1 Questo anno verrà ricordato per il consolato raggiunto da un
"uomo nuovo" e per la creazione di due nuove magistrature, la pretura e
l'edilità curule. Cariche, queste, che i patrizi pretesero per sé a
risarcimento del console concesso alla plebe. Quest'ultima assegnò il
consolato a Lucio Sestio, grazie alla cui legge esso era stato
conquistato. I patrizi invece, in virtù dell'influenza che vantavano in
Campo Marzio, ottennero la pretura per Spurio Furio Camillo, figlio di
Marco, e l'edilizia per Gneo Quinzio Capitolino e Publio Cornelio
Scipione, uomini appartenenti a famiglie della loro classe. In qualità di
collega di Lucio Sestio venne scelto dai patrizi Lucio Emilio Mamerco.
All'inizio dell'anno cominciarono a circolare voci circa i Galli (che, in
un primo tempo dispersi in Apulia, pareva si stessero riorganizzando in
gruppi) e una defezione da parte degli Ernici. Visto che i patrizi
cercavano a bella posta di rimandare ogni iniziativa per evitare che il
console plebeo entrasse in azione, la calma generale dette l'impressione
che fosse stata proclamata la sospensione dell'attività giudiziaria;
senonché i tribuni non erano disposti a tollerare in silenzio che i
nobili, a fronte di un unico console plebeo, si fossero assicurati tre
magistrati patrizi che indossavano la pretesta e sedevano sugli scanni
curuli quasi fossero consoli, e che il pretore amministrasse addirittura
la giustizia e fosse stato eletto alla stregua di un collega dei consoli,
con i medesimi auspici: per cui il senato non se la sentì di ordinare che
gli edili venissero scelti tra i patrizi. Così, in un primo tempo, si
concordò di nominare, ad anni alterni, edili di provenienza plebea. In
séguito l'elezione avvenne senza distinzioni.
Il consolato successivo toccò a Lucio Genucio e Quinto Servilio. La
pace non era minacciata né da scontri tra fazioni né da guerre. Ma, come
se i Romani non potessero mai essere liberi da paure e da minacce
incombenti, ecco che scoppiò una terribile pestilenza. Le fonti
riferiscono che morirono un censore, un edile curule e tre tribuni della
plebe, e che il numero delle vittime nel resto della popolazione fu
analogamente elevato. Ma ciò che rese degna di menzione quella pestilenza
fu la morte di Marco Furio, dolorosissima per tutti non ostante lo avesse
raggiunto in età molto avanzata. Egli fu infatti uomo assolutamente
impareggiabile in qualunque circostanza della vita. Eccezionale tanto in
pace quanto in guerra prima di essere bandito da Roma, si distinse ancor
più nei giorni dell'esilio: lo testimoniano sia il rimpianto di un'intera
città che, una volta caduta in mani nemiche, ne implorò l'intervento
mentre era assente, sia il trionfo con il quale, riammesso in patria,
ristabilì nel contempo le proprie sorti e il destino della patria stessa.
Mantenutosi poi per venticinque anni - quanti ancora ne visse da quel
giorno - all'altezza di una simile fama, fu ritenuto degno di essere
nominato secondo fondatore di Roma dopo Romolo.
2 La pestilenza infuriò tanto in questo quanto nell'anno
successivo, durante il consolato di Gaio Sulpicio Petico e Gaio Licinio
Stolone. Di conseguenza non accadde nulla che sia degno di essere
menzionato, se non il fatto che, proprio per placare l'ira degli dèi,
venne celebrato un lettisternio, il terzo dalla fondazione di Roma. Ma
siccome non c'erano iniziative umane né aiuti divini che riuscissero a
frenare la violenza dell'epidemia, mentre già gli animi erano in preda
alla superstizione, si dice che tra i tanti tentativi fatti per placare
l'ira dei celesti vennero anche istituiti degli spettacoli teatrali, fatto
del tutto nuovo per un popolo di guerrieri i cui unici intrattenimenti
erano stati fino ad allora i giochi del circo. Ma a dir la verità si
trattò anche di una cosa modesta, come per lo più accade all'inizio di
ogni attività, e per giunta importata dall'esterno. Senza parti in poesia,
senza gesti che riproducessero i canti, degli istrioni fatti venire
dall'Etruria danzavano al ritmo del flauto, con movenze non scomposte e
caratteristiche del mondo etrusco. In séguito i giovani cominciarono a
imitarli, lanciandosi nel contempo delle battute reciproche con versi
rozzi e muovendosi in accordo con le parole. Quel divertimento entrò così
nell'uso, e fu praticato sempre più frequentemente. Agli attori
professionisti nati a Roma venne dato il nome di istrioni, da
ister che in lingua etrusca vuol dire attore. Essi non si
scambiavano più, come un tempo, versi rozzi e improvvisati simili al
Fescennino, ma rappresentavano satire ricche di vari metri, eseguendo
melodie scritte ora per l'accompagnamento del flauto e compiendo gesti
appropriati.
Livio fu il primo, alcuni anni dopo, ad abbandonare la satira e ad
avventurarsi nella composizione di un'opera dotata di trama unitaria.
Attore egli stesso delle proprie opere - come allora erano tutti -, pare
che, colpito da un abbassamento di voce per le ripetute chiamate in scena,
dopo aver chiesto e ottenuto di far cantare un ragazzo davanti al
flautista, eseguì la sua monodia con gesti di gran lunga più espressivi
proprio perché non era impedito dal dover usare la voce. Da allora gli
attori cominciarono ad accompagnare le parti cantate con gesti, riservando
all'uso della voce soltanto le parti dialogate. Ma quando, grazie a questo
tipo di messe in scena, la rappresentazione si scostò dallo scherzo
spontaneo e dal lazzo gratuito e il teatro si trasformò a poco a poco in
una manifestazione artistica, la gioventù abbandonò le recite agli attori
di professione e riprese l'abitudine di un tempo scambiando rozze battute
in versi. Di qui nacquero quelle che in séguito vennero chiamate farse
finali e per lo più aggiunte alle Atellane. Queste ultime, un tipo di
rappresentazione importato dagli Osci, i giovani romani le tennero per sé
e non permisero che fossero contaminate dagli attori professionisti. Di
qui la norma per cui gli attori di Atellane non possono essere rimossi
dalla tribù di appartenenza e prestano servizio militare, come se non
avessero rapporti con il mondo della scena. Tra gli inizi modesti di molte
altre cose è parso opportuno collocare anche i primi passi del teatro,
perché si potesse vedere quanto fossero sobri i primordi di un'arte che al
giorno d'oggi ha raggiunto tali vertici di scostumatezza da essere a
malapena tollerata anche in regni ricchissimi.
3 Tuttavia neppure l'introduzione degli spettacoli teatrali
destinata a placare l'ira degli dèi riuscì a liberare le menti dalla
superstizione o i corpi dal contagio. Tutt'altro. Proprio mentre gli
spettacoli erano in pieno svolgimento, uno straripamento del Tevere rese
impraticabile il Circo Massimo, il che causò il panico, come se gli dèi
avessero ormai voltato le spalle e disprezzassero i tentativi fatti per
placare la loro ira. E così, durante il consolato di Gneo Genucio e di
Lucio Emilio Mamerco (entrambi eletti per la seconda volta), dato che la
ricerca di rimedi praticabili preoccupava le menti più di quanto la
pestilenza non stremasse i corpi, si dice che i cittadini più anziani
richiamassero alla memoria il fatto di una pestilenza un tempo placata da
un chiodo infisso dal dittatore. E il senato, spinto da questa credenza,
ordinò di nominare un dittatore al fine di piantare il chiodo. La scelta
cadde su Lucio Manlio Imperioso il quale si scelse come maestro di
cavalleria Lucio Pinario.
C'è un'antica legge, scritta con parole e caratteri arcaici, la quale
stabilisce che il più alto magistrato in carica pianti un chiodo alle idi
di Settembre. Questa legge era affissa sul lato destro del tempio di Giove
Ottimo Massimo, nel punto in cui c'è il santuario di Minerva. Data la
rarità della scrittura in quei tempi, pare che il chiodo servisse per
segnare il numero degli anni e che la legge fosse stata consacrata nel
santuario di Minerva perché il numero è un'invenzione della dea. Lo
storico Cincio, attento studioso di quel tipo di testimonianze, afferma
che anche a Volsinii nel tempio della dea etrusca Nortia si possono ancora
vedere dei chiodi piantati per indicare il numero degli anni. Il console
Marco Orazio, attenendosi a quella legge, consacrò il tempio di Giove
Ottimo Massimo l'anno successivo alla cacciata dei re. In séguito la
cerimonia solenne del piantare il chiodo passò dai consoli ai dittatori,
in quanto rappresentavano un'autorità più alta. Col passare del tempo
l'usanza era stata abbandonata. Ciò non ostante in quel periodo sembrò
essere di per se stessa motivo sufficiente per la nomina di un dittatore.
Per tale ragione venne eletto Lucio Manlio il quale, come se fosse stato
nominato per condurre una guerra e non per assecondare una semplice
superstizione, aspirando a portare guerra agli Ernici, suscitò il
malcontento dei giovani bandendo una leva che non ammetteva esclusioni. Ma
alla fine, quando tutti i tribuni della plebe insorsero uniti contro di
lui, si lasciò piegare dalla forza o dalla vergogna e rinunciò alla
dittatura.
4 Tuttavia, all'inizio dell'anno seguente, durante il consolato di
Quinto Servilio Aala e di Lucio Genucio, il tribuno della plebe Marco
Pomponio non ebbe esitazioni a citare in giudizio Lucio Manlio. Il
risentimento nei suoi confronti era dovuto alla severità dimostrata nella
leva, per la quale i cittadini avevano subito non solo ammende pecuniarie
ma anche violenze fisiche, alcuni essendo stati frustati per non aver
risposto alla chiamata, altri essendo stati gettati in carcere. Ma ciò che
più irritava erano la crudeltà del carattere e il suo soprannome,
Imperioso: era offensivo per un paese libero ed era stato assunto come
ostentazione della ferocia da lui mostrata tanto nei confronti di estranei
quanto verso gli amici più cari e i membri della sua stessa famiglia. Tra
le altre imputazioni il tribuno lo accusava del comportamento tenuto nei
riguardi del figlio: quest'ultimo, benché non fosse stato riconosciuto
colpevole di alcun reato, era stato bandito da Roma, dalla casa paterna e
dai penati; Manlio lo aveva allontanato dal foro, privato della luce del
giorno e della compagnia dei coetanei, costretto a un lavoro da schiavo,
come in un carcere, in un ergastolo, dove un giovane di nobili natali e
figlio di un dittatore potesse apprendere dalla quotidiana sofferenza
quanto fosse veramente imperioso il padre che l'aveva generato. E
quale era stata la sua colpa? La scarsa eloquenza e prontezza di lingua.
Ma non sarebbe stato cómpito del padre, se in lui ci fosse stato qualcosa
di umano, correggere questo difetto di natura invece di peggiorarlo con
punizioni e tormenti? Perfino gli animali allo stato brado, se uno dei
loro piccoli è meno fortunato, non di meno continuano a nutrirlo e a
curarsi di lui. Ma, per Ercole, Lucio Manlio il male che affliggeva il
figlio lo aumentava facendogli del male, e in più soffocandone lo sviluppo
dell'indole già poco pronta. E se poi in lui restava qualcosa della
naturale vitalità, Manlio la spegneva costringendo il giovane a vivere in
maniera selvaggia e a crescere tra le bestie.
5 Queste accuse suscitarono l'indignazione di tutti, salvo che del
giovane stesso, il quale invece soffriva al pensiero di essere causa di
ulteriore risentimento e accuse nei confronti del padre. E perché tutti in
cielo e in terra sapessero che egli aveva preferito aiutare il padre
piuttosto che i nemici del padre, organizzò un piano che, pur frutto di
un'indole rozza e selvaggia e ben lontano dal risultare un esempio di
condotta civica, era tuttavia elogiabile per l'attaccamento dimostrato al
padre. Senza che nessuno lo sapesse, alle prime luci del giorno venne in
città armato di coltello e dalla porta raggiunse in un attimo la casa del
tribuno Marco Pomponio. Al portinaio disse di dover vedere immediatamente
il suo padrone e lo pregò di riferire che si trattava di Tito Manlio, il
figlio di Lucio. Fatto entrare senza esitazione - Marco sperava che a
spingerlo fosse la rabbia nei confronti del padre o che fosse venuto a
riferire qualche nuova accusa o a suggerire un piano -, dopo un reciproco
scambio di saluti, il giovane disse che c'erano degli argomenti di cui
voleva discutere con lui lontano da occhi indiscreti. Dopo che a tutti i
presenti venne ordinato di allontanarsi dalla stanza, afferrò il coltello
e, fermo in piedi sopra il letto del tribuno con in mano l'arma pronta a
colpire, minacciò di pugnalarlo lì sul momento, se Pomponio non avesse
giurato, nei termini che egli stesso avrebbe imposto, di non aver alcuna
intenzione di convocare un'assemblea popolare per mettere suo padre sotto
accusa. Il tribuno, in preda al panico, vedendo il bagliore della lama
davanti agli occhi e rendendosi conto di essere da solo e disarmato di
fronte a un giovane nel pieno delle forze e - cosa questa non meno
preoccupante - brutalmente imbaldanzito dalla consapevolezza della propria
forza, giurò secondo la formula che gli era stata dettata. In séguito
dichiarò pubblicamente di essere stato costretto da quell'atto di forza ad
abbandonare l'azione intrapresa. La plebe avrebbe preferito che le fosse
concessa l'opportunità di esprimere il proprio voto circa un imputato
tanto crudele e arrogante. Tuttavia non disapprovò che un figlio avesse
osato quel gesto in difesa del padre. Gesto tanto più degno di elogi per
il fatto che la severità esagerata del padre non aveva diminuito nel
giovane l'amore per il genitore. Perciò non solo venne ritirata l'accusa
nei confronti del padre, ma l'intera faccenda fu per il ragazzo
addirittura motivo di onore. Dato che quell'anno si stabilì per la prima
volta di assegnare i tribuni militari a capo delle legioni con una
regolare votazione - fino ad allora a nominarli erano i generali in
persona, come oggi avviene con quelli chiamati Rufuli - egli fu il
secondo a essere eletto su sei posti disponibili, pur non avendo compiuto,
in pace o in guerra, nulla che giustificasse tale popolarità, come per
altro è naturale per uno che abbia trascorso la giovinezza in campagna e
lontano dal consesso civile.
6 Nel corso di quello stesso anno, fosse per un terremoto o per
un'altra forza della natura, si dice che nel centro del foro il suolo
franò fino a profondità incommensurabili, lasciandovi un'ampia voragine.
Non ostante tutti vi gettassero della terra, non si riuscì a riempirla,
fino a quando, su preciso monito degli dèi, la gente cominciò a domandarsi
quale fosse l'elemento principale della forza del popolo romano. Questo
era quanto gli indovini sostenevano si dovesse consacrare a quel luogo, se
si voleva che la repubblica romana durasse in eterno. Allora, stando a
quanto si narra, Marco Curzio, un giovane distintosi in guerra, rimproverò
i concittadini per essersi domandati se esistesse qualcosa di più romano
del valore militare. Poi, calato il silenzio, con gli occhi rivolti al
Campidoglio e ai templi degli dèi immortali che sovrastano il foro,
tendendo le mani ora verso il cielo ora verso la voragine spalancata e
verso gli dèi Mani, si offrì in voto ad essi. Quindi, montò in groppa a un
cavallo bardato nella maniera più splendida possibile e si gettò armato
nella voragine: e una folla di uomini e donne gli lanciò dietro frutti e
offerte votive. Fu lui a dare al lago il nome di Curzio e non Curzio
Mezio, soldato di Tito Tazio in tempi remoti. Certo non sarebbe mancata la
ricerca meticolosa, se fosse esistita qualche via per raggiungere la
verità; ma allo stato presente bisogna attenersi alla tradizione, visto
che l'antichità dell'episodio non permette di essere molto precisi. E il
nome del lago risulta maggiormente glorioso se connesso a questa leggenda
più recente.
Una volta espiato quel prodigio così straordinario, nel corso dello
stesso anno il senato decise di occuparsi della questione degli Ernici. Ma
siccome l'invio di feziali con la richiesta di riparazioni belliche non
diede risultati, il senato stabilì di presentare al popolo, quanto prima
possibile, la proposta di dichiarare guerra agli Ernici. Nel corso di
un'assemblea affollatissima, il popolo votò a favore della guerra e al
console Lucio Genucio toccò in sorte il cómpito di occuparsi della
spedizione. L'attesa dei cittadini era grande: Genucio sarebbe stato il
primo console plebeo a gestire una guerra sotto i suoi stessi auspici, ed
essi avrebbero giudicato dagli esiti della campagna se avessero fatto bene
o meno a rendere accessibili a tutti le magistrature. Ma il caso volle che
Genucio, partito alla volta del nemico con un grande schieramento di
forze, finisse vittima di un'imboscata: le legioni, colte improvvisamente
dal panico, vennero sbaragliate, mentre il console venne circondato e
ucciso da uomini che non lo avevano riconosciuto. Non appena la notizia
arrivò a Roma, lo sdegno dei patrizi, per nulla afflitti dalla disfatta
dello Stato, quanto piuttosto imbaldanziti dall'infelice esito del comando
affidato a un console plebeo, riempì la città. Andassero pure a scegliersi
i consoli in mezzo ai plebei! Trasferissero pure gli auspici là dove la
legge divina lo vietava! Con un plebiscito sarebbero stati in grado di
tener lontani i patrizi dalle loro magistrature: ma una legge approvata
senza i regolari auspici avrebbe mai avuto valore per gli dèi immortali?
Gli dèi in persona avevano rivendicato la loro autorità divina e i loro
auspici: non appena essi erano stati toccati da chi era privo del diritto
umano e divino di farlo, esercito e generale erano stati sbaragliati come
monito a che in futuro non si tenessero più elezioni in violazione dei
diritti delle genti patrizie. Curia e foro rimbombavano al suono di queste
parole. Appio Claudio, il quale si era opposto al passaggio della legge,
godeva adesso di maggiore autorità perché denunciava i risultati di una
politica che aveva attaccato in precedenza. Con il consenso dei patrizi,
il console Servilio lo nominò di conseguenza dittatore, bandendo poi una
leva militare e proclamando la sospensione dell'attività giudiziaria.
7 Prima che il dittatore e le nuove legioni arruolate arrivassero
nel territorio degli Ernici, il luogotenente Gaio Sulpicio, approfittando
di un'occasione favorevole, aveva ottenuto brillanti risultati nella
campagna. Gli Ernici, resi tracotanti dalla morte del console, si
avvicinavano all'accampamento romano convinti di poterlo espugnare. Ma le
esortazioni del luogotenente e gli animi dei soldati pieni di rabbia e di
vergogna resero possibile una sortita. E gli Ernici, che avevano sperato
di avvicinarsi alla trincea, dovettero invece ritirarsi nello scompiglio
generale. Poi, con l'arrivo del dittatore, il nuovo esercito venne ad
aggiungersi a quello vecchio e il numero degli effettivi raddoppiò. Il
dittatore, parlando alle truppe in adunata, elogiò il luogotenente e i
soldati il cui valore era stato un sicuro baluardo per l'accampamento.
Così Appio riuscì nello stesso tempo a risollevare quanti si sentivano
rivolgere quei meritati elogi, e a stimolare i nuovi arrivati a emularne
l'eroismo. I nemici, da parte loro, si preparavano alla guerra con non
minore scrupolo: memori com'erano della gloria conquistata in precedenza,
ma consapevoli del fatto che le truppe nemiche erano state rinforzate,
aumentarono anche i propri contingenti. Tutte le genti erniche, tutti
coloro che erano in età militare vennero convocati e furono così arruolate
otto coorti, ciascuna delle quali formata da 400 uomini selezionati.
Colmarono di speranze e di vigore queste truppe scelte decretando che
fosse loro concesso il doppio dello stipendio. I soldati erano addirittura
esentati dai lavori di natura militare in modo che, essendo destinati al
solo sforzo della battaglia, fossero consapevoli di dover chiedere a se
stessi un impegno superiore a quello di un uomo comune. Come ultimo
privilegio venne loro assegnato un posto al di fuori dello schieramento,
in maniera tale che il loro valore fosse ancora più in evidenza.
Gli accampamenti di Romani ed Ernici erano separati da una pianura
lunga due miglia. La battaglia fu combattuta in mezzo a quella pianura, in
un punto più o meno equidistante dai due accampamenti. Sulle prime l'esito
della battaglia rimase incerto e a poco valsero i ripetuti tentativi fatti
dalla cavalleria romana di rompere la linea nemica. Quando i cavalieri si
resero conto che la battaglia equestre, nonostante i loro sforzi, non dava
risultati, consultarono prima il dittatore e poi, ricevuta da lui
l'autorizzazione, lasciarono i cavalli e si buttarono con grande clamore
al di là delle insegne, portando nuovo slancio alla battaglia. Il loro
attacco sarebbe risultato incontenibile, se non si gli si fossero parate
innanzi le coorti speciali che li affrontarono con uguale coraggio e forza
fisica.
8 In quel momento le sorti della battaglia erano affidate agli
uomini più valenti dei due popoli. E qualunque fosse stata l'entità delle
perdite inflitte dai casi della guerra all'una e all'altra parte, il danno
avrebbe sicuramente superato di gran lunga il loro numero effettivo. La
massa dei soldati semplici, come se avessero delegato a loro campioni il
cómpito di combattere, affidavano il proprio destino al valore di altri.
Da entrambe le parti ci furono moltissime perdite, anche se il numero dei
feriti risultò ancora più alto. Alla fine i cavalieri, rimproverandosi
l'uno con l'altro, si domandavano che altro restasse loro da fare, visto
che non erano riusciti a sbaragliare il nemico quando erano in sella ai
cavalli né avevano ottenuto grandi risultati quando avevano combattuto da
terra. Stavano forse aspettando un terzo tipo di combattimento? Ma quale?
Che cosa avevano combinato di buono lanciandosi baldanzosi al di là delle
insegne e combattendo in un posto che non era il loro? Incitati da questi
scambi di rimproveri, i cavalieri alzarono di nuovo il grido di battaglia
e si gettarono all'assalto. Sulle prime riuscirono a far ripiegare il
nemico, poi lo spinsero indietro e infine lo costrinsero apertamente alla
fuga. Non è facile dire cosa avesse loro permesso di prevalere in uno
scontro di forze così equilibrate, se non il fatto che la sorte, dopo aver
sostenuto con costanza entrambi gli schieramenti, riuscì ad esaltare gli
animi degli uni e a deprimere gli altri. I Romani inseguirono gli Ernici
in fuga fino all'accampamento, ma non tentarono di conquistarlo perché era
ormai tardi. Il dittatore non aveva infatti dato il segnale di battaglia
prima di mezzogiorno perché era stato trattenuto dalla prolungata
difficoltà di ottenere buoni auspici nel sacrificio: e per questo il
combattimento si era trascinato fino al calare della notte. Il giorno dopo
l'accampamento era deserto: gli Ernici erano fuggiti lasciando indietro
soltanto qualche ferito. Mentre la colonna dei fuggitivi stava passando
sotto le mura di Signia, i cittadini, scorti i reparti decimati,
piombarono su di loro sbaragliandoli e disperdendoli in una fuga affannosa
per le campagne. Per i Romani non fu però una vittoria priva di perdite:
il numero delle vittime corrispondeva a un quarto degli effettivi e -
danno non minore - ad alcuni elementi della cavalleria.
9 L'anno successivo i consoli Gaio Sulpicio e Gaio Licinio Calvo
guidarono l'esercito contro gli Ernici. Ma non avendo trovato nemici in
campo aperto, espugnarono la città ernica di Ferentino. Mentre però
stavano tornando, i Tiburtini chiusero loro le porte in faccia. In
passato, da entrambe le parti, c'erano state numerose lamentele. Quello
però fu il motivo che spinse i Romani a dichiarare guerra ai Tiburtini
dopo aver inviato loro i feziali con le richieste di riparazione.
Le fonti concordano nell'affermare che quell'anno vennero nominati
dittatore Tito Quinzio Peno e maestro di cavalleria Servio Cornelio
Maluginense. Licinio Macro sostiene che tale nomina fosse dovuta alla
necessità di tenere delle elezioni e che l'avesse effettuata il console
Licinio. Questi, vedendo che il suo collega si affrettava a tenere le
elezioni prima dell'inizio della campagna per poter ottenere la proroga
del consolato, si sentì in dovere di opporsi a quel progetto criminoso. Ma
il tentativo fatto da Licinio di mettere in buona luce la propria famiglia
rende meno attendibile la sua versione dei fatti. Dato che negli annali
più antichi non ho trovato traccia dell'episodio, sono più propenso a
credere che il dittatore sia stato nominato in occasione di una guerra
contro i Galli. In ogni caso, fu proprio in quell'anno che i Galli si
accamparono a tre miglia da Roma, sulla via Salaria, al di là del ponte
sull'Aniene.
Il dittatore, proclamata la sospensione dell'attività giudiziaria a
séguito dell'incombente minaccia costituita dai Galli, mobilitò tutti i
giovani in età militare. Partito da Roma con un esercito di ragguardevoli
proporzioni, si accampò sulla riva meridionale dell'Aniene. Tra i due
eserciti c'era il ponte, ma nessuno osava abbatterlo per non dare
l'impressione di avere paura. C'erano frequenti scaramucce per occupare il
ponte, ma le forze erano così equilibrate che non si poteva stabilire chi
ne avesse il controllo. Fu allora che un soldato gallico dal fisico
possente si fece avanti sul ponte deserto e urlò con quanta voce aveva in
gola: «Si faccia avanti a combattere il guerriero più forte che c'è adesso
a Roma, così che l'esito del nostro duello stabilisca quale dei due popoli
è superiore in guerra».
10 Tra i giovani patrizi romani ci fu un lungo silenzio dovuto alla
vergogna di non poter raccogliere la sfida e alla paura di offrirsi
volontari per una missione tanto rischiosa. Allora Tito Manlio, figlio di
Lucio, il giovane che aveva salvato il padre dalle accuse del tribuno,
lasciò la sua posizione e si avviò verso il dittatore. «Senza un tuo
ordine, o comandante», disse «non combatterei mai fuori dal mio posto,
neppure se vedessi che la vittoria è sicura. Se tu me lo concedi, a quella
bestia che ora fa tanto lo spavaldo davanti alle insegne nemiche io vorrei
dare la prova di discendere da quella famiglia che cacciò giù dalla rupe
Tarpea le schiere dei Galli». Allora il dittatore rispose: «Onore e gloria
al tuo coraggio e al tuo attaccamento al padre e alla patria, o Tito
Manlio. Vai e con l'aiuto degli dèi dài prova che il nome di Roma è
invincibile». Poi i compagni lo aiutarono ad armarsi: prese uno scudo da
fante e si cinse in vita una spada ispanica, più adatta per lo scontro
ravvicinato. Dopo averlo armato di tutto punto, lo accompagnarono verso il
soldato gallico che stava stolidamente esultando e che (particolare anche
questo ritenuto degno di menzione da parte degli antichi) si faceva beffe
di lui tirando fuori la lingua dalla bocca. Poi rientrarono ai loro posti,
mentre i due uomini armati restarono soli in mezzo al ponte, più simili in
verità a gladiatori che a soldati regolari. Nulla li rendeva pari, almeno
a giudicare dall'aspetto esterno: l'uno aveva un fisico di straordinaria
prestanza, portava vesti sgargianti e rifulgeva di armi cesellate in oro.
L'altro era un soldato di media statura e portava armi più maneggevoli che
belle: non cantava, non gesticolava con tracotanza né faceva vana
esibizione delle proprie armi, ma aveva il petto che fremeva di palpiti di
coraggio e di rabbia repressa e riservava tutta la sua aggressività per il
culmine dello scontro. Quando essi presero posizione tra i due eserciti,
mentre intorno i cuori di tutti i soldati erano sospesi tra la speranza e
la paura, il campione dei Galli, la cui massa imponente sovrastava
dall'alto l'avversario, avanzando con lo scudo proteso al braccio
sinistro, sferrò un fendente di taglio sull'armatura del Romano che gli
veniva incontro, ma lo mancò, con un grande rimbombo. Il Romano, tenendo
alta la punta della spada, colpì col proprio scudo la parte bassa di
quello dell'avversario; poi, insinuatosi tra il corpo e le armi di
quest'ultimo in modo tale da non correre il rischio di essere ferito, con
due colpi sferrati uno dopo l'altro gli trapassò il ventre e l'inguine
facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua mole. Tito Manlio
si astenne dall'infierire sul corpo del nemico crollato al suolo,
limitandosi a spogliarlo della sola collana, che indossò a sua volta,
coperta com'era di sangue. I Galli erano paralizzati dalla paura mista
all'ammirazione. I Romani, invece, abbandonando la posizione, corsero
festanti incontro al loro commilitone e lo portarono dal dittatore, tra
congratulazioni ed elogi. Tra le rozze battute che i soldati inserivano
nei loro cori più o meno simili a versi si sentì anche l'appellativo di
Torquato, soprannome che in séguito rimase famoso e fu anche motivo di
onore per i discendenti della sua famiglia. Il dittatore aggiunse in dono
una corona d'oro e di fronte alle truppe in adunata celebrò con le lodi
più alte quel combattimento.
11 E per Ercole quel duello fu così determinante nello svolgimento
dell'intera guerra che l'esercito dei Galli la notte successiva lasciò
l'accampamento in fretta e furia e si diresse nel territorio dei
Tiburtini. Di lì, stipulato un trattato di alleanza con i Tiburtini e
ricevuti da loro generosi rifornimenti, partirono sùbito alla volta della
Campania. Fu per questa ragione che l'anno dopo il popolo volle assegnare
al console Gaio Petelio Balbo il cómpito di guidare una spedizione contro
i Tiburtini, mentre al suo collega Marco Fabio Ambusto era toccata la
campagna contro gli Ernici. I Galli tornarono indietro dalla Campania per
intervenire in loro aiuto e le tremende devastazioni registrate nei
territori di Labico, Tuscolo e Alba Longa avvennero senza alcun dubbio per
istigazione dei Tiburtini. Mentre lo Stato era soddisfatto del comando
affidato al console nella campagna contro i Tiburtini, la minaccia dei
Galli rese necessaria la nomina di un dittatore. La scelta cadde su Quinto
Servilio Aala che come maestro di cavalleria scelse Tito Quinzio e che, su
consiglio del senato, fece voto di celebrare dei grandi giochi nel caso in
cui la guerra si fosse conclusa positivamente. Il dittatore, dopo aver
ordinato all'esercito del console di rimanere dov'era in modo da impedire
ai Tiburtini di intervenire in conflitti che non li riguardavano, fece
prestare giuramento a tutti i giovani in età militare, senza che nessuno
di essi cercasse di tirarsi indietro. La battaglia venne combattuta non
lontano dalla porta Collina. I cittadini impiegarono tutte le loro forze
combattendo al cospetto di genitori, mogli e figli: se questi erano già un
incentivo fortissimo anche lontani dalla vista, ora, posti di fronte agli
occhi, infiammarono gli animi dei soldati toccandone il senso dell'onore e
l'amore verso la famiglia. Le perdite furono numerosissime da entrambe le
parti, ma alla fine l'esercito dei Galli venne respinto. Messi in fuga, i
Galli si diressero verso Tivoli, come se questa fosse la piazzaforte della
loro guerra. Nella loro rotta disordinata vennero intercettati dal console
Petelio: quando però i Tiburtini uscirono dalla città per portare aiuto, i
Galli vennero respinti a forza dentro le mura. La campagna venne condotta
in maniera impeccabile tanto dal dittatore quanto dal console. Fabio,
l'altro console, prima in battaglie di scarsa importanza e alla fine in
uno scontro campale nel quale il nemico aveva schierato tutte le sue
forze, piegò la resistenza degli Ernici. Il dittatore ebbe parole di
straordinario elogio, in senato e di fronte al popolo, per i due consoli
cui attribuì il merito anche delle proprie imprese. Quindi rinunciò alla
dittatura. Petilio celebrò un doppio trionfo per le vittorie su Galli e
Tiburtini. Quanto a Fabio, invece, sembrò sufficiente concedergli di
rientrare in città con l'onore dell'ovazione.
I Tiburtini si facevano beffe del trionfo di Petilio: quando mai aveva
combattuto con loro? Un pugno di uomini era uscito dalle porte per
assistere alla fuga e al panico dei Galli: poi, vedendo che anche loro
venivano attaccati e che quanti si imbattevano nei Romani venivano fatti a
pezzi, si erano ritirati all'interno delle mura. Era questa la grande
impresa che agli occhi dei Romani era parsa degna di un trionfo! Perché
non considerassero cosa troppo straordinaria e valorosa il fare rumore
davanti alle porte dei nemici, i Romani avrebbero dovuto assistere a
qualcosa di ben più tremendo di fronte alle loro porte.
12 Così, l'anno successivo, quando i consoli in carica erano Marco
Popilio Lenate e Gneo Manlio, una spedizione partì da Tivoli con intenti
bellicosi e raggiunse Roma ai primi silenzi della notte. L'evento
improvviso e l'allarme notturno terrorizzarono la popolazione immersa nel
sonno; e ulteriore paura aggiunse il fatto che molti non sapevano chi
fossero e da dove venissero i nemici. Ciò non ostante l'ordine di correre
alle armi venne dato immediatamente, mentre in prossimità delle porte e
dei muri vennero piazzate sentinelle e corpi di guardia. Ma quando le
prime luci del giorno permisero di capire che la massa degli assalitori
non era consistente e che non vi erano altri nemici salvo i Tiburtini, i
consoli, usciti da due delle porte, piombarono loro addosso dai fianchi
mentre si stavano già avvicinando alle mura; e fu chiaro che la loro
spedizione era fondata più sulla sorpresa che sul vero valore: riuscirono
appena a sostenere il primo assalto romano. Quell'assalto, risultò chiaro,
era stato un bene per i Romani perché la paura provocata da una guerra
così vicina aveva represso sul nascere uno scontro tra patrizi e
plebei.
Un'altra incursione ostile fu invece, per le campagne, più
preoccupante: i Tarquiniesi penetrarono in territorio romano, devastandolo
soprattutto nei pressi del confine con l'Etruria. E siccome le richieste
di riparazione non ebbero séguito, i nuovi consoli Gaio Fabio e Gaio
Plauzio dichiararono loro guerra per ordine del popolo. A Fabio toccò
quella campagna, mentre a Plauzio andarono gli Ernici.
Inoltre si facevano sempre più frequenti le voci circa una guerra
scatenata dai Galli. Ma in mezzo a tutte quelle preoccupazioni fu motivo
di consolazione il concedere la pace ai Latini che erano venuti a
domandarla, e che inviarono un massiccio contingente di rinforzi (come
previsto dalle clausole di un antico trattato cui quel popolo non si era
attenuto per molti anni). Grazie all'invio di queste nuove forze, i Romani
reagirono meglio all'arrivo della notizia che i Galli erano arrivati a
Preneste e di lì si erano accampati nei pressi di Pedo. Fu deciso di
nominare dittatore Gaio Sulpicio e il console Gaio Plauzio venne
richiamato apposta per farlo. Al dittatore venne affiancato come maestro
di cavalleria Marco Valerio. Questi uomini marciarono contro i Galli, dopo
aver selezionato il meglio dei due eserciti consolari. Ma la guerra si
trascinò molto più a lungo di quanto entrambe le parti desiderassero.
Mentre all'inizio solo i Galli erano ansiosi di arrivare allo scontro, in
séguito i Romani ne superarono di gran lunga l'irruenza, desiderosi
com'erano di correre alle armi e di combattere. Ma il dittatore, non
essendo forzato dalle circostanze, non aveva alcuna intenzione di buttarsi
allo sbaraglio contro un nemico che il tempo rendeva giorno dopo giorno
sempre meno preoccupante, in zone poco favorevoli, senza adeguate
provviste di viveri. E a tutto questo si aggiungeva il fatto che la forza
e il valore del nemico consisteva interamente nella capacità di attacco,
mentre diventava poca cosa non appena le operazioni rallentavano anche di
un nonnulla.
Fondandosi su queste considerazioni, il dittatore cercava di tirare la
guerra per le lunghe, minacciando pene gravissime per chi avesse osato
aprire le ostilità senza il suo ordine. Gli uomini, che non vedevano di
buon occhio questa tattica, sulle prime cominciarono a sparlare del
dittatore durante i servizi di guardia e talora si recavano in gruppo dai
senatori rimproverandoli di non aver affidato la guerra ai consoli: il
comandante supremo da loro scelto era un grandissimo stratega, uno che
credeva che la vittoria gli sarebbe caduta tra le braccia dal cielo senza
dover alzare un dito. Ma in séguito i soldati iniziarono a parlare alla
luce del sole e a dire apertamente cose ancora più gravi: non avrebbero
più aspettato l'ordine del comandante: avrebbero combattuto oppure
sarebbero rientrati a Roma in schiera compatta. Ai soldati cominciarono a
unirsi i centurioni e le lamentele non erano più limitate a piccoli
crocchi: nella piazza principale del campo e di fronte alla tenda del
dittatore era ormai un solo coro di proteste. La massa degli scontenti
aumentò poi nell'assemblea del popolo e da tutte le parti si sentiva la
gente gridare che era venuto il momento di andare dal dittatore. Il
portavoce delle truppe avrebbe dovuto essere Sesto Tullio, come si
conveniva alla sua statura di soldato.
13 In quella campagna Tullio serviva per la settima volta come
centurione primipilo e in tutto l'esercito non c'era nessun altro - almeno
all'interno della fanteria - che si fosse distinto quanto lui per i
servizi prestati. Marciando in testa alle truppe, Tullio salì sulla
tribuna e si avvicinò a Sulpicio che era sbalordito non tanto al vedersi
davanti quella massa di soldati, quanto piuttosto al fatto che a guidarla
fosse Tullio, un soldato assolutamente ligio alla gerarchia militare. «Se
mi è concesso, o dittatore», disse «l'intero esercito, sentendosi
condannato alla viltà dal tuo comportamento e quasi privato delle armi per
ignominia, mi ha pregato di venire a perorare la sua causa presso di te. A
dir la verità, se noi potessimo essere accusati di aver in qualche luogo
ceduto la posizione, di aver voltato le spalle ai nemici o di aver
abbandonato vergognosamente le insegne, ciò non ostante continuerei a
pensare che sia giusto chiederti di offrirci l'opportunità di riparare
alla nostra colpa con una prova di valore e di conquistare nuova gloria
cancellando il ricordo del nostro disonore. Anche le legioni che furono
messe in fuga all'Allia partirono poi alla volta di Veio e riconquistarono
con il valore quella stessa patria che avevano perduto per codardia.
Quanto a noi, per la benevolenza degli dèi e la fortuna che arride a te e
al popolo romano, la nostra causa e la nostra gloria sono ancora intatte.
Anche se della gloria sarei meno sicuro, visto che i nemici ci hanno
insultato in tutti i modi possibili, come fossimo donnicciole nascoste al
riparo della trincea, e tu, il nostro comandante - cosa questa ben più
difficile da sopportare - ci consideri un esercito privo di nerbo, di armi
e di mani e prima ancora di averci messo alla prova hai disperato di noi a
tal punto da ritenerti il comandante di un'armata di invalidi e di storpi.
Perché in quale altro modo potremmo spiegarci che un generale esperto e
temerario quale tu sei se ne stia, come si suole dire, con le mani in
mano? Comunque stiano le cose, è più ragionevole che tu dia l'impressione
di avere dei dubbi circa il nostro valore piuttosto che ad avere dubbi sul
tuo siamo noi soldati. Ma se invece questa tattica non dipende da te ma ti
è imposta dallo Stato, e se a tenerci lontano da Roma è qualche accordo
stretto dai senatori e non la guerra contro i Galli, allora io ti prego di
ascoltare le parole che sto per dirti non come se fossero rivolte dalla
truppa al comandante, ma come se a parlare fosse la plebe ai patrizi (e
visto che voi patrizi avete i vostri piani, chi potrebbe prendersela coi
plebei se anche loro decidessero di averne?): noi siamo soldati, non
vostri servi; siamo stati inviati a combattere una guerra e non mandati in
esilio. Se qualcuno vorrà dare il segnale e guidarci in battaglia, noi
saremo pronti a combattere come si conviene a degli uomini e a dei Romani.
Ma se non c'è bisogno delle armi, allora preferiamo riposarci a Roma
piuttosto che dentro un accampamento. Ai patrizi è questo che mandiamo a
dire. Ma a te, o comandante, noi che siamo i tuoi soldati chiediamo
imploranti di concederci l'opportunità di combattere. Non abbiamo voglia
soltanto di vincere: vogliamo vincere sotto il tuo comando, conquistare
per te l'alloro prestigioso, entrare con te in trionfo a Roma e
accompagnare con ovazioni e ringraziamenti il tuo carro trionfale fino al
tempio di Giove Ottimo Massimo». Il discorso di Tullio venne sostenuto
dalle invocazioni della folla, mentre da ogni parte si udivano voci che
chiedevano a tutta forza di dare il segnale di battaglia e l'ordine di
prendere le armi.
14 Pur pensando che l'iniziativa, di per sé ottima, fosse stata
condotta in maniera non certo esemplare, ciò non ostante il dittatore
decise di seguire la volontà della truppa, e in privato domandò a Tullio
che cosa significasse quel gesto e sulla base di quale precedente egli
avesse agito. Tullio pregò il dittatore di non credere che egli si fosse
dimenticato della disciplina militare, né della propria posizione né
tantomeno dell'autorità del comandante: siccome la massa è in genere della
stessa stoffa dei suoi capi, egli non aveva rifiutato di esserne il
portavoce, per evitare che saltasse fuori qualcun altro simile a quelli
che di solito la massa in fermento suole scegliere come propri
rappresentanti. Ma a essere sincero, non avrebbe fatto nulla senza
l'approvazione del suo comandante, il quale doveva del resto guardarsi
bene dal lasciarsi sfuggire di mano il controllo dell'esercito, visto che
in quello stato di eccitazione rimandare la soluzione del problema non
sarebbe servito a molto. Se infatti l'ordine non fosse venuto dal
comandante, avrebbero scelto da soli luogo e tempo per entrare in
battaglia. Mentre questo colloquio era in pieno svolgimento, uno dei Galli
tentò di portar via degli animali che si trovavano a pascolare al di là
della palizzata, ma se li vide strappare da due Romani, contro i quali i
Galli presero a scagliare sassi. Dalla postazione romana si levò allora
l'allarme e da entrambe le parti gli uomini si mossero allo scontro. E
ormai la scaramuccia stava per trasformarsi in una battaglia vera e
propria, se i centurioni non avessero prontamente diviso i contendenti.
Questo incidente persuase il dittatore sul realismo delle parole di
Tullio: dato che la situazione non ammetteva ulteriori dilazioni, annunciò
che il giorno successivo si sarebbe combattuto in campo aperto.
Ma il dittatore, scendendo in campo convinto più del temperamento che
non della forza della sue truppe, cominciò a guardarsi intorno e a
studiare qualche stratagemma per spaventare il nemico. Grazie alla sua
abilità tattica, escogitò un nuovo espediente, di cui si servirono in
séguito molti comandanti romani e di altre genti (alcuni anche ai nostri
giorni): ordinò ai palafrenieri di togliere le selle ai muli, lasciando
solo un paio di coperte e disse loro di montarli vestendosi parte con le
armi dei prigionieri e parte con quelle degli ammalati. Dopo averne messi
insieme circa mille, vi mescolò un centinaio di cavalieri e ordinò loro di
piazzarsi al calar della notte sulle montagne che sovrastavano
l'accampamento e di non muoversi di lì finché non avessero ricevuto il
segnale. Quanto al dittatore, non appena fece giorno, cominciò a
organizzare con estrema cura la sua linea di battaglia alle pendici delle
alture, in maniera che i nemici andassero a piazzarsi di fronte alle
montagne dove era stato allestito per spaventarli un espediente che, pur
non avendo nulla di concreto al di là delle apparenze, fu per i Romani
quasi più utile della loro stessa forza. Sulle prime i comandanti dei
Galli supposero che i Romani non sarebbero scesi in pianura. Ma poi,
quando li videro iniziare di colpo la discesa, impazienti com'erano di
venire allo scontro, si buttarono a testa bassa e la battaglia ebbe inizio
prima ancora che i rispettivi comandanti avessero dato il segnale
d'inizio.
15 L'ala destra dei Galli attaccò in maniera ancora più poderosa: e
per i Romani non sarebbe stato possibile resistere, se il dittatore non si
fosse trovato per puro caso da quella parte. Chiamando per nome Sesto
Tullio, gli domandò se fosse quello il modo di combattere da lui promesso
a nome dei soldati. Dov'erano finite le urla di quelli che chiedevano di
poter correre alle armi, dove le minacce di entrare in battaglia senza
l'ordine del comandante? Ecco, ora il loro comandante li spronava a gran
voce alla battaglia e ad avanzare con la spada in pugno al di là delle
insegne! Possibile che tra quanti poco prima erano pronti a dare ordini
non ce ne fosse uno disposto a seguirlo, loro che nell'accampamento
ostentavano baldanza e poi diventavano codardi in battaglia? Le parole del
comandante corrispondevano a verità: e la vergogna provata fu uno stimolo
tanto forte da far sì che si lanciassero contro i proiettili nemici
dimentichi del pericolo. Questo assalto quasi da forsennati gettò lo
scompiglio tra gli avversari, che vennero poi messi in rotta da un attacco
della cavalleria ancor prima di potersi riprendere dalla confusione. Il
dittatore stesso, non appena si rese conto che una parte dello
schieramento stava perdendo colpi, diresse l'attacco verso il fianco
sinistro dei Galli (nel punto in cui le loro fila apparivano più
compatte), e diede il segnale convenuto agli uomini appostati sulle
alture. E quando anch'essi alzarono un nuovo grido di guerra e i Galli li
videro scendere lungo le pendici del monte in direzione del loro
accampamento, temendo di rimanere tagliati fuori, abbandonarono la
battaglia e fuggirono disordinatamente verso l'accampamento stesso. Lì
però vennero intercettati dal maestro di cavalleria Marco Valerio, il
quale, dopo averne disperso il fianco sinistro, stava già cavalcando di
fronte ai dispositivi di difesa. Allora i fuggiaschi cambiarono direzione
puntando verso i monti e i boschi, dove però la maggior parte di essi
venne fronteggiata dai palafrenieri travestiti da cavalieri. Quelli che
erano stati spinti dal panico verso i boschi furono massacrati senza pietà
a battaglia già conclusa. Dai tempi di Marco Furio, nessuno meritò più di
Gaio Sulpicio di celebrare un trionfo sui Galli. Egli raccolse dalle
spoglie dei Galli una notevole quantità d'oro che consacrò agli dèi in
Campidoglio facendola interrare in una cella sotterranea.
Nel corso di quello stesso anno anche i consoli combatterono, pur se
con esiti diversi. Gaio Plauzio infatti vinse e sottomise gli Ernici. Il
suo collega Fabio combatté invece contro i Tarquiniesi, dimostrando però
di non possedere né prudenza né senso tattico. In quella campagna non
furono tanto gravi le perdite patite sul campo, quanto piuttosto il fatto
che i Tarquiniesi uccisero trecento sette soldati romani fatti
prigionieri. Atto questo di barbara crudeltà che rese ancora più clamorosa
l'umiliazione del popolo romano. A quella disfatta si andarono ad
aggiungere anche le devastazioni compiute in séguito da Privernati e
Veliterni con una improvvisa incursione in territorio romano. Quello
stesso anno vennero aggiunte due nuove tribù, la Pontina e la Publilia, e
si celebrarono i giochi promessi in voto dal dittatore Marco Furio. Su
iniziativa del senato, per la prima volta nella storia di Roma, il tribuno
della plebe Gaio Petilio presentò al popolo un disegno di legge sulla
corruzione elettorale. Con questa misura si sperava di eliminare
l'abitudine di brigare a caccia di voti, specialmente da parte degli
uomini nuovi, i quali erano soliti andare in giro per piazze e mercati.
16 Fu invece meno gradita ai senatori una proposta di legge
presentata l'anno successivo durante il consolato di Gaio Marcio e Gneo
Manlio. Gli autori della proposta - accolta con ben altro favore dalla
plebe e volta a limitare il tasso di interesse annuo all'uno per cento -
furono i tribuni della plebe Marco Duilio e Lucio Menenio.
Alle guerre già decise l'anno precedente, venne ad aggiungersene una
con i Falisci. A questo popolo venivano imputate due colpe, e cioè il
fatto che alcuni loro giovani avessero militato nelle file dei Tarquiniesi
e il non aver riconsegnato ai feziali che li reclamavano i Romani
rifugiatisi a Faleri dopo la rotta. La campagna toccò a Gneo Manlio.
Marcio guidò invece un esercito nel territorio dei Privernati (rimasto
intatto per il lungo periodo di pace intercorso), e riempì le truppe di
bottino. Alla grande razzia il console aggiunse anche la propria
generosità, perché non fece accantonare nulla per le casse dello Stato,
favorendo l'utile personale dei soldati. Dato che i Privernati si erano
accampati di fronte alle mura della loro città proteggendosi con massicce
opere di fortificazione, egli convocò l'adunata e rivolse alle sue truppe
queste parole: «L'accampamento e la città dei nemici ve li concedo fin da
adesso come vostro bottino, a patto che mi garantiate di svolgere il
vostro cómpito con valore, pensando più alla battaglia che al bottino». I
soldati chiesero allora a gran voce che venisse dato loro il segnale e si
gettarono con ardore in battaglia, rincuorati da una sicurezza che non
ammetteva dubbi. Fu allora che Sesto Tullio (di cui abbiamo parlato
prima), davanti alle insegne, gridò: «Guarda, comandante, come il tuo
esercito mantiene la promessa fatta!». Poi, lasciata l'asta, impugnò la
spada e si gettò all'assalto del nemico. I soldati della prima linea lo
seguirono in massa e, messi in fuga i nemici al primo urto, li inseguirono
fino in città. E lì, quando i Romani stavano ormai accostando le scale ai
muri, la città si arrese. La vittoria sui Privernati venne celebrata con
un trionfo.
L'altro console non fece nulla che valga la pena di menzionare, se si
esclude che, nel suo accampamento presso Sutri, facendo votare gli uomini
per tribù (una prassi senza precedenti), riuscì a far approvare una legge
in base alla quale le affrancazioni di schiavi venivano tassate del cinque
per cento. Il senato approvò la legge, perché essa garantiva un gettito di
denaro non trascurabile per l'erario in grave crisi. Ma i tribuni della
plebe, preoccupati più dal precedente stabilito che dalla legge in sé,
ottennero che venisse sancita la pena di morte per chiunque avesse in
séguito osato convocare l'assemblea del popolo lontano da Roma. Infatti,
se ciò fosse stato concesso, qualunque cosa, per quanto dannosa per il
popolo, avrebbe potuto essere approvata attraverso il voto dei soldati
vincolati dal giuramento di obbedienza al console.
Nel corso di quel medesimo anno, Gaio Licinio Stolone venne condannato,
sulla base della sua stessa legge, a un'ammenda di diecimila assi, per il
fatto che, possedendo insieme col figlio mille iugeri di terra, aveva
tentato di aggirare la legge dichiarando il figlio indipendente dalla
patria potestà.
17 In séguito i due nuovi consoli, Marco Fabio Ambusto e Marco
Popilio Lenate (entrambi eletti per la seconda volta), combatterono due
guerre. La prima, contro i Tiburtini, non presentò problemi perché Marco
Popilio, dopo aver costretto i nemici all'interno della città, ne devastò
le campagne. Nella seconda Falisci e Tarquiniesi sbaragliarono l'altro
console al primo urto. Il panico fu dovuto soprattutto a questo: i
sacerdoti dei due popoli, reggendo nelle mani fiaccole accese e serpenti,
si avventarono come furie sui Romani, che si lasciarono spaventare da
quell'insolito spettacolo. Sulle prime, come se avessero perso l'uso della
ragione, ruppero le righe e corsero a rifugiarsi all'interno delle
fortificazioni. Ma poi, quando i consoli, i luogotenenti e i tribuni li
dileggiarono rimproverandoli di essersi spaventati come bambini di fronte
a un insulso trucco, la vergogna mutò il loro atteggiamento, spingendoli a
gettarsi con cieco furore contro quegli stessi che li avevano
terrorizzati. Così, dopo aver disperso quel falso apparato nemico, si
lanciarono contro gli uomini realmente armati, mettendo in fuga l'intera
armata nemica e conquistandone quello stesso giorno anche l'accampamento:
tornando vincitori con l'enorme bottino razziato, i soldati deridevano con
lazzi militareschi non solo la messa in scena allestita dai nemici ma
anche la propria paura. In séguito tutti i popoli etruschi entrarono in
guerra, dirigendosi verso le Saline, agli ordini dei comandanti di
Tarquinia e di Faleri. Per fronteggiare quella minaccia, venne eletto
dittatore Gaio Marcio Rutulo - il primo plebeo a occupare tale
magistratura -, che scelse come maestro di cavalleria un altro plebeo,
Gaio Plauzio. Ma i patrizi ritennero fosse una vergogna il dividere con i
plebei anche la dittatura. Perciò esercitarono tutta la loro influenza per
evitare che venissero approvati decreti o fatti i preparativi necessari al
dittatore per condurre quella guerra. Tanto più prontamente il popolo votò
tutte le proposte avanzate dal dittatore. Partito da Roma, il dittatore,
servendosi di zattere, dispose le sue truppe su entrambe le rive del
Tevere, dovunque veniva a sapere che si trovavano i nemici, e sorprese
molti che vagavano saccheggiando le campagne. Con un attacco a sorpresa
catturò poi anche l'accampamento nemico insieme con ottomila uomini. I
restanti vennero massacrati o allontanati dal territorio romano; al
dittatore il popolo tributò il trionfo, senza però che questo venisse
autorizzato dal senato.
Siccome i patrizi non permettevano che né il dittatore plebeo né il
console presiedessero le elezioni consolari e l'altro console, Marco Fabio
Ambusto, era trattenuto dalla guerra, la situazione sfociò in un
interregno. La carica venne detenuta successivamente da Quinto Servilio
Aala, Marco Fabio, Gneo Manlio, Gaio Fabio, Gaio Sulpicio, Lucio Emilio,
Quinto Servilio e Marco Fabio Ambusto. Durante il secondo interregno ci fu
un contrasto dovuto al fatto che stavano per essere eletti consoli due
patrizi: ma avendo i tribuni opposto il loro veto, l'interré Fabio
sosteneva che, giusta una legge delle XII Tavole, qualunque cosa il popolo
avesse decretata per ultima aveva valore di norma e doveva essere
ratificata; inoltre anche il voto del popolo doveva considerarsi una
deliberazione. Ma siccome il ricorso al veto da parte dei tribuni non
portò ad altro che a differire la data delle elezioni, vennero eletti
consoli due patrizi, Gaio Sulpicio Petico (al terzo consolato) e Marco
Valerio Publicola, i quali entrarono in carica lo stesso giorno.
18 A quattrocento anni dalla fondazione di Roma e a trentacinque da
quando venne ripresa ai Galli, i plebei vennero privati del consolato cui
avevano avuto accesso per dieci anni [a entrare in carica dopo
l'interregno furono due patrizi, Gaio Sulpicio Petico (al terzo consolato)
e Marco Valerio Publicola]. Quell'anno la città di Empoli venne tolta ai
Tiburtini senza che si dovesse ricorrere a battaglie degne di essere
menzionate. E questo o perché quella campagna venne condotta sotto gli
auspici dei due consoli, come è scritto in alcune fonti, oppure perché il
territorio di Tarquinia venne messo a ferro e fuoco dal console Sulpicio
proprio nello stesso momento in cui Valerio guidò le sue legioni contro i
Tiburtini.
I consoli ebbero vita ben più difficile in patria, opposti com'erano a
plebe e tribuni. I nobili ritenevano che il senso dell'onore e il
riconoscimento dei loro meriti ormai rendevano imprescindibile che, come
due patrizi avevano ottenuto il consolato, così essi dovessero tramandarlo
a successori che fossero entrambi patrizi: anzi, sostenevano che
bisognasse o rinunciare del tutto a quella carica, e far diventare il
consolato una magistratura plebea, oppure mantenere intatto quel possesso
che essi avevano ereditato integro dai loro padri. Dall'altra parte i
plebei erano in fermento: che senso aveva vivere, che senso aveva essere
considerati parte dello Stato, se poi non erano in grado di mantenere,
tutti insieme, ciò che il coraggio di due soli uomini, Lucio Sestio e Gaio
Licinio, aveva ottenuto per loro? Meglio dover accettare i re o i
decemviri o qualunque altra peggior forma di governo, piuttosto che vedere
entrambi i consoli patrizi, senza alternanza nell'obbedire e nel
comandare, con una parte della cittadinanza che si riteneva investita per
sempre dell'autorità e considerava la plebe come nata per nient'altro che
la servitù. Tribuni che agitassero le acque certo non mancavano, ma in
quella situazione che vedeva tutti già di per sé eccitati i capi
emergevano a stento. Dopo alcune inutili discese del popolo nel Campo
Marzio e molti giorni dedicati alle assemblee e finiti in scontri, la
perseveranza dei consoli ebbe alla fine la meglio: i plebei arrivarono a
un punto tale di esasperazione da seguire mestamente i loro tribuni i
quali andavano gridando che la libertà era ormai perduta e che bisognava
abbandonare non solo il Campo Marzio, ma anche Roma stessa, a sua volta
prigioniera e oppressa dalla tirannide patrizia. Ma i consoli, abbandonati
da una parte della popolazione, non ostante l'esiguo numero di votanti,
portarono a termine le elezioni con pari determinazione. I consoli eletti,
Marco Fabio Ambusto e Tito Quinzio (al terzo consolato), erano entrambi
patrizi. In alcuni annali come console ho trovato Marco Popilio al posto
di Tito Quinzio.
19 Le due guerre combattute quell'anno ebbero esito positivo.
Tarquiniesi e Tiburtini vennero costretti alla resa. Ai Tiburtini fu
strappata Sassula. Le altre città avrebbero fatto la sua stessa fine, se
l'intero popolo non avesse abbandonato le armi, consegnandosi a
discrezione del console. Per la sconfitta dei Tiburtini venne celebrato un
trionfo. Ma la clemenza prevalse negli altri aspetti della vittoria. Per
la gente di Tarquinia non ci fu invece nessuna pietà: molti di essi
vennero uccisi in battaglia, e dei moltissimi prigionieri catturati ne
vennero scelti trecento cinquantotto - il fiore della nobiltà - per essere
inviati a Roma, mentre il resto della popolazione venne passato per le
armi. Quanto al popolo, non fu molto più clemente con quelli che erano
stati inviati a Roma: vennero frustati e decapitati al centro del foro. Fu
quello il modo per vendicarsi dei nemici per i Romani massacrati nel foro
di Tarquinia. Il successo in questa guerra fece sì che anche i Sanniti
venissero a chiedere la pace. Il senato ebbe per i loro ambasciatori una
risposta amichevole e concesse loro un trattato di alleanza.
Ma la plebe di Roma non coglieva in patria gli stessi successi che le
toccavano in campo militare. Infatti, anche se l'adozione del tasso di
interesse dell'uno per cento sui prestiti li aveva liberati dall'usura, i
più poveri erano ugualmente schiacciati dal peso del capitale da
restituire e finivano con l'essere ridotti in schiavitù. E per questo né
la presenza di due consoli patrizi, né la preoccupazione per le elezioni o
per la politica riusciva a distrarre l'attenzione dei plebei dalle
vicissitudini private. Di conseguenza entrambi i consoli continuarono a
essere patrizi e vennero eletti Gaio Sulpicio Petico (al quarto consolato)
e Marco Valerio Publicola (al secondo).
Mentre la gente aveva pensieri solo per la guerra contro il popolo
etrusco (poiché circolava voce che gli abitanti di Cere, presi da
compassione per i loro consanguinei di Tarquinia, avrebbero fatto causa
comune con questi ultimi), arrivarono ambasciatori latini a stornare
l'attenzione verso i Volsci: riferirono che questi avevano arruolato e
armato un esercito con il quale stavano già minacciando il territorio
latino, per poi passare di lì a devastare quello romano. Il senato ritenne
opportuno non trascurare nessuno dei due pericoli, e ordinò di arruolare
legioni per entrambe le campagne, lasciando che i consoli dividessero tra
loro i cómpiti con un sorteggio. Ma il fronte etrusco divenne in séguito
la preoccupazione maggiore, quando cioè tramite una lettera del console
Sulpicio, cui era toccata la campagna contro Tarquinia, si venne a sapere
che la zona nei pressi delle Saline romane era stata messa a ferro e
fuoco, che parte del bottino era stata portata nel territorio di Cere e
che tra i responsabili del saccheggio c'erano sicuramente giovani
provenienti da quella città. Pertanto il senato, dopo aver richiamato il
console Valerio, che era impegnato contro i Volsci e stava accampato nel
territorio di Tuscolo, gli ordinò di nominare un dittatore. La scelta
cadde su Tito Manlio, il figlio di Lucio. Questi, dopo essersi scelto come
maestro di cavalleria Aulo Cornelio Cosso, si limitò a chiedere un
esercito consolare e quindi, con l'autorizzazione del senato e per volontà
del popolo, dichiarò guerra agli abitanti di Cere.
20 Fu in quel momento che gli abitanti di Cere, come se nelle
parole dei nemici ci fossero più minacce di guerra che non nelle
provocazioni e nelle devastazioni da loro inflitte ai Romani, vennero
presi per la prima volta dal terrore di dover affrontare lo scontro e
cominciarono a rendersi conto dell'inadeguatezza delle loro forze a quel
genere di conflitto. Così si pentivano dei saccheggi compiuti e
maledicevano i Tarquiniesi per averli trascinati alla defezione. Non c'era
un solo cittadino che si armasse o facesse preparativi di guerra, ma tutti
chiedevano di inviare ambasciatori a chiedere perdono dell'errore
commesso. Quando gli ambasciatori si presentarono al senato, i senatori li
mandarono di fronte al popolo. Lì, invocando gli dèi, i cui oggetti sacri
essi avevano conservato durante la guerra con i Galli proteggendoli
secondo le prescrizioni rituali, gli ambasciatori implorarono i celesti di
ispirare a un popolo romano ora florido e potente quella stessa
compassione che la gente di Cere aveva avuto per Roma sull'orlo della
disfatta. Poi, rivoltisi verso il santuario di Vesta, implorarono il
collegio dei flamini e le Vestali, cui essi avevano offerto ospitalità con
religiosa devozione. Chi poteva credere che gente comportatasi in maniera
così meritoria nei confronti dei Romani potesse essersi ora trasformata in
nemica senza averne alcun motivo? O che se anche avesse commesso qualche
gesto ostile, ciò non fosse dovuto a un momento di follia ma costituisse
un atto premeditato, mirato a guastare con misfatti recenti i benefici
conquistati in passato e collocati per di più presso uomini tanto
riconoscenti, a trasformare in nemico di un popolo romano ora nel pieno
del benessere e della potenza militare chi gli era stato amico nell'ora
delle difficoltà? Non chiamassero 'premeditazione' ciò che andava invece
chiamato 'forza e necessità'! I Tarquiniesi, attraversando in assetto di
guerra il loro territorio, avevano chiesto solo il permesso di passare:
poi però si erano trascinati dietro gente dei campi che aveva preso parte
ai saccheggi, e questi venivano adesso imputati agli abitanti di Cere. Se
i Romani desideravano che quegli uomini fossero consegnati, erano disposti
a farlo; se invece desideravano che li si punisse, non avrebbero esitato a
metterli a morte. Ma Cere, vero santuario del popolo romano, asilo per i
sacerdoti e rifugio per gli oggetti sacri dei Romani, fosse lasciata
intatta e immune dall'accusa di voler muovere guerra, in nome
dell'ospitalità offerta alle Vestali e della reverenza dimostrata nei
confronti delle divinità. Ciò che commosse il popolo non fu tanto la causa
perorata in quel momento, quanto piuttosto il ricordo dei meriti
conquistati in passato: così fu portato a scegliere di dimenticare
un'offesa piuttosto che un beneficio. Pertanto agli abitanti di Cere venne
concessa la pace, e si decise di proclamare una tregua di cento anni,
sancendola con un senatoconsulto. La violenza della guerra venne rivolta
contro i Falisci, sui quali pendeva lo stesso tipo di imputazione. Ma non
si trovarono tracce del nemico. Dopo aver devastato le campagne nella loro
estensione, i Romani si astennero dall'assediare i centri abitati. Una
volta ricondotte a Roma le legioni, il resto dell'anno venne impiegato
nella riparazione di mura e torri, e ci fu la consacrazione di un tempio
ad Apollo.
21 Verso la fine dell'anno, la frizione tra patrizi e plebei impedì
lo svolgimento delle elezioni consolari: mentre i tribuni della plebe
sostenevano che avrebbero permesso di convocare l'assemblea soltanto se lo
si fosse fatto in conformità alla legge Licinia, dall'altra parte il
dittatore insisteva con ostinazione che si dovesse eliminare del tutto il
consolato dalle istituzioni statali, piuttosto che avere una magistratura
aperta, senza alcuna distinzione, a patrizi e plebei. Mentre la
convocazione dell'assemblea veniva di continuo rinviata, il dittatore
completò il proprio mandato e si arrivò così a un interregno. Ma dato che
gli interré continuavano a constatare nella plebe una profonda ostilità
verso i patrizi, gli scontri tra le due classi proseguirono fino
all'undicesimo interré. I tribuni si vantavano di proteggere la legge
Licinia: la plebe, invece, era toccata più da vicino dal continuo aumento
dei debiti e le preoccupazioni private si scaricavano nelle contese di
natura pubblica. Infastiditi dalla situazione, i patrizi ordinarono
all'interré Lucio Cornelio Scipione di far sì che in occasione delle
elezioni consolari ci si attenesse alla legge Licinia in nome della
concordia interna. Venne eletto Publio Valerio Publicola, cui fu affidato
un collega di estrazione plebea, Gaio Marcio Rutulo. Ora che gli animi
inclinavano alla concordia, i nuovi consoli tentarono di trovare una
soluzione anche al problema dell'usura, che a quel punto sembrava essere
il solo ostacolo all'armonia interna. Per loro intervento fu lo Stato ad
occuparsi del problema dei debiti: furono nominati cinque commissari, che
ebbero il nome di banchieri per la facoltà a essi assegnata di dispensare
denaro. Questi uomini operarono in maniera così equilibrata e scrupolosa
da essere poi menzionati in tutti gli annali: si trattava di Gaio Duilio,
Publio Decio Mure, Marco Papirio, Quinto Publilio e Tito Emilio.
Nell'assolvere un cómpito quanto mai delicato, con il solito rischio di
scontentare l'una e l'altra parte o almeno di alienarsi il consenso di una
delle due, essi dimostrarono grande equità e soprattutto seppero fare in
modo che un onere per lo Stato non si trasformasse in un disastro
finanziario. Infatti i debiti arretrati, dovuti più all'incuria dei
debitori che alla reale mancanza di fondi, l'erario li pagò in contanti,
previo però il versamento di una cauzione, tramite le banche piazzate
appositamente nel foro, oppure li estingueva con beni valutati a prezzi
equi. Il risultato dell'operazione fu che una grande quantità di debiti
venne cancellata non solo senza commettere ingiustizie, ma riuscendo anche
a evitare lamentele da entrambe le parti in causa.
In séguito un falso allarme relativo a una guerra contro gli Etruschi -
allarme dovuto a una notizia infondata secondo cui i dodici popoli
etruschi avrebbero costituito una coalizione -, indusse a nominare un
dittatore. La nomina venne fatta nell'accampamento perché fu lì inviata ai
consoli la disposizione votata dal senato e la scelta cadde su Gaio Giulio
cui venne associato come maestro di cavalleria Lucio Emilio. Per il resto
dell'anno non ci furono dall'esterno motivi di allarme.
22 In patria, invece, il dittatore tentò di far eleggere due
consoli patrizi. Ma la cosa portò all'interregno. I due interré che si
succedettero, Gaio Sulpicio e Marco Fabio, riuscirono a realizzare quanto
il dittatore aveva tentato invano: la plebe, riconoscente per essere stata
liberata dal peso del debito, concesse che entrambi i consoli fossero
patrizi. Si trattava dello stesso Gaio Sulpicio Petico, il primo dei due
interré, e di Tito Quinzio Peno (il cui prenome, stando ad alcuni storici,
sarebbe stato Cesone, mentre altri riportano Gaio). Partiti entrambi per
la guerra, Quinzio per la campagna contro i Falisci, Sulpicio per quella
contro i Tarquiniesi, i due consoli non si scontrarono mai in campo aperto
col nemico, ma bersagliarono più le campagne che gli esseri umani,
devastando e bruciando i terreni. Quando questa forma di lenta consunzione
ebbe la meglio sull'ostinazione di entrambi i popoli, i nemici prima
chiesero ai consoli una tregua, poi la ottennero dal senato, con
l'approvazione consolare, per una durata di quarant'anni.
Visto che la preoccupazione legata ai due conflitti in atto era in
questo modo cessata, non essendovi altra minaccia di guerra in vista, si
decise di effettuare un censimento, perché l'eliminazione dei debiti aveva
fatto cambiare padrone a molte proprietà. Senonché, quando vennero bandite
le elezioni per la nomina dei censori, l'armonia tra le classi venne
turbata dall'annuncio di Gaio Marcio Rufulo (il primo plebeo a essere
nominato dittatore), il quale dichiarò di volersi candidare per quella
carica. Era evidente che il momento non risultava favorevole per una
simile iniziativa, perché in quella congiuntura entrambi i consoli erano
patrizi: e infatti dichiararono che non avrebbero minimamente tenuto conto
di quella candidatura. Ma Rufulo perseverò nella sua azione e i tribuni
fecero di tutto per aiutarlo, nella speranza di poter recuperare quanto
avevano perduto nelle elezioni consolari. E poi non era soltanto il
prestigio stesso dell'uomo a essere superiore a qualunque carica (per
quanto elevata potesse essere), ma erano anche i plebei a desiderare una
partecipazione alla censura nella persona di quello stesso cittadino che
aveva loro aperto le porte della dittatura. Nel corso dell'assemblea
elettorale le posizioni non cambiarono: Marcio venne eletto censore
insieme a Manlio Nevio.
Quell'anno si ebbe anche un dittatore nella persona di Marco Fabio, ma
non per una qualche minaccia di guerra, bensì per evitare che ci si
attenesse alla legge Licinia nell'elezione dei consoli. Al dittatore venne
affiancato in qualità di maestro di cavalleria Quinto Servilio. Tuttavia
la dittatura non riuscì a rendere quell'unanime consenso dei patrizi più
potente nelle elezioni consolari di quanto non fosse stato in quelle dei
censori.
23 Marco Popilio Lenate fu il console plebeo, Lucio Cornelio
Scipione il patrizio.
Anche la sorte volle rendere più illustre il console plebeo. Infatti,
quando arrivò la notizia che un poderoso esercito di Galli si era
accampato in territorio latino, il console Scipione era gravemente malato:
fu così che il comando delle operazioni venne assegnato a Popilio con un
provvedimento straordinario. Egli, arruolato senza indugi un esercito,
dato a tutti l'ordine di trovarsi in armi al tempio di Marte fuori della
porta Capena, e ai questori di trasportare lì le insegne dall'erario,
completò quattro legioni e affidò il numero di uomini in eccesso al
pretore Publio Valerio Publicola, sollecitando il senato ad arruolare un
secondo esercito che facesse da riserva in previsione di eventuali
emergenze belliche. Poi, una volta esauriti di persona tutti i
preparativi, partì alla volta del nemico. E per conoscere l'entità delle
forze nemiche prima di doverle saggiare nel corso di uno scontro decisivo,
occupò la collina più vicina all'accampamento dei Galli e cominciò a
scavarvi una trincea. I Galli, bellicosi e per natura sempre smaniosi di
arrivare allo scontro armato, non appena videro in lontananza le insegne
romane, si schierarono sùbito in assetto di guerra come se avessero dovuto
immediatamente ingaggiare battaglia. Ma poi, rendendosi conto che i Romani
non accennavano a scendere in pianura bensì cercavano di proteggersi non
solo sfruttando la posizione elevata ma anche con l'ausilio di una
trincea, supposero che i nemici fossero in preda al panico e, nel
contempo, che risultassero ancor più vulnerabili proprio perché impegnati
nella costruzione. Per questo attaccarono con urla spaventose. I Romani,
senza interrompere il lavoro (nel quale erano occupati solo i
triarii), cominciarono a combattere con le file degli
hastati e dei principes, piazzate all'erta con le armi in
pugno, davanti ai compagni impegnati nei lavori. Al di là dell'effettivo
valore, ciò che li aiutò fu anche la posizione sopraelevata: le loro aste
e i loro giavellotti, invece di andare a vuoto come spesso succede quando
vengono lanciati su un terreno pianeggiante, centravano sempre il
bersaglio, per il peso stesso che li portava a conficcarsi. E i Galli,
schiacciati dai proiettili che li raggiungevano passandoli da parte a
parte, oppure si conficcavano negli scudi appesantendoli, dopo essere
avanzati di corsa lungo l'erta del monte, in un primo tempo si fermarono,
disorientati; poi - quella semplice esitazione aveva ridotto il loro
slancio e dato animo agli avversari - ricacciati indietro, presero a
ruzzolare l'uno sull'altro, e questo provocò un massacro ancora più
cruento di quello inferto dai colpi nemici. Furono più gli uomini
calpestati dalla massa che rovinava verso la pianura dei compagni caduti
in combattimento.
24 Eppure i Romani non erano ancora sicuri di aver vinto: una volta
scesi sul pianoro, c'era ad aspettarli un nuovo scontro. Infatti la grande
massa dei Galli, assorbito un simile colpo, si risollevò come fosse stata
un'armata fresca, incitando gli uomini integri a lanciarsi contro il
nemico vittorioso. I Romani rallentarono la corsa e si fermarono, perché
erano costretti ad affrontare una nuova battaglia allo stremo delle
energie, e per il fatto che il console, essendosi incautamente esposto in
mezzo alle prime file, era stato colpito: un giavellotto gli aveva quasi
trapassato la spalla, costringendolo a ritirarsi momentaneamente dalla
battaglia. E già per quella pausa la vittoria stava per sfumare,
quand'ecco che il console, tornato in prima linea con la ferita bendata,
disse: «Perché state fermi, soldati? Il nemico con cui avete a che fare
non sono né i Latini né i Sabini, popoli che voi avete superato in guerra
trasformandoli da nemici in alleati; è contro belve feroci che abbiamo
sguainato le spade: dobbiamo versare il loro sangue o essere pronti a dare
il nostro. Li avete respinti dal vostro accampamento e ricacciati giù
lungo le pendici scoscese del monte; state camminando sui loro cadaveri:
riempite allora anche la pianura con lo stesso tappeto di morti che avete
disseminato sul monte. Non aspettate che i Galli vi sfuggano mentre voi
restate fermi. È tempo di andare all'assalto e di gettarsi addosso al
nemico». A questo incitamento, i Romani si levarono insieme e fecero
indietreggiare i primi manipoli dei Galli. Poi, in formazioni a cuneo,
irruppero nel centro dello schieramento. E i barbari, dispersi da
quell'urto, privi com'erano di ordini precisi e di comandanti, mutarono
direzione, verso i loro compagni. Sparsi per le campagne e spinti dalla
fuga fino oltre il loro accampamento, si diressero verso la rocca di Alba,
che tra le colline appariva loro come il luogo più alto. Il console non li
inseguì oltre l'accampamento: il peso della ferita cominciava a farsi
sentire ed egli non voleva esporre le truppe sotto quelle colline occupate
dal nemico. Dopo aver concesso ai suoi uomini l'intero bottino razziato
nell'accampamento, ricondusse a Roma l'esercito vincitore, carico delle
ricche spoglie sottratte ai Galli. La ferita del console ne ritardò il
trionfo, suggerendo anche al senato l'idea di un dittatore, perché vi
fosse qualcuno in grado di presiedere delle elezioni durante
l'indisposizione dei consoli. Dittatore venne eletto Lucio Furio Camillo,
cui fu affiancato in qualità di maestro di cavalleria Publio Cornelio
Scipione; Camillo restituì ai patrizi il controllo totale che anticamente
i suoi membri avevano sul consolato. In segno di riconoscenza, fu proprio
Camillo a essere nominato console grazie al massiccio appoggio dei
patrizi: a sua volta egli annunciò che avrebbe avuto come collega Appio
Claudio Crasso.
25 Prima che i nuovi consoli entrassero in carica, Popilio celebrò
il trionfo sui Galli con entusiasmo da parte dei plebei che, mormorando
tra loro, domandavano se qualcuno rimpiangesse la nomina di quel console
plebeo. Nel contempo però si lamentavano di Camillo cui rimproveravano di
essersi fatto nominare console quando era ancora dittatore,
conquistandosi, in spregio alla legge Licinia, un premio più infamante per
la sua avidità personale che per il danno dello Stato. Quell'anno rimase
nella storia per molti e svariati sommovimenti. I Galli, non essendo in
grado di sopportare i rigori dell'inverno, erano scesi dai monti Albani
disperdendosi a razziare le campagne e i litorali. Il mare, così come la
costa di fronte ad Anzio e la zona di Laurento, erano infestati da flotte
greche, al punto che una volta pirati di mare e predoni di terra si
scontrarono in una battaglia dall'esito incerto, al termine della quale i
Galli rientrarono all'accampamento e i Greci fecero ritorno alle navi,
senza poter stabilire né gli uni né gli altri se fossero usciti vinti o
vincitori. Ma l'allarme di gran lunga più preoccupante fu causato dalle
assemblee che le tribù latine tenevano nel bosco di Ferentina e dalla
risposta data dalle stesse a una richiesta di truppe ausiliarie avanzata
dai Romani. I Latini mandarono a dire di non dare più ordini ai popoli del
cui aiuto i Romani avevano bisogno: quanto a loro, avrebbero imbracciato
le armi in difesa della propria libertà piuttosto che per sostenere una
dominazione straniera. Con lo Stato contemporaneamente coinvolto in due
guerre esterne e, in più, con la preoccupazione che veniva dalla defezione
degli alleati, il senato, rendendosi conto di dover ricorrere
all'intimidazione per tenere a freno chi non aveva osservato gli accordi,
ordinò ai consoli di ricorrere a tutti i poteri in loro possesso per
effettuare una leva militare, poiché la diserzione degli alleati rendeva
necessario il ricorso a un esercito di cittadini. Stando alle fonti,
vennero arruolati giovani non solo in città ma anche nelle campagne, coi
quali vennero formate dieci legioni di 4200 fanti e di 300 cavalieri
ciascuna, un esercito quale le attuali forze del popolo romano (cui appena
basta lo spazio del mondo intero), se si presentasse una minaccia
dall'esterno, non riuscirebbero facilmente ad allestire nemmeno se
raccolte tutte insieme. A tal punto siamo riusciti a migliorare solo nei
mali che ci affliggono, e cioè il lusso e la ricchezza.
Tra i molti altri eventi che funestarono l'anno, ci fu la morte di
Appio Claudio, uno dei due consoli, nel pieno dei preparativi di guerra.
Il potere passò allora a Camillo, cui, in qualità di console unico - sia
per l'alta considerazione di cui egli godeva e che non si riteneva
subordinabile all'autorità di un dittatore, sia per il felice augurio
costituito dal suo soprannome in relazione all'attacco dei Galli - i
senatori non ritennero conveniente affiancare un dittatore. Il console
assegnò due legioni alla difesa della città e divise le altre otto con il
pretore Lucio Pinario. Memore del valore dimostrato dal padre, si accollò
il comando della spedizione contro i Galli senza ricorrere al sorteggio,
ordinando al pretore di salvaguardare il litora-le e di impedire ai Greci
di sbarcare. Disceso quindi nell'agro Pontino, non volendo affrontare il
nemico in pianura se non per assoluta necessità, convinto di poter
adeguatamente domare i Galli impedendo loro le razzie (cui i barbari erano
costretti per sopravvivere), scelse un luogo adatto per porre un
accampamento fisso.
26 Mentre i Romani ingannavano tranquillamente il tempo in servizi
di guardia, si fece avanti un Gallo, di notevole prestanza fisica e
armamento. Ottenuto il silenzio con un colpo di asta sullo scudo, il
barbaro, con l'aiuto di un interprete, sfidò i Romani a scegliere un uomo
che si battesse con lui. C'era un giovane tribuno dei soldati di nome
Marco Valerio il quale, non ritenendosi meno degno di ottenere quell'onore
di quanto lo fosse stato Tito Manlio, chiese l'autorizzazione al console,
e, prese le armi, avanzò nel mezzo. Ma un intervento degli dèi tolse
valore a quello scontro tra uomini. Mentre il Romano stava già per
lanciarsi all'assalto, un corvo improvvisamente andò a posarglisi
sull'elmo, rivolgendosi verso il nemico. Sùbito il tribuno accolse con
gioia l'evento, come un segno augurale inviato dal cielo, poi pregò che
chiunque - dio o dea - gli avesse mandato quel buon augurio, lo assistesse
col proprio favore e la propria protezione. Incredibile a dirsi, l'uccello
non solo mantenne la posizione occupata inizialmente, ma ogni qualvolta i
duellanti arrivavano a distanza ravvicinata si levava in volo andando a
colpire con il becco e gli artigli la bocca e gli occhi dell'avversario.
Fino a quando il soldato gallico, terrorizzato alla vista di un simile
prodigio che gli offuscava insieme la mente e gli occhi, venne colpito a
morte da Valerio, mentre il corvo volò via verso oriente scomparendo alla
vista. Fino a quel momento le due parti avevano assistito al duello in
silenzio. Ma non appena il tribuno cominciò a spogliare il corpo del
nemico ucciso, i Galli non rimasero più dov'erano e i Romani furono ancora
più veloci nel correre verso il vincitore. Si formò una mischia intorno al
cadavere del campione gallico e scoppiò una battaglia furibonda che non
rimase circoscritta ai manipoli dei più vicini posti di guardia, ma fu
combattuta dalle legioni riversatesi nella zona da entrambi le parti. Ai
soldati felici per la vittoria del tribuno ma anche per il sostegno
fornito in quel momento dagli dèi Camillo diede allora ordine di gettarsi
all'assalto. E indicando il tribuno, che indossava le spoglie del nemico,
disse: «Imitatelo, soldati, fate strage dei Galli, a mucchi intorno al
loro comandante!». A quella battaglia presero parte uomini e dèi, e il
combattimento non lasciava dubbi sulla vittoria finale, tanto il risultato
del duello aveva indicato ad ambedue le parti l'esito della battaglia.
Tremendo fu l'urto di quelli che dettero inizio allo scontro,
trascinandosi dietro gli altri. Il resto dei Galli si diede alla fuga
prima di arrivare a tiro. Dispersi in un primo tempo nel territorio dei
Volsci e per l'agro Falerno, i fuggitivi si diressero poi verso l'Apulia e
il mare Tirreno.
Convocati i suoi uomini, il console elogiò il tribuno e gli fece dono
di dieci buoi e di una corona d'oro. Poi, per ordine del senato, Camillo
andò a occuparsi della guerra sul litorale, unendo le proprie forze a
quelle del pretore. Ma siccome là sembrava che la campagna andasse per le
lunghe, con i Greci che non avevano intenzione di affrontare uno scontro
aperto, il senato autorizzò il console a nominare dittatore Tito Manlio
Torquato, in modo che si potessero tenere le elezioni. E il dittatore,
nominato maestro di cavalleria Aulo Cornelio Cosso, presiedette le
elezioni consolari e annunciò, tra l'entusiasmo del popolo, che la scelta
era caduta su un giovane di trentatré anni, quel Marco Valerio Corvo (dopo
il duello portava ormai questo soprannome) che, in sua assenza, ne aveva
emulato le gesta gloriose. Come collega di Corvo venne nominato il plebeo
Marco Popilio Lenate, destinato a rivestire la carica per la quarta volta.
Contro i Greci Camillo non fece nulla che sia degno di essere ricordato:
non erano un popolo che prediligesse il combattimento sulla terraferma,
così come i Romani non amavano quello in mare aperto. Ma alla fine,
rimasti senz'acqua e senza il necessario per la prolungata assenza da
terra, i Greci abbandonarono l'Italia. Non è chiaro a quale popolo e a
quale razza appartenesse quella flotta. Personalmente sarei portato a
credere che fosse dei tiranni siculi, perché in quel tempo la Grecia vera
e propria, travagliata da lotte intestine, era già minacciata dalla
potenza macedone.
27 Una volta congedati gli eserciti, mentre all'esterno regnava la
pace e in patria si viveva sereni per la concordia tra le classi, a
impedire un'eccessiva felicità dei cittadini, una pestilenza colpì Roma
costringendo il senato a ordinare ai decemviri di consultare i libri
sibillini. Su loro consiglio si tenne un lettisternio. Quello stesso anno
gli Anziati fondarono una colonia a Satrico, che fu così ricostruita dopo
essere stata distrutta dai Latini. Venne inoltre stipulato un trattato con
i Cartaginesi, i quali avevano inviato a Roma degli ambasciatori con la
richiesta di stabilire legami di alleanza e di amicizia.
Sotto il consolato di Tito Manlio Torquato e di Gaio Plauzio in patria
e all'estero si mantennero le stesse condizioni di stabilità. Il tasso di
interesse, che era all'uno per cento, venne dimezzato, mentre il pagamento
dei debiti fu articolato in modo che se ne pagasse un quarto sùbito e il
resto in rate triennali. Anche così parte della plebe ne ebbe a soffrire,
ma il senato non poté dedicare ai casi dei singoli l'attenzione richiesta
dal credito pubblico. Ciò che soprattutto permise alla gente di tirare il
fiato fu la soppressione della tassa di guerra e della leva.
Tre anni dopo che Satrico era stata ricostruita dai Volsci, Marco
Valerio Corvo venne eletto console per la seconda volta insieme a Gaio
Petelio. Quando dal Lazio arrivò la notizia che ambasciatori di Anzio
andavano tra le tribù latine con l'intento di scatenare una guerra,
Valerio ricevette l'ordine di affrontare i Volsci prima che si
sollevassero altri nemici e marciò alla volta di Satrico con un esercito
in assetto di guerra. Là gli Anziati e altre genti dei Volsci gli andarono
incontro con forze già predisposte per un'eventuale sortita romana: tra i
due popoli vi era un odio antico, e la battaglia iniziò senza indugi. I
Volsci, gente portata più a prendere le armi per rivoltarsi che a condurre
una guerra vera e propria, furono sconfitti sul campo e si rintanarono
dentro le mura di Satrico con una fuga disordinata. Ma nemmeno le mura
garantivano loro la sicurezza, e così, quando la città circondata dalle
truppe nemiche era ormai sul punto di essere conquistata con le scale da
assedio, si arrese un numero di uomini che, a prescindere dai civili,
ammontava a circa quattro mila unità. La città venne rasa al suolo e data
alle fiamme. Il solo edificio a non essere incendiato fu il tempio della
Madre Matuta. Il bottino fu integralmente assegnato agli uomini. I quattro
mila soldati che si erano arresi non vennero inclusi nel bottino: il
console li fece camminare incatenati di fronte al proprio carro durante il
trionfo. Venduti in séguito all'asta, essi apportarono una grande quantità
di denaro alle casse dello Stato. Alcuni storici sostengono che questa
massa di prigionieri fosse costituita da schiavi, cosa ben più credibile
di quanto non sia la notizia di uomini arresisi e poi venduti all'asta.
28 A questi consoli successero Marco Fabio Dorsuone e Servio
Sulpicio Camerino. Un'improvvisa incursione degli Aurunci diede origine a
una guerra. Temendo che quel gesto fosse il frutto di un piano organizzato
dall'intera nazione latina (anche se l'incursione era stata effettuata da
un solo popolo), come se ormai si trattasse di fronteggiare il Lazio in
armi, venne nominato dittatore Lucio Furio, il quale scelse come maestro
di cavalleria Gneo Manlio Capitolino. Dopo aver bandito una leva militare
nella quale non furono ammesse eccezioni - come di solito succedeva nei
casi di assoluta emergenza -, il dittatore proclamò la sospensione
dell'attività giudiziaria e quindi si mise a capo delle legioni per
raggiungere quanto prima il territorio degli Aurunci. Lì comprese che
quella gente aveva indole di predoni più che di guerrieri: e così concluse
la guerra al primo scontro. Ma il dittatore, considerando che ad aggredire
erano stati gli Aurunci, i quali si lanciavano nel combattimento senza
esitazione, ritenne necessario invocare anche l'aiuto degli dèi e per
questo, mentre lo scontro era nella fase più calda, fece voto di dedicare
un tempio a Giunone Moneta. Tornato a Roma vincitore, adempì il voto; poi
si dimise dalla dittatura. Il senato diede ordine di eleggere due
commissari con il cómpito di far costruire un tempio degno della grandezza
del popolo romano. All'edificio fu riservata un'area sulla cittadella, nel
punto in cui un tempo si trovava la casa di Marco Manlio Capitolino.
Utilizzando l'esercito del dittatore per fare guerra ai Volsci, i consoli
li attaccarono di sorpresa e strapparono loro la città di Sora.
Il tempio di Giunone Moneta venne consacrato un anno dopo che era stato
promesso in voto, durante il consolato di Gaio Marcio Rutulo e Tito Manlio
Torquato (eletti rispettivamente per la terza e la seconda volta).
Immediatamente dopo la cerimonia di inaugurazione si verificò un evento
prodigioso, simile a quello avvenuto sul monte Albano in tempi remoti.
Cadde infatti una pioggia di pietre e in pieno giorno si fece notte. Dopo
la consultazione dei libri sibillini, la città fu invasa dalla
superstizione, così che il senato decise di nominare un dittatore per
stabilire un calendario di cerimonie religiose. La nomina cadde su Publio
Valerio Publicola al quale venne assegnato come maestro di cavalleria
Quinto Fabio Ambusto. Essi stabilirono che a rivolgere suppliche fossero
non solo le tribù ma anche i popoli confinanti; fu fissato un ordine che
assegnava una data alle suppliche di ogni singola gente. A quanto si
racconta, nel corso di quell'anno il popolo emise severe sentenze ai danni
di alcuni usurai citati in giudizio dagli edili. Si ritornò poi a un
periodo di interregno, senza però una giustificazione di particolare
rilievo. E dopo l'interregno ci fu - in modo che potesse sembrarne il
motivo - l'elezione a consoli di due patrizi, Marco Valerio Corvo (eletto
per la terza volta) e Aulo Cornelio Cosso.
29 Da questo momento bisogna parlare di conflitti di ben altre
proporzioni sia per le forze messe in campo dai nemici sia per la
lontananza della loro terra di provenienza e per la durata di quelle
guerre. Nel corso dell'anno si presero infatti le armi contro i Sanniti,
un popolo potente per risorse e per dotazioni militari. Dopo la guerra,
dall'esito incerto, con i Sanniti, si combatté contro Pirro e dopo di lui
fu la volta dei Cartaginesi. Quale serie di formidabili eventi! Quante
volte i Romani giunsero a rischiare il massimo perché lo Stato potesse
essere innalzato alla grandezza che ora a stento si regge! E pensare che
la causa della guerra tra Sanniti e Romani - due popoli uniti in passato
da legami di alleanza e amicizia - fu un motivo esterno di cui essi non
furono responsabili. Poiché i Sanniti avevano ingiustamente attaccato i
Sidicini profittando della loro superiorità, i Sidicini, costretti nella
condizione di inferiori a chiedere aiuto a un popolo con maggiori risorse,
si rivolsero ai Campani. Ma questi ultimi fornirono agli alleati un aiuto
più nominale che reale: abituati com'erano a una molle vita di agiatezze,
i Campani vennero battuti nel territorio dei Sidicini da una popolazione
indurita dall'uso delle armi e si videro precipitare addosso l'intero peso
della guerra. E infatti i Sanniti, senza più dare alcuna importanza ai
Sidicini, assalirono i Campani, cioè la vera roccaforte dei loro vicini,
sui quali avrebbero ottenuto una facile vittoria, con un bottino più ricco
e maggior gloria: dopo aver occupato le alture del Tifata (situate proprio
sopra Capua) lasciandovi un agguerrito presidio, di lì si riversarono in
assetto di battaglia nella pianura che si trova tra Capua e il Tifata. Fu
in quel punto che si combatté una seconda battaglia: sconfitti e
ricacciati all'interno delle mura, i Campani, dopo che il fiore delle loro
truppe era stato fatto a pezzi e avevano ormai perso ogni speranza, furono
costretti a chiedere aiuto ai Romani.
30 Gli ambasciatori dei Campani introdotti al cospetto del senato,
pronunciarono un discorso di questo tenore: «Il popolo campano ci ha
inviati a voi, senatori, come ambasciatori, per chiedervi di concederci la
vostra eterna amicizia e un aiuto nella circostanza presente. Se ve
l'avessimo chiesto in un momento di prosperità, voi ce l'avreste concesso
ben più rapidamente, fondandovi però su vincoli meno saldi. In tal caso,
memori di essere entrati in rapporti amichevoli con voi su un piano di
assoluta parità, forse saremmo stati vostri amici come lo siamo adesso, ma
meno vincolati e sottomessi a voi. Ma ora, conquistati dalla vostra
umanità nei nostri confronti e protetti dal vostro aiuto in questa
difficile congiuntura, dobbiamo rendere il giusto onore anche al beneficio
ottenuto, per non dare l'impressione di essere ingrati e indegni di ogni
soccorso divino e umano. Ma non pensiamo neppure, per Ercole, che il fatto
che i Sanniti siano diventati vostri amici e alleati prima di noi, possa
costituire un ostacolo all'essere accolti nel novero dei vostri amici,
quanto piuttosto che la cosa porti quel popolo ad avere su di noi un
vantaggio in relazione alla priorità e al grado di onore. E infatti nel
vostro trattato con i Sanniti non c'erano clausole che impedissero la
stipulazione di altri trattati.
Un motivo sufficientemente giusto per stringere legami di amicizia voi
avete sempre ritenuto fosse il desiderare che entrassero nel novero dei
vostri amici quanti si rivolgevano a voi: noi Campani, anche se la
disgrazia presente non ci consente un linguaggio troppo altezzoso, non
essendo secondi a nessuno - salvo che a voi - per lo splendore delle città
e per la fertilità dei campi, ora che ci associamo a voi, apportiamo, come
è nostra opinione, un incremento non trascurabile al vostro benessere.
Ogni qual volta Equi e Volsci, eterni nemici di questa città, si
muoveranno, noi li incalzeremo alle spalle. E ciò che voi avrete fatto per
primi per la nostra sopravvivenza, noi lo faremo sempre per la vostra
potenza e la vostra gloria. Non appena avrete assoggettato i popoli
stanziati tra i nostri e i vostri territori - il vostro valore e la vostra
buona sorte garantiscono che presto avverrà -, il vostro potere si
estenderà senza interruzioni fino alla nostra terra. È triste e penoso ciò
che la nostra disgrazia ci costringe ad ammettere: la situazione,
senatori, è a una svolta: noi Campani finiremo nella mani di nemici oppure
di amici. Se ci proteggerete, saremo vostri; se invece ci abbandonerete,
saremo dei Sanniti. Considerate dunque se è meglio che Capua e l'intera
Campania vadano ad accrescere il potere di Roma oppure quello dei
Sanniti.
È giusto che la vostra misericordia e la vostra disponibilità ad
aiutare siano aperte a tutti, ma in special modo a quanti, per aver
offerto aiuto superiore alle proprie forze ad altri che lo imploravano, si
sono venuti a trovare essi stessi nella medesima necessità. E anche se
apparentemente abbiamo combattuto per i Sidicini, mentre in realtà
combattevamo per noi, lo abbiamo fatto vedendo un popolo limitrofo
crudelmente assalito dal brigantaggio dei Sanniti, e sentendoci minacciati
da quell'incendio non appena la conflagrazione avesse inghiottito i
Sidicini. E infatti i Sanniti sono venuti ad attaccarci proprio in questo
momento non per il risentimento suscitato da un'offesa, quanto piuttosto
per la gioia che sia stato loro offerto un pretesto per farlo. Altrimenti,
se questa fosse solo una vendetta e non un'occasione buona per placare la
loro bramosia, non sarebbe stato sufficiente ai Sanniti aver decimato le
nostre legioni una prima volta nel territorio dei Sidicini e poi in
Campania? Quale furia è mai questa, se non basta il sangue versato da due
eserciti per placarla? A tutto questo aggiungete poi le razzie nei campi,
il bottino in uomini e animali, gli incendi e le distruzioni delle
fattorie e la devastazione seminata ovunque. Possibile che tutto questo
non abbia soddisfatto la loro ira? Ma è la loro bramosia che va saziata! È
quel sentimento che li spinge a occupare Capua, e a desiderare che la più
bella delle città vada in rovina o finisca in mano loro. Conquistatela
voi, o Romani, con la vostra generosità, piuttosto che permettere a quella
gente di impossessarsene con l'inganno. Non ci rivolgiamo a un popolo
abituato a rifiutare le guerre quando sono giuste. Tuttavia, se solo
metterete in campo il vostro aiuto, pensiamo che non avrete nemmeno
bisogno di ricorrere alle armi. Il nostro risentimento nei confronti dei
Sanniti ha raggiunto un punto oltre il quale non può andare: per questo,
anche solo l'ombra del vostro aiuto, o Romani, è in grado di proteggerci e
qualunque cosa d'ora in poi avremo, qualunque cosa diventeremo, noi la
considereremo interamente vostra. Le terre della Campania verranno arate
per voi, e per voi si affolleranno le strade di Capua. E voi sarete per
noi i fondatori, i genitori, gli dèi immortali. Nessuna vostra colonia ci
saprà superare quanto a obbedienza e lealtà.
Acconsentite, senatori, col vostro cenno e la vostra volontà invitta
alle preghiere dei Campani, dateci la speranza che la nostra città possa
avere un domani. Forse non immaginate quale folla, di ogni genere, abbia
accompagnato la nostra partenza; come l'abbiamo lasciata, a piangere e
pregare; in quale ansia siano adesso il senato, il popolo campano, le
nostre mogli e i nostri figli! Saranno tutti in piedi, certamente, intorno
alle porte, con gli occhi fissi verso la strada che porta a Roma! Che
messaggio ci ordinate, senatori, di portare a quegli animi in preda al
dubbio e all'incertezza? Una risposta è salvezza, vittoria, luce e
libertà. L'altra... fa orrore il solo pensiero di ciò che potrebbe
portare. Perciò prendete una decisione sulla nostra sorte, tenendo
presente che o saremo vostri alleati e amici, o non esisteremo più del
tutto».
31 Agli ambasciatori fu chiesto di ritirarsi, mentre il senato si
riuniva per considerare la loro richiesta. Anche se la maggior parte dei
senatori pensava che la più grande e ricca città dell'Italia, con le sue
campagne fertilissime e prospicienti al mare, avrebbe potuto essere - in
periodi di carestia - un granaio per il popolo romano, ciò non ostante si
diede più peso alla lealtà che alla considerazione dell'utile, così che il
senato affidò al console il cómpito di rispondere agli ambasciatori in
questi termini: «Il senato ritiene, o Campani, che siate degni di ottenere
aiuto. Ma stringere rapporti di amicizia con voi non deve significare la
violazione di amicizie e alleanze precedentemente contratte. I Sanniti
sono legati a noi da un trattato: per questo non siamo in grado di
intervenire militarmente al vostro fianco impugnando contro i Sanniti
quelle armi che sarebbero un'offesa prima ancora agli dèi che agli uomini.
Com'è però giusto e sacrosanto, invieremo degli ambasciatori ai nostri
amici ed alleati con il cómpito di invitarli a non farvi alcun male». A
queste parole i capi della delegazione campana risposero attenendosi alle
istruzioni ricevute in patria e replicarono così: «Visto che rifiutate di
far ricorso a un legittimo uso della forza per opporvi alla violenza e
all'ingiustizia perpetrate nei confronti di ciò che ci appartiene,
proteggerete almeno quanto appartiene a voi. Di conseguenza noi affidiamo
alla vostra autorità e a quella del popolo romano il popolo della Campania
e la città di Capua, le campagne, i santuari degli dèi e tutte le cose
sacre e profane: qualunque cosa affronteremo da questo momento in poi, la
affronteremo come vostri sudditi».
Pronunciando queste parole, con le mani tese verso il console e il
volto rigato dalle lacrime, si prostrarono a terra nel vestibolo della
curia. I senatori rimasero colpiti dalle vicissitudini delle sorti umane,
al vedere che quel popolo ricco e grandioso, conosciuto ovunque per il
fasto e la superbia, a cui poco prima i vicini avevano chiesto aiuto,
adesso era abbattuto al punto di consegnare se stesso con tutti i propri
averi all'autorità di altri. Decisero che era ormai una questione d'onore
non tradire chi si era consegnato in loro potere. E non ritenevano sarebbe
stata cosa giusta se i Sanniti avessero attaccato un territorio e una
città che, con una vera e propria resa, erano diventati proprietà del
popolo romano. Perciò si decise di inviare immediatamente ai Sanniti degli
ambasciatori, ai quali fu data istruzione di riferire la richiesta fatta
dai Campani, la risposta del senato, non immemore dell'amicizia coi
Sanniti stessi, infine l'avvenuta resa. Sarebbe stato poi loro cómpito
chiedere, in nome dell'amicizia e dell'alleanza che univa i due popoli, di
risparmiare quella gente volontariamente sottomessasi a Roma e di
astenersi dall'effettuare incursioni armate in quel territorio che ora
apparteneva al popolo romano. Se questa cauta condotta non avesse sortito
risultato, gli ambasciatori avrebbero dovuto intimare ai Sanniti - a nome
del senato e del popolo romano - di stare lontani da Capua e dal
territorio della Campania. Ma i Sanniti, dopo aver sentito gli inviati
esporre queste richieste di fronte all'assemblea, furono così arroganti
che non soltanto risposero di essere determinati a condurre quella guerra,
ma i loro magistrati uscirono dalla curia mentre gli ambasciatori erano
ancora lì in piedi e convocarono i prefetti delle coorti ordinando loro ad
alta voce di prepararsi a effettuare immediatamente un'incursione nel
territorio dei Campani.
32 Quando la delegazione tornò a Roma riferendo l'accaduto, i
senatori, passando in secondo piano tutti gli altri affari di Stato,
inviarono i feziali per chiedere riparazione. Ma siccome questi ultimi non
riuscirono a ottenere quanto preteso, il senato fece dichiarare guerra ai
Sanniti secondo la formula di rito, stabilendo anche di far ratificare
quanto prima dal popolo questo provvedimento. E avendo ricevuto
l'approvazione, i consoli partirono alla testa di due eserciti, Valerio
diretto in Campania e Cornelio nel Sannio; il primo si accampò nei pressi
del monte Gauro, il secondo vicino a Saticola. Le legioni dei Sanniti si
rivolsero prima contro Valerio, perché pensavano che in quella direzione
si sarebbe concentrato il grosso delle operazioni. Ma nel contempo erano
spinti dal risentimento nei confronti dei Campani, i quali erano stati
così solleciti prima a portare aiuto, poi a chiederlo contro di loro. Non
appena avvistarono l'accampamento romano, non ci fu Sannita che non
chiedesse baldanzosamente agli ufficiali di dare il segnale di battaglia.
La loro convinzione era che l'intervento dei Romani a fianco dei Campani
avrebbe avuto lo stesso successo di quello dei Campani a sostegno dei
Sidicini.
Valerio, avendo indugiato solo qualche giorno per saggiare la
consistenza del nemico in scaramucce di poco conto, diede il segnale di
battaglia, non senza aver esortato con poche parole i suoi a non lasciarsi
intimorire da quella nuova guerra combattuta contro nuovi nemici. Quanto
più le loro armi si allontanavano da Roma, tanto più imbelli erano le
popolazioni che avrebbero incontrato. Non giudicassero il valore dei
Sanniti in base alle disfatte inflitte a Sidicini e Campani. Quali che
fossero i valori in campo, era inevitabile che una delle due parti dovesse
soccombere. Quanto ai Campani, non c'erano dubbi che essi fossero stati
vinti più per l'eccessiva dissolutezza e mollezza della vita che
conducevano piuttosto che per la forza del nemico. E poi che cos'erano mai
le due guerre vinte dai Sanniti in tanti secoli a confronto delle tante
gesta gloriose del popolo romano, il cui numero di trionfi in guerra era
quasi pari a quello degli anni trascorsi dalla fondazione di Roma? Il
popolo romano che aveva soggiogato con le armi tutte le popolazioni
stanziate nelle zone circostanti - Sabini, Etruschi, Latini, Ernici, Equi,
Volsci, Aurunci -, e che dopo aver battuto i Galli in tante battaglie di
terra, alla fine li aveva costretti a fuggire verso il mare alle loro
navi? Ora che stavano per gettarsi nella mischia, ciascuno degli uomini
avrebbe dovuto farlo fidando non solo sulla propria capacità militare e
sulla gloria del passato, ma anche ricordandosi sotto il comando e gli
auspici di quale soldato stavano per affrontare la battaglia, e chiedersi
se quell'uomo fosse uno che meritava di essere ascoltato soltanto perché
era un valido oratore, uno bellicoso a parole ma senza esperienza
militare, oppure uno che sapeva maneggiare le armi di persona, era in
grado di avanzare oltre la linea degli antesignani e di stare nel pieno
della mischia. «Voglio, o soldati, che seguiate le mie azioni», disse,
«non le mie parole, e che a me chiediate non soltanto ordini, ma anche
l'esempio. Non è stato grazie ai giochi politici e ai complotti tanto
abituali tra i nobili, ma con questa mano destra che io sono riuscito a
conquistarmi tre consolati e i più alti elogi. Ci fu un tempo in cui si
sarebbe potuto dire: «Tu eri patrizio e discendevi dai liberatori della
patria, e la tua famiglia ebbe il consolato lo stesso anno in cui la città
vide l'istituzione di quella magistratura!». Ma oggi il consolato è aperto
tanto a noi patrizi quanto a voi plebei, ed è ormai un riconoscimento dato
al valore e non più, come in passato, alla stirpe. Di conseguenza, o
soldati, mirate in ogni circostanza a onori sempre più alti. Anche se mi
avete voluto dare - con l'approvazione degli dèi - questo soprannome di
Corvino, tuttavia non mi sono dimenticato di quello di
Publicola attribuito in passato alla mia famiglia: tanto in patria
quanto in guerra, da privato cittadino così come nelle magistrature
importanti e in quelle di minor conto, sia da tribuno che da console,
senza mai allontanarmi dalla stessa linea di comportamento durante i
successivi consolati, io ho sempre rispettato e tuttora rispetto la plebe
romana. Ma adesso, poiché il momento lo esige, con l'aiuto degli dèi
cercate insieme a me di ottenere sui Sanniti un trionfo nuovo e mai
conquistato prima».
33 Mai nessun comandante era stato tanto vicino alla truppa,
arrivando a condividere il peso del servizio con i soldati semplici.
Inoltre, partecipava in maniera cameratesca ai giochi militari,
cimentandosi nelle gare di velocità e di forza tra coetanei: la vittoria e
la sconfitta le salutava con la stessa espressione del volto, né mai
disdegnava di misurarsi con chiunque lo sfidasse. Il suo comportamento era
affabile quanto lo richiedevano le circostanze, nei discorsi aveva sempre
lo stesso riguardo per la libertà altrui e per la propria dignità. E
infine, qualità questa che lo rendeva ancor più popolare, conduceva le
magistrature con gli stessi principi con i quali le aveva ottenute. Fu
perciò con incredibile prontezza che l'intero esercito accolse le
esortazioni del comandante e marciò fuori dall'accampamento.
Iniziò una battaglia che, più di ogni altra precedente, vedeva pari
speranze e pari forze dalle due parti, e una fiducia in se stessi che non
cedeva al disprezzo del nemico. La bellicosità dei Sanniti era accresciuta
dalle gesta recenti e dalla doppia vittoria conquistata pochi giorni
prima, mentre dalla parte dei Romani stavano quattrocento anni di gloria e
una storia trionfale che risaliva ai giorni della fondazione. Ciò non
ostante entrambi gli eserciti erano in ansia all'idea di affrontare un
nemico mai visto prima. La battaglia provò quanto essi fossero risoluti,
perché combatterono in modo così accanito che per qualche tempo nessuno
dei due schieramenti cedette. Allora il console, per incutere paura a un
nemico che non riusciva a far indietreggiare con la forza, tentò di
gettare lo scompiglio nelle prime file avversarie con una carica di
cavalleria. Ma quando si rese conto che l'agitarsi confuso delle schiere
impegnate a manovrare in uno spazio ristretto non portava a risultati e
non gli permetteva di aprire una breccia tra i nemici, tornato dai soldati
della prima linea, scese da cavallo e disse loro: «C'è bisogno di noi
fanti, o soldati, per questa manovra! Avanti, quando mi vedrete farmi
strada a colpi di spada, in qualunque punto della linea nemica io mi
lancerò all'assalto, allo stesso modo ciascuno di voi abbatta tutti quelli
che gli si pareranno di fronte. Tutte le lance che ora vedete brillare
diritte, saranno distese a terra in una immane carneficina». Aveva appena
finito di dire queste cose, che i cavalieri, ottemperando all'ordine del
console, si gettarono a briglia sciolta verso le ali, aprendo così la via
alle legioni nella parte centrale dello schieramento avversario. Il
console fu il primo a lanciarsi contro il nemico, uccidendo il soldato che
gli aveva sbarrato il passo. Esaltati a questa vista, i Romani schierati
all'ala destra e alla sinistra - ciascuno per se stesso - accesero una
mischia memorabile. I Sanniti resistevano, subendo però più colpi di
quanti non ne riuscissero a dare.
La battaglia infuriava già da tempo: intorno alle insegne dei Sanniti
il massacro era spaventoso, ma nessuno dei reparti accennava alla fuga,
tanto erano determinati a non farsi sopraffare se non dalla morte. E così
i Romani, rendendosi conto che le forze stavano scemando per la stanchezza
e che ormai restava ben poca luce, si gettarono contro il nemico carichi
di rabbia. Allora ci furono i primi segni di cedimento e le avvisaglie di
una rotta imminente; i Sanniti vennero catturati, uccisi (e non ne
sarebbero sopravvissuti molti, se la notte non avesse interrotto quella
che era una vittoria più che una battaglia). I Romani ammettevano di non
aver mai combattuto con un nemico più tenace, mentre i Sanniti, essendo
loro stato domandato che cosa li avesse spinti, nella loro determinazione,
alla fuga, dicevano di aver visto il fuoco negli occhi dei Romani, e un
folle furore nei loro sguardi. Era stato questo, più di ogni altra cosa, a
terrorizzarli. E quel panico essi ammisero di averlo provato non solo
nelle fasi conclusive della battaglia, ma anche nella fuga che seguì
durante la notte. Il giorno seguente i Romani presero l'accampamento
deserto, dove si andò a riversare l'intera popolazione di Capua per
congratularsi della vittoria.
34 Ma poco mancò che questa gioia venisse guastata da una grave
disfatta subita nel Sannio. Partito infatti da Saticola, il console
Cornelio ebbe l'incauta idea di portare il suo esercito in una valle
incassata e gremita di nemici su entrambi i versanti, senza accorgersi
della loro presenza sulle alture prima che i suoi uomini non potessero più
mettersi al riparo in sicurezza. Mentre i Sanniti indugiavano nell'attesa
che l'intero esercito fosse sceso fino al fondo della valle, il tribuno
dei soldati Publio Decio individuò una vetta che dominava sulla gola
sovrastando l'accampamento dei nemici, e che pur essendo quasi
impraticabile per un esercito impedito dall'equipaggiamento, non
presentava invece difficoltà per dei fanti armati alla leggera. Perciò,
rivolgendosi al console che era in preda alla paura, Decio gli disse:
«Aulo Cornelio, vedi quella cima sopra il nemico? Può essere il baluardo
della nostra speranza e della nostra salvezza, se non indugiamo ad
occuparla, visto che i Sanniti sono stati così ciechi da abbandonarla.
Dammi soltanto la prima e la seconda linea di una legione. Quando avrò
raggiunto la cima alla testa di quegli uomini, mettiti in marcia senza
paura, preoccupandoti di te e dell'esercito. È certo che il nemico,
esposto come sarà a tutti i nostri colpi, non potrà muoversi senza gravi
perdite. Quanto a noi, la buona sorte del popolo romano o il nostro valore
ci metterà in salvo». Il console lodò il piano e Decio, presi con sé gli
uomini che aveva richiesto, si avviò su per la gola senza farsi vedere. E
i nemici non lo individuarono prima che egli fosse riuscito a raggiungere
il punto desiderato. Avendo quindi attirato su di sé l'attenzione di tutti
i nemici che si erano voltati in preda a stupore e preoccupazione, Decio
diede al console l'opportunità di portare l'esercito in un punto più
favorevole e si andò a piazzare in cima all'altura. I Sanniti, dirigendosi
ora da una parte ora dall'altra, fallirono entrambe le opportunità: non
riuscirono né a inseguire il console (se non per quella stessa valle
infossata nella quale lo avevano poco prima tenuto sotto la minaccia delle
loro lance), né a far salire gli uomini sulla cima che li sovrastava e che
era stata occupata da Decio. A spronarli all'attacco non era soltanto il
risentimento nei confronti di quanti avevano loro tolto la possibilità di
sfruttare un'ottima occasione, ma anche la vicinanza della cima e il
numero esiguo di soldati che la stavano difendendo. Mentre sulle prime
avrebbero voluto circondare il colle con le loro truppe, tagliando quindi
i collegamenti tra Decio e il console, sùbito dopo la loro intenzione
sarebbe stata quella di lasciargli via libera per poi assalirli una volta
scesi nella valle. La notte li sorprese mentre stavano ancora decidendo
sul da farsi.
Sulle prime Decio sperò di poter combattere da una posizione elevata
mentre i Sanniti cercavano di salire sulla cima. Poi si stupì nel vedere
che i nemici non attaccavano e che, se a distoglierli da quel proposito
era la posizione sfavorevole, non tentassero neppure di accerchiare i
Romani con una trincea e uno steccato. Chiamati quindi a sé i centurioni,
disse loro: «Quale inettitudine militare, quale pigrizia! Come avranno
potuto vincere con Sidicini e Campani? Li avete visti muoversi su e giù,
ora separando ora riunendo le loro forze, senza che a nessuno venisse in
mente di costruire fortificazioni, mentre ormai avremmo già potuto essere
circondati da una palizzata. Faremo come loro, se ci fermeremo quassù più
di quanto ci convenga. Avanti dunque, finché resta ancora un po' di luce,
venite con me, e cerchiamo di scoprire dove stiano piazzando gli uomini di
guardia e se esista la possibilità di uscire di qui». Con un mantello da
semplice soldato, accompagnato dai suoi centurioni anch'essi in tenuta da
fanti ordinari (per evitare così che il nemico si rendesse conto che il
comandante in persona compiva un giro di esplorazione), Decio andò a
verificare le due cose.
35 Poi, disposte le sentinelle, ordinò di passare parola al resto
dei suoi uomini: non appena avessero sentito la tromba suonare il segnale
del secondo turno di guardia, avrebbero dovuto armarsi in silenzio e
presentarsi da lui. Una volta radunatisi in silenzio come era stato loro
ordinato, il tribuno disse: «Soldati, dovete mantenere il silenzio e
ascoltarmi senza reagire con le solite urla di assenso. Quando avrò finito
di esporvi il mio piano, quelli che lo approveranno si metteranno alla mia
destra, senza dir nulla. Il gruppo più numeroso imporrà la sua decisione.
Adesso ascoltate quello che ho in mente. Il nemico non vi ha costretti qua
come se foste stati dispersi da una rotta o rimasti indietro per colpa
della vostra indolenza: è con il coraggio che avete occupato questa
posizione, e dev'essere il coraggio a darvi una via d'uscita. Salendo qui
avete salvato un esercito formidabile per il popolo romano: aprendo un
varco salverete voi stessi. È motivo di onore per un così esiguo manipolo
aver portato aiuto a molti e non aver avuto bisogno del sostegno di
nessuno. Avete di fronte un nemico che, pur avendo avuto ieri
l'opportunità di distruggere un'intera armata, se l'è lasciata sfuggire
per pura indolenza; un nemico che, non ostante avesse sopra la testa
questa cima strategica, si è accorto della sua esistenza soltanto dopo
averla vista finire in mano nostra, e che, pur essendo noi pochissimi
contro migliaia di uomini, non ci ha impedito la salita né ha tentato di
accerchiarci con una palizzata quando ormai ci eravamo impossessati della
cima e restava ben poca luce. Se lo avete eluso mentre era sveglio e
all'erta, ora che dorme potete, anzi dovete beffarlo. Ci troviamo infatti
in una situazione tale che io mi limito a indicarvi la via obbligata
piuttosto che proporvi un piano. Perché non si tratta di decidere se
rimanere qua o andarsene, visto che la sorte non vi ha lasciato
nient'altro che le armi e la capacità di usarle, e siamo destinati a
morire o di fame o di sete, se ci lasciamo intimorire dalle spade nemiche
più di quanto non si addica a chi è uomo e Romano. Dunque la nostra unica
speranza di salvezza è aprirci un varco e fuggire: possiamo tentare di
giorno o nel cuore della notte. Ma qui, lo vedete bene, lo spazio di
scelta è ancora minore: perché se aspettassimo l'alba, che speranze
avremmo di non essere circondati dal nemico con un fossato e una palizzata
senza varchi, visto che, come vedete, ora ci ha già attorniato con tutti i
suoi uomini schierati sotto di noi? Ora, se - come in effetti è - indicata
per una sortita è la notte, questo è certamente il momento più adatto
della notte. Siete venuti qua al segnale del secondo turno di guardia,
quando cioè per gli esseri umani il sonno è più profondo: avanzate in
mezzo ai corpi assopiti, in silenzio insinuandovi tra uomini indifesi, ma
pronti a terrorizzarli con un urlo improvviso se dovessero sentirvi.
Seguitemi soltanto, come avete fatto in passato: io vi guiderò con lo
stesso successo che ci ha accompagnato fino qua. Quelli cui il mio piano
sembra garantire la salvezza, avanti, facciano un passo sulla destra».
36 Passarono tutti, seguendo Decio che avanzava tra gli spazi
lasciati incustoditi. Avevano già attraversato metà dell'accampamento,
quando un soldato, scavalcando i corpi dei nemici addormentati, urtò uno
scudo e fece rumore, svegliando una sentinella. Questi, dopo aver
scrollato il compagno più vicino, si alzò e insieme con lui diede
l'allarme a tutti gli altri, non sapendo però se si trattasse di amici o
di nemici, se il manipolo di armati sulla cima stava tentando una sortita
oppure se il console aveva catturato l'accampamento. Decio, vedendo che
erano stati scoperti, diede ordine ai suoi di urlare così forte da
aggiungere lo spavento al torpore del risveglio, impedendo ai nemici di
armarsi velocemente e di opporre resistenza ai Romani per poi inseguirli.
Con i Sanniti in preda al panico e alla confusione, il manipolo di Romani
massacrò le sentinelle che gli si paravano innanzi e riuscì a fare breccia
arrivando fino all'accampamento del console.
L'alba era ancora lontana ed essi erano ormai convinti di essere al
sicuro, quando Decio disse: «Onore al vostro coraggio, o Romani: la vostra
azione per rientrare al campo sarà celebrata per sempre. Ma perché
quest'impresa tanto valorosa possa essere apprezzata in tutta la sua
pienezza ci vuole la luce del giorno, e il vostro glorioso rientro
all'accampamento non merita di essere accompagnato dal silenzio della
notte. Aspettiamo qui tranquilli che arrivi l'alba». I soldati obbedirono.
Alle prime luci del giorno venne inviato un messaggero al console e
l'accampamento esultò. Quando passò di bocca in bocca la notizia che erano
tornati sani e salvi gli uomini che avevano rischiato la vita esponendosi
a sicuri pericoli pur di garantire la salvezza comune, tutti si
riversarono loro incontro per lodarli, ringraziarli, invocarli uno per uno
con il nome di salvatori, levando grazie e lodi agli dèi mentre esaltavano
Decio. A questi fu concesso il trionfo all'interno dell'accampamento:
marciando alla testa del suo manipolo in armi, egli attraversò il campo:
tutti gli sguardi dei soldati erano per lui, tutti rendevano al tribuno un
omaggio degno di un console. Quando la sfilata giunse di fronte al
pretorio, il console ordinò al trombettiere di suonare l'adunata. Aveva
cominciato a tessere le più che meritate lodi di Decio, ma questi,
interrompendolo, lo indusse a rinviare l'adunata. Sostenendo infatti che
tutto il resto avrebbe potuto essere rimandato a un momento più opportuno,
Decio convinse il console ad attaccare i nemici frastornati dallo spavento
di quella notte e dispersi intorno alla cima in squadre separate,
aggiungendo di essere convinto che alcuni di essi fossero stati inviati
sulle loro tracce e adesso stessero vagando per la gola. Alle legioni
venne dato ordine di armarsi. Uscite dall'accampamento, marciarono in
direzione del nemico per una via più aperta (grazie agli esploratori, la
foresta ora era meglio conosciuta). Piombarono sul nemico con un attacco a
sorpresa: i Sanniti si erano disseminati nella zona, per lo più privi di
armi e perciò impossibilitati tanto a inquadrarsi in formazione compatta
quanto ad armarsi e a trovare riparo all'interno del fossato, e i Romani
prima li costrinsero a rifugiarsi terrorizzati nell'accampamento, poi lo
espugnarono seminando il panico tra i corpi di guardia. Le urla si
sentivano intorno a tutto il colle, e fecero fuggire i soldati dai
rispettivi presidi. Gran parte dei Sanniti riuscì a fuggire senza venire a
contatto con il nemico. Quelli che invece si erano rifugiati all'interno
dell'accampamento - si trattava di circa trentamila uomini - furono uccisi
dal primo all'ultimo, mentre l'accampamento venne distrutto.
37 Portata a termine la battaglia in questo modo, il console
convocò l'adunata, durante la quale esaltò Publio Decio, aggiungendo alle
congratulazioni dovute alle gesta passate quelle legate ai fatti del
giorno, e gli fece dono - in aggiunta ad altri riconoscimenti militari -
di una corona d'oro e di cento buoi, cui ne aggiunse uno bianco ben
pasciuto e con corna dorate. Ai soldati che erano nel suo drappello
concesse invece una doppia razione di frumento per il resto della vita, e
un bue e due tuniche per il presente. Dopo i riconoscimenti dati dal
console, le legioni, tra urla di giubilo, posero sul capo di Decio la
corona di gramigna riservata a quanti liberano da un assedio. Un'altra
corona, segno di analogo onore, gli venne poi imposta dagli uomini del suo
drappello. Adorno di tutti i riconoscimenti ottenuti, Decio immolò a Marte
il bue più grosso, regalando invece gli altri cento ai soldati che avevano
preso parte con lui alla spedizione. A quegli stessi uomini le truppe
offrirono poi una libbra di farro e mezzo litro di vino. Tutte queste
manifestazioni avvennero in un clima di entusiasmo collettivo, a
testimonianza dell'approvazione generale.
Una terza battaglia venne combattuta nei pressi di Suessula, perché i
Sanniti, dopo il disastro subito per mano di Marco Valerio, avevano
chiamato dalla patria tutti i giovani in età di portare le armi, tentando
il tutto per tutto. Da Suessula questa allarmante notizia giunse a Capua,
da dove partirono messaggeri a cavallo con una richiesta di aiuto da
rivolgere al console Valerio. Le truppe vennero immediatamente mobilitate
e, deposto l'equipaggiamento pesante e lasciata una valida guarnigione a
presidiare l'accampamento, si misero in marcia. Giunte a breve distanza
dal nemico, si accamparono in una striscia di terra ridottissima, non
avendo con sé, eccetto i cavalli, né animali né la massa dei palafrenieri.
I Sanniti, convinti che la battaglia sarebbe iniziata di lì a poco, si
schierarono in ordine di battaglia. Poi, dato che nessuno andava loro
incontro, avanzarono minacciosi verso l'accampamento nemico. Quando videro
i soldati sulla palizzata e i ricognitori inviati a perlustrare i lati
dell'accampamento tornarono riferendone le modeste dimensioni - di qui si
deduceva l'esiguo numero dei nemici -, l'intero esercito cominciò a
mormorare impaziente che si doveva riempire il fossato, schiantare la
palizzata e irrompere nell'accampamento. Un gesto tanto audace avrebbe
posto fine alla guerra sul nascere, se i comandanti non avessero
trattenuto l'animosità dei soldati. Ma poi, dato che era gravoso rifornire
quella massa di effettivi e visto che, causa prima il lungo periodo di
inoperosità trascorso sotto le mura di Suessula e poi il ritardo con cui
le operazioni erano incominciate, la truppa aveva ormai pressoché bisogno
di tutto, si decise di inviare dei soldati a rifornirsi di frumento nei
campi, mentre il nemico, impaurito, restava barricato nell'accampamento.
Nel frattempo i Romani, rimanendo inoperosi, si sarebbero trovati nella
stessa situazione di necessità generale, perché si erano presentati
provvisti di un equipaggiamento leggero, con il solo frumento che erano
stati in grado di trasportare insieme alle armi.
Vedendo i nemici disseminati per le campagne e i loro posti di guardia
sguarniti, il console rivolse qualche parola di incoraggiamento ai suoi
uomini e li guidò all'assalto dell'accampamento. Catturatolo alla prima
carica, dopo aver ucciso più uomini dentro le rispettive tende che davanti
alle porte e sulla palizzata, ordinò di ammassare le insegne nemiche in un
unico punto. Lasciate due legioni con il cómpito di vigilare e presidiare
il campo e ammoniti severamente gli uomini di astenersi dalle razzie di
bottino almeno finché non fosse ritornato, partì con l'esercito schierato
in ordine di battaglia. Poi, dopo aver mandato avanti la cavalleria ad
accerchiare i Sanniti dispersi, come in una battuta di caccia, ne massacrò
un numero enorme, perché i nemici, in preda al panico, non trovarono
un'insegna sotto cui raccogliersi e non capivano se avessero dovuto
rifugiarsi nell'accampamento oppure scegliere di fuggire verso qualche
località più lontana. L'ansia della fuga e il terrore furono così grandi
che i Romani consegnarono al console circa quarantamila scudi - ma le
vittime furono molto meno numerose - e centosettanta insegne militari, tra
le quali c'erano anche quelle catturate all'interno dell'accampamento. Ai
soldati vincitori tornati al campo venne concesso l'intero bottino.
38 L'esito favorevole di quella guerra indusse non solo i Falisci,
con i quali era in atto una tregua, a chiedere un trattato al senato, ma
spinse anche i Latini, le cui truppe erano già pronte alla battaglia, a
spostare il loro attacco dai Romani contro i Peligni. La fama di questo
trionfo non rimase confinata alla sola Italia: anche i Cartaginesi
inviarono degli ambasciatori per congratularsi coi Romani e per offrire
loro in dono una corona d'oro del peso di venticinque libbre da collocare
nella cella del tempio di Giove sul Campidoglio. A entrambi i consoli
venne accordato il trionfo sui Sanniti e dietro di loro nella sfilata
veniva Decio, coperto di decorazioni e onusto di gloria: i soldati, nei
loro rozzi cori, ne citarono il nome un numero non inferiore di volte
rispetto a quello del console.
In séguito vennero ascoltate le delegazioni dei Campani e degli
abitanti di Suessula: la loro richiesta, accolta positivamente da Roma,
era di ottenere una guarnigione armata che potesse stare con loro per la
durata dell'inverno al fine di proteggerli da eventuali incursioni dei
Sanniti.
Già allora Capua non era affatto un luogo ideale per la disciplina
militare: centro di ogni piacevole attrattiva, esercitò sugli animi dei
soldati un'influenza tale da indurli, mentre erano negli accampamenti
invernali, a progettare di togliere Capua ai Campani, con quella stessa
scelleratezza con cui questi l'avevano strappata ai suoi antichi abitanti:
pensavano che non sarebbe stato ingiusto rivolgere contro di loro
l'esempio dato. E poi, perché mai la terra più fertile d'Italia e una
città degna di quella terra dovevano restare in mano ai Campani che non
erano in grado di proteggere né se stessi né i loro possedimenti, invece
di passare a un esercito vincitore che col suo sangue e il suo sudore
aveva scacciato di lì i Sanniti? O era forse giusto che chi si era
consegnato a Roma godesse di tutta quella bellezza e di quella fertilità,
mentre loro, esausti per le continue campagne, lottavano in una terra
arida e malsana intorno a Roma, oppure dovevano sopportare il peso
dell'usura che attanagliava la città e che cresceva giorno dopo giorno?
Questi progetti, discussi in riunioni segrete e non ancora comunicati
al resto della truppa, furono scoperti dal nuovo console Gaio Marcio
Rutulo, cui la sorte aveva affidato il cómpito di occuparsi della
Campania, mentre il collega Quinto Servilio era rimasto a Roma. Perciò,
venuto a conoscenza, tramite i tribuni, dell'esatto svolgimento dei fatti,
assennato com'era per l'età avanzata e le passate esperienze (era quello
il suo quarto consolato, dopo una dittatura e una censura), pensò che la
cosa migliore fosse placare l'irruenza di quei giovani, incoraggiandone la
speranza di poter realizzare il loro piano in qualunque momento avessero
voluto. Perciò fece diffondere la voce che anche l'anno successivo le
guarnigioni armate avrebbero trascorso l'inverno nelle stesse città (le
truppe infatti erano state distribuite tra le varie città della Campania,
e da Capua i progetti di occupazione si erano diffusi in tutto
l'esercito). Questo provvedimento appagò i congiurati, facendo sì che la
rivolta rimanesse al momento allo stato di idea.
39 Condotti i suoi uomini nell'accampamento estivo, il console -
visto che i Sanniti si mantenevano tranquilli - decise di epurare i ranghi
dell'esercito allontanando gli elementi più turbolenti: di alcuni disse
che avevano concluso il periodo di ferma, di altri sostenne che si
trattava di soggetti ormai troppo avanti con gli anni oppure non
sufficientemente forti. Alcuni uomini vennero inviati in licenza: in un
primo tempo vennero fatti partire alla spicciolata, poi fu la volta di
intere coorti, allontanate col pretesto che avevano trascorso l'inverno
lontano dalla loro case e dai loro interessi. Buona parte venne congedata
con il pretesto di impieghi militari: furono inviati chi in una zona, chi
in un'altra. L'altro console e il pretore trattennero a Roma tutta questa
massa di soldati, spiegando la manovra con una serie di motivazioni sempre
nuove. E sulle prime, non nutrendo alcun sospetto, i congedati non erano
affatto dispiaciuti all'idea di rivedere le loro case. Ma poi, quando si
resero conto che i primi di loro ad esser stati allontanati non facevano
più ritorno ai reparti e che gli unici a risultare congedati erano quanti
avevano svernato in Campania e, tra di essi, in particolar modo quelli che
avevano fomentato la rivolta, sulle prime si meravigliarono, e poi
iniziarono a temere senza più margini di dubbio che i loro piani fossero
stati scoperti. Presto ci sarebbero state inchieste, sarebbero iniziate le
delazioni e li avrebbero puniti in segreto uno per uno, costringendoli a
provare sulla loro pelle il crudele dispotismo dei consoli e dei patrizi.
Erano questi i discorsi che facevano in segreto i soldati rimasti
nell'accampamento, comprendendo che l'abilità del console aveva stroncato
l'anima della congiura.
Una coorte che si trovava non lontano da Anxur si andò ad accampare nei
pressi di Lautule, in uno stretto passo tra mare e monti, dove sarebbe
stato possibile intercettare gli uomini che il console con vari pretesti
stava congedando. Ben presto si formò un reparto di ragguardevoli
proporzioni, cui non mancava altro che un comandante per costituire un
esercito vero e proprio. Così, privi di ordini com'erano e affidandosi a
razzie, arrivarono nel territorio albano e si accamparono sotto i monti di
Alba Longa cingendo il campo di un fossato. Ultimata la costruzione,
passarono il resto della giornata a discutere sulla scelta di un
comandante (nessuno dei presenti godeva di sufficiente fiducia). Ma chi
potevano far venire da Roma? Chi tra i patrizi o tra i plebei si sarebbe
offerto di affrontare consapevolmente un pericolo tanto grande? A chi
poteva essere affidata senza rischi la causa di un esercito esasperato
dall'offesa patita? Il giorno dopo, mentre ancora continuavano a
discutere, alcuni dei razziatori che si aggiravano nei dintorni riferirono
di aver sentito dire che Tito Quinzio si dedicava ai suoi campi nei pressi
di Tuscolo, senza più preoccuparsi di Roma e della sua vita pubblica.
Quest'uomo, che apparteneva a una famiglia patrizia, dopo aver ottenuto
grandi riconoscimenti in campo militare, si era visto stroncare la
carriera da una ferita che lo aveva menomato rendendolo zoppo, e si era
ritirato in campagna lontano dal foro e dalla politica. Non appena udirono
il suo nome, lo riconobbero e lo fecero chiamare nella speranza che le
cose potessero prendere una buona piega. Ma siccome le speranze che
quell'uomo scegliesse spontaneamente di aiutarli erano assai ridotte,
decisero di ricorrere alla forza e all'intimidazione. Giunti così nel
cuore della notte alla sua fattoria, gli incaricati della missione
sorpresero Quinzio immerso nel sonno. Non gli offrirono alternativa: o
avrebbe accettato la carica e il comando, oppure, se avesse rifiutato di
seguirli, lo avrebbero ucciso. Così, lo trascinarono nell'accampamento.
Non appena vi mise piede, lo nominarono comandante, gli conferirono le
insegne del grado e gli chiesero di condurli a Roma. Messisi poi in marcia
più per loro iniziativa che per decisione del comandante, arrivarono in
assetto di guerra a otto miglia da Roma, su quella che oggi è la via
Appia. E di lì avrebbero immediatamente puntato sulla città, se non
avessero sentito che un esercito muoveva ad affrontarli agli ordini di
Marco Valerio, che era stato nominato dittatore con Lucio Emilio Mamerco
in qualità di maestro di cavalleria.
40 Non appena i due schieramenti giunsero l'uno in vista dell'altro
e riconobbero le rispettive armi e insegne, a tutti venne sùbito in mente
la patria e quel ricordo placò la loro ira. Gli uomini non erano ancora
così duri da spargere il sangue dei concittadini; non avevano conosciuto
nient'altro che guerre con popoli stranieri e la secessione dal resto
della cittadinanza era considerata l'apice di ogni rabbiosa reazione.
Così, da entrambe le parti, tanto i comandanti quanto i soldati semplici
cercavano il modo per incontrarsi e trattare: tanto Quinzio, che era sazio
anche di guerre in difesa della patria (immaginiamoci poi di guerre contro
di essa), quanto Corvino che voleva bene a tutti i concittadini, in
particolar modo ai soldati e al di sopra di ogni altro al suo stesso
esercito. Fu lui a farsi avanti per avviare le trattative. Non appena lo
riconobbero, calò sùbito il silenzio e gli avversari mostrarono di avere
per lui non meno rispetto di quanto ne avessero i suoi uomini.
«Soldati», cominciò Corvino, «mentre mi accingevo a uscire da Roma, ho
rivolto una preghiera agli dèi immortali vostri e miei, chiedendo loro
supplichevolmente di concedermi l'onore non tanto di avere la meglio su di
voi quanto di ottenere la vostra riconciliazione. Le varie guerre hanno
già offerto abbastanza occasioni di gloria, e altre ne offriranno. Ora
bisogna adoperarsi per arrivare alla pace. Le richieste che ho fatto agli
dèi immortali con la mia preghiera, voi potreste da soli realizzarle, se
soltanto voleste ricordare di aver posto il vostro accampamento in
territorio romano e non nel Sannio o nella terra dei Volsci, se vi venisse
in mente che i colli che vedete si trovano nel vostro paese natale, che
questo esercito è fatto di vostri concittadini e che io sono il vostro
console, quello sotto i cui auspici e il cui comando avete per due volte
sbaragliato le legioni dei Sanniti, per due volte conquistato il loro
accampamento. Soldati, io sono Marco Valerio Corvo, il cui sangue patrizio
conoscete per i benefici ricevuti e non per le ingiustizie perpetrate nei
vostri confronti: sono un uomo che non ha mai proposto né leggi
irriguardose né ha mai votato decisioni del senato crudeli verso di voi,
risultando in tutte le posizioni di potere da lui occupate sempre più
rigido con se stesso che con voi. Ma se le origini, il valore personale,
la dignità e i riconoscimenti hanno mai suscitato in qualcuno l'arroganza,
ebbene io per nascita mi trovavo in quella condizione: avevo dato una tale
prova delle mie capacità, ero arrivato alla più alta carica della
repubblica in età così giovane che, console a ventitré anni, avrei potuto
essere sprezzante anche nei confronti dei patrizi, e non solo della plebe.
Ma quando ero console ho forse detto e fatto qualcosa di meno accettabile
rispetto a quando ero tribuno? Ho retto due consolati consecutivi
comportandomi nella stessa maniera: nel condurre questa dittatura che mi
conferisce poteri assoluti mi atterrò agli stessi principi: non mi
comporterò, nei confronti di questi miei uomini e dei soldati della mia
gente, in maniera più mite di quanto non facciano i nemici - e al solo
pronunciare questa parola rabbrividisco - nei vostri confronti. Perciò
sguainerete la spada prima voi contro di me che non io contro di voi.
Dunque le trombe suonino il segnale di battaglia dalla vostra parte,
l'urlo di guerra e l'assalto partano dalla vostra parte, se davvero si
deve combattere. Osate pure quello che i vostri padri e i vostri antenati
non osarono, e non ebbero il coraggio di mettere in pratica né i plebei
che si ritirarono sul monte Sacro, né quelli che poi si ritirarono
sull'Aventino. Aspettate fino a quando a ciascuno di voi - come successe
in passato a Coriolano - verranno incontro le madri e le mogli coi capelli
sciolti! Fu allora che le legioni dei Volsci, siccome avevano un
comandante romano, cessarono di combattere. Volete non astenervi dal
combattere una guerra scellerata voi che siete un esercito romano? Tito
Quinzio, qualunque sia la tua posizione in quello schieramento - che tu
l'abbia cioè occupata di spontanea volontà o sia stato forzato a farlo -,
se si tratterà di combattere, allora ritìrati in mezzo alla retroguardia:
per te sarà meno vergognoso fuggire e dare le spalle a dei concittadini
piuttosto che combattere contro la patria. Ma ora che si deve arrivare
alla pace, è giusto e doveroso che tu stia qua in prima fila e agisca nel
supremo interesse delle due parti. Se le vostre richieste sono
ragionevoli, verranno accolte; ma è preferibile accordarci anche a
condizioni inique piuttosto che versare sangue in uno scontro empio».
Tito Quinzio, voltandosi con le lacrime agli occhi verso i suoi uomini,
disse loro: «Se, soldati, io sono di qualche utilità, posso essere per voi
una guida migliore verso la pace che verso la guerra. Quelle parole non le
ha pronunciate un Volsco o un Sannita, ma un Romano, il vostro console, o
soldati, il vostro comandante: i suoi auspici li avete sperimentati in
vostro favore, non cercate quindi di metterne alla prova l'efficacia
contro di voi. Il senato aveva a disposizione anche altri comandanti in
grado di affrontarvi in maniera ben più drastica: eppure ha scelto l'uomo
che avrebbe trattato con voi - i suoi uomini - con maggior comprensione, e
nel quale, come vostro comandante, avreste potuto riporre il massimo della
fiducia. La pace è l'obiettivo anche di chi è in grado di dominare: che
cosa dovremmo dunque desiderare noi? Lasciamo da parte l'ira e la
speranza, falsi consiglieri e affidiamo noi stessi e la nostra causa a un
uomo la cui lealtà è conosciuta da tutti».
41 Poiché tutti approvavano a gran voce, Tito Quinzio avanzò oltre
le insegne e annunciò che i suoi uomini si sarebbero rimessi all'autorità
del dittatore, che egli implorò di sostenere la causa di quei disgraziati
concittadini e, accettato tale cómpito, di proteggerne gli interessi con
lo stesso scrupolo con cui era solito amministrare le cose di pubblico
interesse. Quanto alla sua personale situazione, Tito Quinzio dichiarò di
non voler nessuna garanzia in quanto non intendeva far affidamento su
altro che sulla propria innocenza. Ai soldati, invece, come già in passato
alla plebe al tempo degli avi e poi in séguito alle legioni, avrebbe
dovuto essere assicurato che la secessione non li avrebbe fatti incorrere
in punizioni.
Elogiato Tito Quinzio e invitato il resto della truppa a ben sperare,
il dittatore tornò al galoppo in città dove, dopo aver ottenuto
l'autorizzazione del senato, fece approvare dal popolo riunito nel bosco
Petelino una legge in virtù della quale nessun soldato avrebbe potuto
esser perseguito a causa della secessione. Li pregò poi, in qualità di
cittadini romani, di evitargli generosamente che quell'incidente
diventasse per qualcuno motivo di biasimo, reale o per celia. Venne anche
approvata una legge sacrata militare in base alla quale non avrebbe potuto
essere cancellato dai ranghi il nome di alcun soldato arruolato, a meno
che lo stesso ne avesse fatto richiesta; alla legge venne aggiunta una
clausola che impediva a chiunque di comandare una centuria nei quadri di
una legione nella quale era stato tribuno. I protagonisti della
insurrezione militare chiesero di applicare questo provvedimento ai danni
di Publio Salonio, il quale era stato con regolare alternanza un anno
tribuno dei soldati e l'anno dopo primo centurione (grado che oggi è
conosciuto come centurione primipilo). Gli uomini erano ostili nei suoi
confronti perché Salonio si era sempre opposto ai loro progetti di
ammutinamento ed era fuggito da Lautule per evitare coinvolgimenti nella
rivolta. E così, dato che il senato non voleva cedere su quest'unico punto
per riguardo nei confronti di Salonio, fu Salonio stesso che, implorando i
senatori di non anteporre la sua onorabilità alla concordia civile, li
spinse a cedere anche in quel caso. Ugualmente sfrontata fu la richiesta
di ridurre lo stipendio dei cavalieri - che allora guadagnavano tre volte
la paga dei fanti -, per il semplice fatto che essi si erano opposti
all'ammutinamento.
42 Oltre a questi provvedimenti, ho trovato presso alcune fonti che
il tribuno della plebe Lucio Genucio propose alla plebe di dichiarare
illegale il prestito a interesse. E che con altri plebisciti venne
stabilito che nessuno avrebbe potuto detenere la stessa magistratura
nell'arco di dieci anni, né una doppia magistratura nel corso di un unico
anno, e che fosse possibile eleggere due consoli di estrazione plebea. Se
al popolo furono concessi tutti questi privilegi, allora è evidente che
quell'ammutinamento militare aveva avuto non poca forza. Altri annalisti
riportano invece che Valerio non fu eletto dittatore, che l'intera
questione venne condotta dai consoli, che la massa di rivoltosi venne
piegata con le armi, e inoltre che l'attacco notturno non venne portato
alla fattoria di Tito Quinzio, bensì alla casa di Gaio Manlio, il quale
venne catturato dai ribelli e costretto a divenirne il comandante. Secondo
queste fonti, sarebbero partiti di lì per andarsi ad accampare a quattro
miglia da Roma, in un luogo fortificato. I comandanti non avrebbero fatto
accenni alla concordia, ma all'improvviso, quando i due schieramenti erano
ormai di fronte in armi, si sarebbero scambiati il saluto militare, mentre
i soldati, mescolandosi gli uni con gli altri, avrebbero cominciato a
stringersi la mano e ad abbracciarsi piangendo. E i consoli, vedendo che
gli uomini non erano nella disposizione di combattere, si sarebbero visti
costretti a proporre al senato di ristabilire l'armonia tra le parti in
causa. Così gli storici del passato sono d'accordo soltanto sul fatto che
l'insurrezione armata sia avvenuta e che sia stata poi ricomposta.
La notizia di questo ammutinamento unita alla difficile guerra iniziata
coi Sanniti spinse alcuni popoli a rinunciare all'alleanza con Roma: a
parte i Latini, che già da tempo erano alleati inaffidabili, i Privernati
devastarono con un'improvvisa incursione anche le colonie romane di Norba
e Sezia.
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