnati nella guerra, e ci si limitò a offrire a
Esculapio una giornata di suppliche.
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