1 Nel corso dell'anno successivo ci fu la pace di Caudio, rimasta
celebre per la disfatta subita dai Romani, durante il consolato di Tito
Veturio Calvino e Spurio Postumio. Quell'anno il comandante in capo dei
Sabini era Gaio Ponzio figlio di Erennio, figlio di un padre che eccelleva
in saggezza, e lui stesso guerriero e stratega di prim'ordine. Quando gli
ambasciatori inviati a chiedere soddisfazione rientrarono senza aver
concluso la pace, Gaio Ponzio disse: «Non crediate che questa ambasceria
non abbia avuto esito alcuno, perché con essa abbiamo espiato l'ira degli
dèi sorta nei nostri confronti per aver violato i patti. Qualunque sia
stato il dio che ha voluto farci sottostare all'obbligo di restituire ciò
che ci era stato richiesto in base alle clausole del trattato, sono sicuro
che questo stesso dio non ha gradito che i Romani abbiano respinto con
tanta arroganza la nostra riparazione per l'avvenuta rottura dei patti. Ma
che cos'altro si sarebbe potuto fare per placare gli dèi e rabbonire gli
uomini, più di quello che già abbiamo fatto? Quel che è stato tolto ai
nemici come bottino, e che secondo le leggi di guerra avrebbe già potuto
dirsi a buon diritto nostro, l'abbiamo restituito. I responsabili della
guerra li abbiamo riconsegnati morti, visto che non ci è stato possibile
consegnarli vivi. Le loro cose, per evitare che ci rimanesse addosso
qualcosa che potesse far ricadere la colpa su di noi, le abbiamo portate a
Roma. Cos'altro devo a voi, o Romani, cosa ai trattati, e agli dèi
testimoni dei trattati? Chi vi devo proporre a giudice della vostra rabbia
e della nostra pena? Non voglio sottrarmi al giudizio di nessuna
popolazione e di nessun privato cittadino. Se infatti il più forte non
concede al più debole alcun diritto umano, allora mi rivolgerò agli dèi
che si vendicano degli eccessi di superbia, e li implorerò di rivolgere le
loro ire contro quanti non hanno ritenuto sufficiente la restituzione
delle proprie cose né l'aggiunta delle altrui, contro quanti la cui
ferocia non è stata saziata dalla morte dei colpevoli, né dalla consegna
dei cadaveri né dai beni che accompagnavano la resa dei loro legittimi
proprietari, contro quanti non potranno mai essere placati se noi non
offriremo loro il nostro sangue da succhiare e le nostre membra da
sbranare. La guerra, o Sanniti, è giusta per coloro ai quali risulta
necessaria, e il ricorso alle armi è sacrosanto per quelli cui non restano
altre speranze se non nelle armi. Di conseguenza, se nelle imprese degli
uomini è una cosa di assoluta importanza avere gli dèi dalla propria parte
piuttosto che contro, state pur certi che le guerre del passato le abbiamo
condotte più contro gli dèi che contro gli uomini, mentre questa che è
ormai alle porte la condurremo agli ordini degli dèi in persona».
2 Dopo aver rivolto ai Sanniti queste profetiche parole non meno
vere che di buon augurio, si mise alla testa dell'esercito andando ad
accamparsi nei pressi di Caudio con la maggior segretezza possibile. Di lì
inviò dieci soldati travestiti da pastori a Calazia, dove gli era giunta
voce si trovassero già il console e l'accampamento romani, e ordinò loro
di pascolare il bestiame vicino alle guarnigioni armate dei Romani, a
distanza l'uno dall'altro. Nel caso si fossero poi imbattuti in predatori
nemici, avrebbero dovuto riferire tutti la stessa storia, e cioè che gli
eserciti sanniti si trovavano in Apulia, che erano impegnati ad assediare
Luceria con tutte le forze e ormai stavano per prenderla d'assalto. Questo
tipo di voci, messe in circolo a bella posta in precedenza, era già
arrivato alle orecchie dei Romani, e la loro attendibilità venne
incrementata dalle deposizioni dei prigionieri, che, e ciò ebbe un peso
determinante, collimavano tutte tra di loro. Non c'era dubbio che i Romani
erano chiamati a portare aiuto agli abitanti di Luceria, alleati valorosi
e fedeli, anche per evitare che l'Apulia defezionasse in blocco di fronte
alla minaccia incombente dei Sanniti. Si discusse soltanto sul percorso da
compiere.
Le strade che portavano a Luceria erano due: una lungo la costa
adriatica, aperta e sgombra, ma tanto più lunga quanto più sicura, l'altra
attraverso le Forche Caudine, più rapida. Si tratta però di un luogo con
questo tipo di conformazione: due gole profonde, strette e coperte di
boschi, collegate da una catena ininterrotta di montagne. In mezzo a
queste montagne si apre una pianura abbastanza ampia, ricca di acque e di
pascoli, e tagliata da una strada. Ora, per accedervi è necessario
attraversare la prima gola, mentre per uscire si deve o tornare sui propri
passi per la strada fatta all'andata, oppure - qualora si voglia procedere
- attraversare una gola ancora più stretta e impervia della prima.
L'esercito romano, dopo aver raggiunto quella pianura attraverso uno
dei passaggi incassati nella roccia, stava marciando verso la seconda
gola, quando la trovò ostruita da una barriera di tronchi abbattuti e di
grossi massi. Era chiaro che si trattava di un agguato nemico: infatti
avvistarono sulla cima della gola un manipolo di armati. Cercarono quindi,
senza perdere un attimo, di ritornare indietro per il passaggio attraverso
il quale erano arrivati, ma trovarono sbarrato anche questo da ostacoli
naturali e da uomini armati. Allora, senza che nessuno lo avesse loro
ordinato, si bloccarono, attoniti, le membra incapaci di muoversi. E
guardandosi in faccia l'un l'altro, ciascuno nella speranza che il
compagno avesse maggiore lucidità e potesse prendere una qualche
decisione, rimasero a lungo in silenzio. Poi, quando videro che si stavano
piantando le tende dei consoli, e che qualcuno cominciava a preparare il
materiale per allestire l'accampamento, pur rendendosi conto che costruire
fortificazioni in una situazione pressoché irreparabile e disperata
avrebbe suscitato il riso del nemico, ciò non ostante, per non aggiungere
la propria responsabilità alla disgrazia, tutti - senza che nessuno li
esortasse a farlo o lo ordinasse loro - si misero di propria iniziativa a
costruire dei dispositivi di difesa, scavando una trincea intorno al campo
nei pressi dell'acqua di un ruscello: e ironizzavano amaramente, quasi non
bastassero le insolenti frecciate dei nemici, sull'inutilità delle opere
allestite e della fatica sostenuta. Attorno ai consoli tristi, che non
convocavano nemmeno il consiglio di guerra (visto che non c'era consiglio
o aiuto che potessero valere), si vennero a raccogliere di loro spontanea
volontà i luogotenenti e i tribuni, mentre i soldati, girandosi verso il
pretorio, chiedevano agli ufficiali quel sostegno che a malapena gli dèi
avrebbero potuto offrire.
3 La notte li sorprese mentre più che consultarsi si stavano
lamentando del proprio destino, e ognuno di essi reagiva secondo il
proprio carattere. Uno diceva: «Avanziamo attraverso le barriere lungo la
strada, su per le pendici dei monti, attraverso i boschi, dovunque potremo
portare le armi: così che almeno si riesca ad arrivare fino al nemico, sul
quale da quasi trent'anni abbiamo la meglio. Tutto sarà facile e agevole
per dei soldati romani che combattono contro perfidi Sanniti». Un altro
ribatteva: «Dove e per dove dovremmo andare? Non vogliamo per caso
spostare i monti dalle loro sedi naturali? Finché avremo queste cime sopra
la testa, per quale via si potrà raggiungere il nemico? Armati o inermi,
coraggiosi o vigliacchi, siamo tutti ugualmente prigionieri e vinti; il
nemico non ci offrirà nemmeno una spada perché possiamo morire in maniera
gloriosa: vincerà la guerra senza muovere un dito». La notte trascorse tra
battute di questo genere: nessuno pensò a riposare o a mangiare.
Ma nemmeno i Sanniti, pur trovandosi in una congiuntura tanto
favorevole, sapevano che cosa convenisse fare. E per questo decisero
all'unanimità di inviare un messaggio a Erennio Ponzio, padre del
comandante in capo, per averne un consiglio. Quest'ultimo, avanti negli
anni com'era, si era già ritirato non solo dall'attività militare, ma
anche dalla vita politica. Ciò non ostante, nel suo corpo malato era
ancora vivo il vigore dell'animo e dell'intelletto. Quando venne a sapere
che gli eserciti romani erano stati schiacciati alle Forche Caudine tra
due gole, essendogli stato chiesto un consiglio dal messaggero inviato dal
figlio, propose di lasciarli andare al più presto tutti senza colpirli. Ma
siccome questo consiglio non venne messo in pratica, inviato una seconda
volta lo stesso messaggero col cómpito di consultarlo, egli propose di
ucciderli tutti dal primo all'ultimo. Le risposte contrastavano tanto da
sembrare il responso di un oracolo ambiguo: e il figlio - pur pensando che
ormai anche la mente del padre avesse perso lucidità nel corpo malato -,
ciò non ostante si lasciò convincere dalle insistenze di tutto l'esercito
a convocare il genitore di persona nell'assemblea. Stando a quanto si
racconta, il vecchio non avrebbe fatto difficoltà a lasciarsi portare su
un carro all'accampamento, e una volta introdotto nell'assemblea si
sarebbe espresso all'incirca in questi termini, senza modificare in nulla
il proprio parere, ma limitandosi a chiarirne i motivi: scegliendo la
prima strada, che lui riteneva la più valida, ci si sarebbe assicurata una
pace duratura e l'amicizia con un popolo potentissimo; optando invece per
la seconda, si sarebbe evitata la guerra per molti anni, perché dopo la
perdita di quei due eserciti per i Romani non sarebbe stato facile
raggiungere di nuovo la potenza di un tempo; una terza via non esisteva.
Ma siccome il figlio e gli altri alti ufficiali insistevano a chiedere che
cosa pensasse di una soluzione di compromesso - permettere cioè ai Romani
di andarsene sani e salvi, ma imporre loro, in quanto vinti, il diritto di
guerra -, l'uomo rispose: «Questa soluzione è tale che non vi acquisterà
degli amici né vi libererà dai nemici. Salvate pure la vita a uomini che
avete esasperato con un trattamento umiliante: la caratteristica del
popolo romano è quella di non sapersi rassegnare alla condizione di vinto.
Nei loro cuori sarà sempre vivo il marchio di infamia del caso presente, e
questo non darà loro pace fino a quando non vi avranno ripagato con pene
molte volte più dure». Una volta respinte entrambe le sue proposte,
Erennio venne ricondotto dall'accampamento in patria.
4 Frattanto, nell'accampamento romano, falliti parecchi tentativi
di fare breccia nell'accerchiamento, e mancando ormai ogni cosa, nella
morsa degli eventi si decise di inviare ambasciatori a chiedere una pace a
parità di condizioni: se non l'avessero ottenuta, avrebbero sfidato il
nemico in battaglia. Alla delegazione Ponzio replicò che la guerra era
ormai stata decisa, e siccome neppure da sconfitti e da prigionieri erano
in grado di ammettere la propria sorte, li avrebbe fatti passare sotto il
giogo privi di armi e con una sola veste per ciascuno. Il resto delle
condizioni sarebbero state eque per vincitori e vinti: se i Romani
abbandonavano il territorio sannita e ritiravano le colonie fondate,
allora Romani e Sanniti in futuro sarebbero vissuti attenendosi alle loro
leggi in base a un patto di alleanza alla pari. Erano queste le condizioni
alle quali egli era pronto a scendere a patti coi consoli. Se qualcuna di
queste clausole non era di loro gradimento, allora vietava agli
ambasciatori di ripresentarsi al suo cospetto. Quando venne riferito
l'esito dell'ambasceria, il lamento levatosi immediatamente da tutto
l'esercito fu così profondo e gli animi vennero invasi da un tale
sconforto, che il dolore non sarebbe stato più grande se fosse giunta la
notizia che tutti erano destinati a morire in quello stesso luogo.
Restarono a lungo in silenzio, e i consoli non riuscivano ad aprire
bocca né per difendere un accordo così infamante, né per respingere un
patto tanto necessario, quando Lucio Lentulo, che tra gli ambasciatori
inviati era allora il più autorevole per valore e per cariche ricoperte,
disse: «Ricordo, o consoli, di aver spesso sentito mio padre raccontare di
essere stato il solo, nel senato sul Campidoglio, a sconsigliare di
riscattare Roma dai Galli pagandola a peso d'oro, perché i Romani non
erano stati circondati né con una trincea né con un fossato da quel nemico
quanto mai indolente e poco portato ai lavori di fortificazione, ed erano
in grado di tentare una sortita, pur rischiando moltissimo, ma senza
andare incontro a un disastro sicuro. E se, come quelli erano stati in
grado di lanciarsi dal Campidoglio armati contro il nemico, nel modo
spesso utilizzato dagli assediati per tentare una sortita contro gli
assedianti, venisse anche a noi concessa l'opportunità di combattere (in
posizione favorevole o meno), certo non mi mancherebbe lo spirito di mio
padre nel guidarvi. Morire per la patria, lo ammetto, è cosa gloriosa, e
sono pronto a offrire la mia vita per il popolo e per l'esercito romano o
a gettarmi nel mezzo dei nemici. Ma è qui che vedo la patria, qui tutto
quel che resta delle legioni romane, le quali, a meno che vogliano correre
incontro alla morte per difendere se stesse, che cosa possono salvare con
il loro sacrificio? "Le case della città," dirà qualcuno, "le mura e la
gente rimasta a Roma". Ma, per Ercole, è proprio se questo esercito verrà
annientato che tutto ciò andrà perduto e non salvato! Chi, infatti, potrà
difenderlo? Forse la massa imbelle e senz'armi? «Esattamente come le
difese, per Ercole, dagli assalti dei Galli». Ma potrà forse invocare
l'arrivo da Veio di un esercito con Camillo alla testa? Le nostre speranze
e le nostre risorse le abbiamo tutte qui: se le salviamo, salviamo la
patria, se invece le consegniamo alla morte, abbandoniamo la patria al suo
destino. "La resa è però cosa disonorevole e infamante". Ma proprio questo
è vero amor di patria: salvarla, qualora ve ne sia bisogno, a prezzo tanto
del disonore quanto della morte. Vediamo quindi di subire questo marchio
di infamia, per quanto indelebile esso possa essere, e pieghiamoci alla
fatalità, che neppure gli dèi possono superare. Andate, o consoli, e
riscattate con le armi la città che i vostri antenati hanno riscattato con
l'oro».
5 I consoli, essendo venuti a colloquio con Ponzio, mentre il
vincitore voleva stipulare un trattato di pace, replicarono che il
trattato non poteva essere stipulato senza il consenso del popolo, senza i
feziali e il resto del consueto rituale. Per questo la pace di Caudio non
fu stipulata con regolare trattato - come abitualmente si crede e come
anche scrive Claudio -, ma tramite una garanzia personale. Infatti che
bisogno ci sarebbe stato, per un trattato, di garanti e di ostaggi, visto
che in quel caso l'accordo è stipulato dall'invocazione che Giove colpisca
quel popolo venuto meno alle condizioni sancite, così come il maiale viene
colpito dai feziali? Garanti si fecero i consoli, i luogotenenti, i
questori, i tribuni militari, e ci restano i nomi di tutti coloro che
sottoscrissero l'impegno (mentre rimarrebbero solo i nomi dei due feziali,
nel caso fosse stato stipulato un vero e proprio trattato). Inoltre, per
l'inevitabile rinvio del trattato, fu imposta la consegna di 600 cavalieri
in qualità di ostaggi, destinati a pagare con la propria vita se i patti
venivano violati. Fu poi fissato il termine per consegnare gli ostaggi e
per lasciare libero l'esercito disarmato.
Il rientro dei consoli rinnovò il dolore all'interno
dell'accampamento, e i soldati si trattennero a stento dallo scagliarsi
addosso a quanti, per la loro imprudenza, li avevano trascinati in quel
luogo: per la cui ignavia erano adesso costretti a uscirne in maniera
ancora più infamante di come vi erano entrati; non erano ricorsi a una
guida pratica della zona, né avevano effettuato ricognizioni, lasciandosi
spingere alla cieca dentro una fossa come tante bestie selvatiche. Si
guardavano gli uni con gli altri, osservavano le armi che presto avrebbero
dovuto consegnare, le mani destinate a essere disarmate, i corpi soggetti
alla volontà del nemico: avevano già di fronte agli occhi il giogo nemico,
la derisione, gli sguardi arroganti dei vincitori, il passaggio senza armi
in mezzo a uomini armati e ancora la mesta marcia dell'esercito disonorato
attraverso le città alleate, il ritorno dai genitori in patria, là dove
spesso essi stessi e i loro antenati erano rientrati in trionfo. Solo loro
erano stati sconfitti senza subire ferite, senza armi, senza combattere; a
loro non era stato concesso né di sguainare le spade né di scontrarsi in
battaglia col nemico; a loro era stato infuso invano il coraggio.
Mentre mormoravano queste cose, arrivò l'ora fatale dell'ignominia,
destinata a rendere tutto, alla prova dei fatti, ancora più doloroso di
quanto non avessero immaginato. In un primo tempo ricevettero disposizione
di uscire dalla trincea senza armi, con addosso un'unica veste. I primi a
essere consegnati e incarcerati furono gli ostaggi. Poi fu ingiunto ai
littori di scostarsi dai consoli, cui fu invece tolta la mantella da
generali: spettacolo questo che suscitò così grande compassione anche tra
quanti poco prima si erano scagliati contro i consoli proponendo di
consegnarli al nemico e di farli a pezzi, che ciascuno dei presenti,
dimentico della propria sorte, distolse lo sguardo da quella profanazione
di una simile autorità, come dalla vista di qualcosa di abominevole.
6 I consoli furono i primi a esser fatti passare seminudi sotto il
giogo; poi, in ordine di grado, tutti gli ufficiali vennero esposti
all'infamia, e alla fine le singole legioni una dopo l'altra. I nemici
stavano intorno con le armi in pugno, lanciando insulti e dileggiando i
Romani. Molti vennero minacciati con le spade, e alcuni furono anche
feriti e uccisi, se l'espressione troppo risentita dei loro volti a causa
di quell'oltraggio offendeva il vincitore.
Così furono fatti passare sotto il giogo, e - cosa questa quasi ancora
più penosa - proprio sotto gli occhi dei nemici. Una volta usciti dalla
gola, pur sembrando loro di vedere per la prima volta la luce come se
fossero emersi dagli inferi, ciò non ostante la luce in sé e per sé fu più
dolorosa di ogni tipo di morte, al vedere una schiera ridotta in quello
stato. E così, anche se avrebbero potuto raggiungere Capua prima di notte,
dubitando dell'affidabilità degli alleati e trattenuti dalla vergogna,
lungo la strada che porta alla città abbandonarono a terra i loro corpi
ormai bisognosi di tutto. Quando a Capua arrivò la notizia del vergognoso
episodio, l'arroganza congenita dei Campani venne meno di fronte alla
naturale compassione nei confronti degli alleati. Inviarono immediatamente
ai consoli le insegne della loro carica; ai soldati offrirono invece armi,
cavalli, vestiti e cibo, e al loro arrivo si fecero loro incontro tutto il
senato e il popolo, adempiendo così a ogni tipo di obbligo formale in
materia di ospitalità pubblica e privata. Ma né l'umanità degli alleati né
la benevolenza dei volti poterono strappare una parola ai Romani, che
nemmeno sollevavano gli occhi da terra per rivolgere uno sguardo agli
amici che si sforzavano di consolarli. A tal punto la vergogna, ancor più
dell'amarezza, li spingeva a evitare la conversazione e la compagnia degli
esseri umani.
Il giorno dopo alcuni giovani esponenti della nobiltà vennero inviati
col cómpito di scortare fino al confine della Campania quelli che stavano
partendo; al rientro, convocati in senato, rispondendo alle domande degli
anziani, riferirono che i Romani avevano dato l'impressione di essere
ancora più avviliti e mesti, tanto silenziosamente camminavano, come
fossero diventati muti. Il fiero carattere romano era prostrato, e insieme
alle armi aveva perso anche il coraggio. Nessuno aveva avuto la forza di
ricambiare il saluto, di rispondere, di aprir bocca per lo sgomento, come
se portassero ancora al collo il giogo sotto il quale erano stati fatti
passare. La vittoria ottenuta dai Sanniti non era stata soltanto
clamorosa, ma anche duratura nel tempo, perché avevano privato il nemico
non tanto di Roma (come in passato i Galli), quanto piuttosto della virtù
e dell'orgoglio romano, e questo dimostrava ancor di più il loro
valore.
7 Mentre si dicevano e si sentivano queste cose, e nell'assemblea
dei fedeli alleati la potenza romana veniva quasi pianta come se fosse
stata annientata, pare che Aulo Calavio, figlio di Ovio, uomo famoso per
nascita e per gesta compiute, e in quel periodo reso ancora più
rispettabile dall'età, avesse sostenuto che le cose stavano in tutt'altra
maniera: quel silenzio ostinato, gli occhi fissi a terra, le orecchie
sorde a ogni tipo di conforto e l'imbarazzo di dover guardare la luce
erano i segnali di un animo che nell'intimo covava un'enorme rabbia. Se
non conosceva male il carattere dei Romani, di lì a poco quel silenzio
avrebbe suscitato tra i Sanniti grida piene di gemiti e dolore, e il
ricordo della pace di Caudio sarrebbe stato molto più pesante per i
Sanniti che per i Romani. Perché dovunque si fossero scontrati nei giorni
a venire, ognuno di essi avrebbe avuto la grinta di sempre, mentre per i
Sanniti non ci sarebbero state dappertutto le Forche Caudine.
La notizia della grave disfatta era già arrivata anche a Roma. In un
primo tempo si era venuti a sapere che erano stati circondati. Poi, ben
più doloroso di quello relativo al pericolo corso, era arrivato l'annuncio
della vergognosa pace. Alla notizia dell'accerchiamento, erano state
avviate le pratiche della leva militare. Quando però si venne a sapere che
era stata stipulata una pace tanto infamante, venne interrotto
l'allestimento di rinforzi. E sùbito, senza aspettare alcuna decisione
ufficiale, il popolo tutto si era abbandonato a ogni forma di lutto. I
negozi intorno al foro vennero chiusi, sospesi spontaneamente i pubblici
affari prima ancora che arrivasse l'ordine relativo. Vennero deposte le
toghe orlate di porpora e gli anelli d'oro. I cittadini erano quasi più
addolorati dello stesso esercito; il loro risentimento non toccava
soltanto i comandanti e i responsabili e garanti della pace, ma anche gli
innocenti soldati: sostenevano che non li si dovesse accogliere in città
né all'interno delle case. Il rancore venne però piegato dall'arrivo
dell'esercito, che suscitò compassione anche negli animi più esacerbati.
Entrati infatti in città a tarda sera, non come uomini che tornavano sani
e salvi in patria contro ogni speranza, ma con l'aspetto e l'espressione
di prigionieri, si rinchiusero nelle loro case e nessuno di essi volle
vedere il foro o la pubblica via, né l'indomani né i giorni successivi. I
consoli, nascosti nelle loro abitazioni, non compirono alcun gesto
pertinente alla carica, tranne quanto prescritto da un decreto del senato,
e cioè la nomina di un dittatore cui far presiedere le elezioni. La scelta
cadde su Quinto Fabio Ambusto, mentre maestro di cavalleria venne eletto
Publio Elio Peto. Ma essendosi verificata una qualche irregolarità in
questa nomina, i due vennero rimpiazzati dal dittatore Marco Emilio Papo e
dal maestro di cavalleria Lucio Valerio Flacco. Neppure questi, tuttavia,
riuscirono a presiedere le elezioni, e siccome il popolo si dimostrava
insofferente nei confronti di tutti i magistrati di quell'anno, si ebbe un
interregno. Interré furono Quinto Fabio Massimo e Marco Valerio Corvo, il
quale proclamò consoli Quinto Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore per
la seconda volta, che vennero eletti all'unanimità dalla cittadinanza
perché erano i generali più in vista del periodo.
8 Essi entrarono in carica lo stesso giorno in cui erano stati
eletti (questa la decisione del senato) e, dopo aver portato a compimento
i decreti ordinari del senato, misero all'ordine del giorno il dibattito
sulla pace di Caudio. Publilio, cui quel giorno toccava il potere, disse:
«Parla, o Spurio Postumio». Questi si alzò in piedi e, con la stessa
espressione con la quale era andato sotto il giogo, disse: «Non ignoro, o
consoli, di esser stato chiamato e invitato a parlare per primo non in
segno di onore ma a titolo di infamia, e non certo in qualità di senatore,
ma come responsabile di una guerra sventurata e di una pace infamante.
Tuttavia, dato che non avete messo all'ordine del giorno la discussione
relativa alla nostra colpevolezza e neppure alla pena da infliggerci,
tralasciando di difendermi (cosa che non sarebbe troppo difficile di
fronte a uomini non certo ignari dei casi e delle vicissitudini umane),
esprimerò in poche parole la mia opinione sulla questione da voi posta
all'ordine del giorno. E sarà la mia opinione a testimoniare se io abbia
voluto salvare me stesso o piuttosto le vostre legioni, quando mi sono
impegnato dando una garanzia tanto ignominiosa quanto necessaria. Nei
confronti di questa il popolo romano non ha alcun tipo di vincolo, poiché
essa è stata offerta senza il suo consenso, e in virtù di essa ai Sanniti
non è dovuto nulla se non le nostre persone. Consegnateci nudi e legati
tramite i feziali: liberiamo dall'obbligo religioso il popolo, se lo
abbiamo vincolato in qualche modo, affinché non vi sia alcuno scrupolo
divino o umano che impedisca di ricominciare da capo una guerra giusta e
sacrosanta. Propongo che nel frattempo i consoli arruolino un nuovo
esercito, lo armino e lo guidino fuori dalla città, senza entrare però in
territorio nemico prima che siano state messe in pratica tutte le
operazioni necessarie per la nostra consegna. Io invoco e supplico voi, o
dèi immortali: se non avete voluto che i consoli Spurio Postumio e Tito
Veturio conducessero con successo la guerra contro i Sanniti, almeno
accontentatevi di averci visti andare sotto il giogo, di averci visti
vincolati da una promessa umiliante, consegnati nudi e legati al nemico,
pronti a ricevere sui nostri corpi tutta l'ira dei nemici. Fate sì che i
nuovi consoli e le legioni romane combattano la guerra contro i Sanniti
nello stesso modo in cui sono state combattute tutte le guerre precedenti
al nostro consolato».
Non appena ebbe pronunciato queste parole, i presenti furono presi,
insieme, da una tale ammirazione e compassione verso quell'uomo, che da
una parte stentavano a convincersi che egli fosse quello stesso Spurio
Postumio che aveva firmato una pace tanto vergognosa, e dall'altra
provavano pena al pensiero che una simile personalità dovesse sopportare
il più crudele supplizio da parte dei nemici risentiti per la rottura
della pace. Mentre l'intera assemblea non aveva che parole di elogio per
quell'eroe e ne approvava la proposta, tentarono per qualche tempo di
porre il proprio veto i tribuni della plebe Lucio Livio e Quinto Melio, i
quali sostenevano che la consegna dei due ex consoli non poteva liberare
il popolo dall'obbligo religioso, a meno che ai Sanniti non venisse
restituita ogni cosa nello stato in cui si trovava a Caudio. Aggiungevano
di non meritare alcuna pena per il fatto di aver salvato l'esercito del
popolo romano offrendo le proprie persone come garanzia alla pace, e
infine di non poter essere consegnati ai nemici né sottoposti a violenza,
vista la loro caratteristica di inviolabilità.
9 Allora Postumio disse: «Intanto cominciate col restituire noi che
non siamo sacri, ciò che potete fare, senza violare i principi della
religione. Poi consegnerete anche costoro che sono inviolabili, non appena
avranno esaurito il loro mandato. Se però mi ascoltate, prima di
restituirli, fateli bastonare qui nell'assemblea, in modo tale che paghino
l'interesse dovuto per il ritardo con cui viene loro inflitta la pena.
Perché la loro tesi - e cioè che con la nostra consegna il popolo non sarà
liberato dai vincoli della religione - essi la sostengono più per non
essere consegnati che per la reale situazione in atto: chi infatti ha così
poca esperienza in materia di diritto feziale, da non rendersene conto? Io
non voglio negare, o senatori, che tanto le garanzie quanto i trattati
sono ritenuti sacri da chi rispetta la parola come un sacro vincolo
religioso. Nego però che senza l'autorizzazione del popolo sia possibile
sancire alcun atto che vincoli il popolo stesso. Ma se i Sanniti ci
avessero costretti a pronunciare la formula di rito per la consegna della
città con la stessa violenza con la quale ci hanno estorto questa
promessa, voi, o tribuni, direste che il popolo romano si è rimesso nelle
mani dei nemici e che questa città, i templi, i santuari, i campi e le
acque sono di proprietà dei Sanniti? Lasciamo pure da parte la questione
della resa, visto che si tratta di una garanzia personale: ma che dire se
avessimo garantito che il popolo romano avrebbe abbandonato questa città?
Che l'avrebbe incendiata? Che non avrebbe più goduto di magistrati, di un
senato e di leggi? Che si sarebbe piegata a una monarchia? "Che gli dèi
tengano lontano da noi cose di quel genere", direte voi. Eppure non è
l'enormità delle condizioni poste che può eliminare il vincolo della
garanzia: se esiste qualcosa cui un popolo può essere vincolato, allora lo
sarà per qualunque cosa. Ma nemmeno questo argomento - che forse potrebbe
toccare la sensibilità di qualcuno - ha un qualche peso: e cioè che a
offrire la garanzia sia stato un console, un dittatore oppure un pretore.
Anche i Sanniti hanno giudicato in questo modo, visto che non si sono
accontentati dell'idea che a fare da garanti fossero solo i consoli, ma
hanno costretto a prestare garanzia anche i luogotenenti, i questori e i
tribuni militari.
Che adesso nessuno mi venga a chiedere perché ho offerto questa
garanzia, visto che la cosa non rientrava nelle competenze del console, né
io potevo garantire ai nemici una pace che non dipendesse dalla mia
volontà, e tanto meno a nome vostro, siccome non mi avevate affidato alcun
tipo di incarico. A Caudio nulla è dipeso dalle decisioni degli uomini:
sono stati gli dèi a privare del senno i vostri generali e quelli del
nemico. Se noi non ci siamo cautelati a dovere in quella guerra, loro
invece hanno sperperato in malo modo una vittoria ottenuta malamente, ora
fidandosi poco del luogo grazie al quale avevano avuto la meglio, ora
lasciandosi prendere dalla fretta di disarmare a qualunque costo degli
uomini nati per le armi. Ma se fossero stati assennati, sarebbe forse
stato difficile per loro - mentre convocavano dalla patria gli anziani per
averne un parere - inviare ambasciatori a Roma e trattare della pace e
delle relative condizioni col senato e col popolo? A inviati veloci
sarebbero bastati tre giorni di marcia, mentre nel frattempo si sarebbe
potuta fissare una tregua, nell'attesa che rientrassero da Roma gli
ambasciatori ad annunciare la vittoria sicura o la pace. Questa sì che
sarebbe stata una garanzia, quella che noi avessimo garantito su mandato
del popolo. Ma una pace così né voi l'avreste accettata, né noi l'avremmo
garantita, ed è stato per volere del cielo che le cose non sono andate
diversamente: e cioè che i Sanniti si lasciassero ingannare da un sogno
troppo bello perché le loro menti arrivassero a rendersene conto, che il
nostro esercito venisse salvato da quella stessa sorte che prima l'aveva
avversato, che una vittoria vana fosse vanificata da una pace ancora più
vana, e che venisse offerta una garanzia che non vincolava nessuno tranne
chi se n'era fatto garante. E infatti, o senatori, cos'è stato trattato
con voi, cosa col popolo romano? Chi può chiamarvi in causa, chi può
sostenere di essere stato ingannato da voi? I nemici o i concittadini? Ai
nemici non avete garantito nulla, né avete ordinato ad alcun cittadino di
offrire una garanzia a nome vostro. Per questo non avete alcun tipo di
obbligo né verso di noi, cui non avete ordinato nulla, né verso i Sanniti,
con i quali non avete trattato nulla. Di fronte ai Sanniti i garanti siamo
noi, responsabili e nella posizione di poter offrire soddisfazione per
quel che siamo in grado di offrire, ovvero i nostri corpi e le nostre
menti: è contro di questi che devono infierire, contro di questi che
devono rivolgere le loro spade e la loro rabbia. Per quel che poi concerne
i tribuni, stabilite voi se la loro consegna si possa effettuare sùbito, o
la si debba differire ad altra data. Nel frattempo noi, o Tito Veturio e
voi altri, offriamo queste nostre povere persone come soddisfazione della
garanzia data, e liberiamo le armi romane con la pena inflittaci».
10 A convincere i senatori furono sia la validità degli argomenti
portati, sia l'autorevolezza della persona in questione. E non soltanto si
persuasero tutti gli altri, ma anche i tribuni, al punto di dichiararsi
disposti ad assecondare l'autorità del senato. Perciò rinunciarono
immediatamente alla carica e vennero affidati ai feziali insieme agli
altri per essere condotti a Caudio. Una volta presa questa decisione da
parte del senato, sembrò che su Roma risplendesse una nuova luce. Postumio
era sulla bocca di tutti: lo innalzavano al cielo a forza di elogi, mentre
il suo gesto veniva paragonato al sacrificio del console Publio Decio e ad
altre imprese di vaglio: la gente sosteneva che Roma si era sottratta a
una pace umiliante grazie al suo acume e al suo operato. Si offriva
spontaneamente alle vessazioni e al risentimento dei nemici, immolandosi
come capro espiatorio per il popolo romano. Tutti pensavano solo alle armi
e alla guerra: non sarebbe quindi mai arrivata l'occasione di affrontare i
Sanniti con le armi in pugno?
Nella città infiammata dalla rabbia e dal risentimento venne arruolato
un esercito composto quasi esclusivamente di volontari. Con gli stessi
effettivi di prima vennero messe insieme nuove legioni, e l'esercito fu
condotto nei pressi di Caudio. I feziali vennero mandati avanti: una volta
arrivati alle porte, ordinarono che i garanti della pace venissero
spogliati e che fossero loro legate le mani dietro la schiena. Dato che un
attendente, per il rispetto nei confronti del prestigio di Postumio, lo
legava in maniera troppo fiacca, questi disse: «Che aspetti a stringere la
corda, così che la consegna sia regolare?». Quando poi giunsero di fronte
alla folla dei Sanniti e alla tribuna di Ponzio, il feziale Aulo Cornelio
Arvina pronunciò queste parole: «Siccome questi uomini hanno garantito la
conclusione di un trattato pur non avendo l'autorizzazione del popolo
romano dei Quiriti, e proprio per questo si sono macchiati di una colpa,
di conseguenza, perché il popolo romano sia libero da una colpa
scellerata, io vi consegno questi uomini». Mentre il feziale pronunciava
queste parole, Postumio col ginocchio gli colpì la gamba il più forte
possibile, e ad alta voce gridò di essere cittadino sannita e di aver
offeso quell'ambasciatore feziale contro il diritto delle genti: per
questo i Romani avrebbero avuto un più giusto motivo per fare guerra.
11 Allora Ponzio disse: «Né io accetterò questa consegna, né i
Sanniti la riterranno valida. Perché tu, Spurio Postumio, se credi che gli
dèi esistano, non consideri nullo l'intero accordo, oppure non ti attieni
ai patti? Al popolo sannita vanno consegnati quelli che sono stati in suo
potere, o al posto loro va riconosciuta la pace. Ma perché dovrei
rivolgermi a te, che ti consegni nelle mani del vincitore, mantenendo, per
quel che è in tuo potere, la parola data? È al popolo romano che mi
appello: se è pentito della promessa fatta alle Forche Caudine, allora
deve riconsegnarci le legioni all'interno della gola dove sono state
accerchiate. Che nessuno abbia ingannato nessuno: che ogni cosa sia
considerata come non avvenuta; riprendano le armi consegnate a norma dei
patti, e si tengano tutto quello che avevano prima di avviare le
consultazioni: e allora decidano pure per la guerra e per le maniere
forti, e allora soltanto ripudino la garanzia e la pace. Noi la guerra la
facciamo attenendoci a quelle condizioni e attestandoci in quelle
posizioni nelle quali ci trovavamo prima di affrontare l'argomento della
pace; il popolo romano non si metta quindi a criticare la garanzia data
dai consoli, e noi evitiamo di lamentarci della mancanza di lealtà
dimostrata dal popolo romano. Potrà mai mancarvi un pretesto per non
attenervi ai patti dopo una sconfitta? Avete consegnato degli ostaggi a
Porsenna, e ve li siete ripresi con l'inganno. Roma l'avete riscattata dai
Galli a peso d'oro, per poi massacrarli mentre ricevevano l'oro. Con noi
avete concordato la pace affinché vi restituissimo le legioni cadute
prigioniere, e adesso quella pace la ritenete priva di valore. E rivestite
sempre l'inganno con un velo di apparente legalità. Al popolo romano non
sta bene che l'esercito si sia salvato grazie a una pace infamante? Ma che
allora si tenga la pace e restituisca al vincitore le legioni che avevamo
catturato: questo sì che sarebbe in accordo con la lealtà, con i patti e
coi riti sacri dei feziali. Ma che tu ottenga quanto hai chiesto nei patti
- ovvero la salvezza di tanti cittadini -, e che io non abbia invece
quella pace che ho concordato in cambio del rilascio di questi uomini,
tutto questo tu, o Aulo Cornelio, e voi, o feziali, lo ritenete conforme
al diritto delle genti?
Io non accetto né considero consegnati questi soldati che voi fingete
di consegnare, e non impedisco loro di rientrare nella città vincolata
dall'adempimento della garanzia, lasciando che ad accompagnarli sia la
rabbia degli dèi tutti, della cui divinità vi fate beffe. Dichiarateci
pure guerra, col pretesto che un attimo fa Spurio Postumio ha percosso col
ginocchio un ambasciatore feziale: così gli dèi penseranno che Postumio
sia cittadino sannita e non romano, che l'ambasciatore romano sia stato
offeso da un sannita, e che di conseguenza sia giusta la guerra che ci
avete dichiarato! Possibile che non proviate vergogna a inscenare questa
farsa della religione, che uomini avanti con gli anni, già consoli,
debbano tentare l'inganno con trucchi degni a malapena di bambini?
Littore, procedi: togli le corde ai Romani, che nessuno impedisca loro di
andare dove preferiscono». E così i Romani, liberati probabilmente anche
del vincolo di natura pubblica (visto che dalla promessa personale lo
erano già di certo), rientrarono da Caudio all'accampamento romano senza
che nessuno li sfiorasse.
12 I Sanniti, che al posto di una pace imposta con arroganza
vedevano rinascere una guerra minacciosa, avevano non solo nell'animo ma
quasi di fronte agli occhi il presentimento di quello che poi accadde. Ed
elogiavano tardi e invano entrambi i suggerimenti dell'anziano Ponzio,
perché, caduti com'erano a metà tra l'uno e l'altro, avevano barattato il
possesso della vittoria con una pace priva di garanzie. Perduta così
l'occasione di danneggiare il nemico o di arrecargli un beneficio,
avrebbero dovuto misurarsi con quegli uomini che sarebbe stato loro
possibile eliminare una volta per tutte come nemici o rendersi amici per
sempre. E anche se non c'era ancora stata una battaglia in cui una delle
due parti avesse avuto il sopravvento, dopo la pace di Caudio la
condizione psicologica era così cambiata, che tra i Romani Postumio si era
guadagnato più gloria dall'essersi consegnato ai nemici, di quanta non ne
fosse toccata a Ponzio tra i Sanniti per la vittoria ottenuta senza
spargimento di sangue. Per i Romani era già una vittoria sicura poter fare
la guerra, mentre i Sanniti ritenevano che la ripresa della guerra fosse
per i nemici come aver già avuto la meglio.
Nel frattempo gli abitanti di Satrico passarono dalla parte dei
Sanniti, e la colonia di Fregelle venne occupata dai Sanniti durante la
notte con un'azione a sorpresa (a quanto pare assieme a loro c'erano anche
dei Satricani). Così fu il timore reciproco a mantenere tranquille
entrambe le parti fino all'alba. Il sorgere del giorno segnò l'inizio
dello scontro, sostenuto per parecchio tempo alla pari dagli abitanti di
Fregelle, che combattevano per i propri altari e focolari; anche la
popolazione inerme collaborava, dai tetti delle case. La battaglia venne
poi decisa da un trabocchetto, quando i Sanniti lasciarono risuonare la
voce di un araldo che proclamava l'incolumità per chi avesse deposto le
armi. Questa speranza smorzò negli animi la voglia di combattere, e da
ogni parte iniziarono a gettare a terra le armi. I più ostinati si
aprirono la strada con le armi attraverso la porta di fronte al nemico, e
per loro l'audacia fu più sicura di quanto non fosse stata la paura per
gli altri che si erano incautamente fidati, e che, invocando invano gli
dèi e il rispetto della parola data, vennero avvolti dalle fiamme e
bruciati vivi dai Sanniti.
I consoli si divisero le zone di operazione ricorrendo alla sorte:
Papirio partì per l'Apulia alla volta di Luceria (dove erano imprigionati
i cavalieri romani dati in ostaggio a Caudio), mentre Publio si fermò nel
Sannio per fronteggiare le legioni di Caudio. Questa mossa tenne in
allarme i Sanniti, che non avevano il coraggio di spingersi fino a Luceria
per paura che i nemici li inseguissero alle spalle, né di rimanere lì
fermi, nel timore che Luceria finisse nel frattempo in mano ai Romani.
L'ipotesi più praticabile sembrò quella di tentare la fortuna e di
scontrarsi in campo aperto con Publilio. Per questo schierarono l'esercito
in ordine di battaglia.
13 Quando ormai era sul punto di attaccare battaglia, il console
Publilio, pensando fosse opportuno rivolgere un appello ai suoi uomini,
fece convocare l'assemblea. E tutti accorsero in massa con grande
entusiasmo presso il pretorio, col risultato che il trambusto impedì ai
soldati di sentire le parole del comandante: ciascuno era già esortato
dalla propria coscienza, memore dell'umiliazione subita. E così si
gettarono nella mischia sollecitando i portainsegne e, per non rallentare
il combattimento lanciando prima i giavellotti e poi sguainando le spade,
come avessero ricevuto un ordine in proposito, deposero a terra i
giavellotti, e con le spade in pugno si lanciarono di corsa contro il
nemico. In quella circostanza non ebbe alcuna incidenza la perizia
strategica del comandante nel disporre i manipoli e le truppe di riserva,
perché tutto fece con impeto quasi folle la rabbia dei soldati. Così i
nemici non soltanto furono sbaragliati, ma non avendo il coraggio di porre
fine alla fuga nemmeno all'interno dell'accampamento, si diressero in
disordine verso l'Apulia. Ciò non ostante arrivarono a Luceria con
l'esercito di nuovo inquadrato e compatto. La stessa rabbia che aveva
spinto i Romani in mezzo alle fila nemiche li trascinò anche all'interno
dell'accampamento. Lì ci furono sangue e massacri più ancora che nel pieno
dello scontro, e la maggior parte del bottino andò distrutta in una
mischia rabbiosa.
L'altro esercito alla guida di Papirio era arrivato fino ad Arpi
seguendo la costa, dopo esser stato accolto in maniera pacifica da tutte
le popolazioni incontrate lungo la strada (più per le violenze subite da
parte dei Sanniti e per il risentimento nei loro confronti che per aver
ricevuto un qualche beneficio dal popolo romano). Infatti i Sanniti, da
quel popolo di montanari e contadini che erano, visto che in quel tempo
abitavano in villaggi sui monti, disprezzavano gli abitanti delle pianure
in quanto più molli e, come di solito succede, simili alle terre nelle
quali vivevano. Così molto spesso mettevano a ferro e fuoco le zone della
pianura e quelle lungo la costa. Se questa area fosse rimasta fedele ai
Sanniti, l'esercito romano non sarebbe stato in grado di arrivare ad Arpi,
oppure - impedito di rifornirsi - sarebbe stato messo in ginocchio dalla
mancanza di viveri. Eppure, anche così, una volta partiti da Arpi alla
volta di Luceria, tanto gli assedianti quanto gli assediati furono
afflitti dalla carestia. Ai Romani veniva fornita ogni cosa da Arpi, però
soltanto in quantità molto ridotta: i cavalieri che dalla città portavano
all'accampamento il frumento in sacchetti ai soldati impegnati nei servizi
di guardia e di vigilanza e nei lavori di fortificazione, a volte, quando
si imbattevano nel nemico, erano costretti ad abbandonare i viveri per
combattere. Gli assediati invece, prima che arrivasse l'altro console con
l'esercito vincitore, ricevevano vettovaglie e rinforzi dai monti del
Sannio. Ma l'arrivo di Publilio rese tutto più difficile, perché - dopo
aver lasciato al collega il cómpito di occuparsi dell'assedio ed essendo
libero di girare per le campagne - il console sbarrò tutti gli accessi ai
rifornimenti dei nemici. E così, siccome gli assediati non avevano alcuna
speranza di resistere più a lungo alla fame, i Sanniti accampati presso
Luceria, dopo aver raccolto forze da ogni parte, furono costretti a
scontrarsi in campo aperto con Papirio.
14 In quel momento, mentre i due schieramenti si preparavano allo
scontro, da Taranto arrivarono degli ambasciatori che intimarono a Romani
e Sanniti di rinunciare alla guerra: qualunque delle due parti si fosse
opposta alla cessazione delle ostilità avrebbe dovuto combattere contro i
Tarentini, schierati a fianco dell'altra. Udite le parole degli inviati,
Papirio, fingendo di esserne rimasto turbato, rispose che si sarebbe
consultato con il collega. Dopo averlo fatto convocare, avendo trascorso
con lui tutto il tempo nei preparativi della battaglia e aver passato in
esame con lui una cosa già decisa, diede il segnale di battaglia. Mentre i
consoli erano impegnati nei sacrifici e nei preparativi che di solito
precedono uno scontro campale, gli ambasciatori di Taranto si fecero loro
incontro aspettando una risposta. Papirio replicò con queste parole: «O
Tarentini, l'addetto ai polli ci fa sapere che gli auspici sono
favorevoli. E poi, i sacrifici sono stati propizi. Come potete ben vedere,
ci buttiamo nella mischia sotto la guida degli dèi». Diede così ordine di
avanzare e si mise alla testa delle truppe, biasimando la superficialità
di quelle genti che, incapaci com'erano di governarsi a causa delle
discordie e dei sommovimenti interni, avevano l'ardire di dettare legge
agli altri in materia di guerra e di pace.
Dalla parte opposta i Sanniti, che avevano tralasciato ogni preparativo
bellico - vuoi perché davvero volevano la pace, vuoi perché conveniva loro
il fingerlo per assicurarsi l'appoggio dei Tarentini -, quando videro che
i Romani si erano schierati in tutta fretta pronti a dare battaglia,
urlarono di voler restare agli ordini dei Tarentini e di non avere
intenzione di scendere in campo né di portare le armi al di là della
trincea: anche se raggirati, avrebbero sopportato qualunque tipo di
sciagura, pur di non dare l'impressione di disprezzare le proposte di pace
dei Tarentini. I consoli dissero di accogliere quelle dichiarazioni come
un augurio, e di pregare gli dèi affinché ispirassero ai nemici il
proposito di non difendere nemmeno la trincea. Dopo essersi divisi le
truppe tra di loro, si avvicinano ai dispositivi di difesa del nemico e li
assalgono contemporaneamente da ogni punto: e mentre alcuni riempivano il
fossato e altri sradicavano la trincea fortificata gettandola nel fossato,
poiché non solo il valore innato ma anche il risentimento stimolava gli
animi esacerbati dall'umiliazione, i Romani irruppero all'interno del
campo nemico. Ciascuno ricordava di non avere di fronte a sé né le Forche
né le gole impraticabili di Caudio, dove cioè l'inganno aveva avuto
superbamente la meglio sull'errore, ma solo il valore romano che né la
trincea né il fossato riuscivano a trattenere: massacrarono senza
distinzione chi opponeva resistenza e chi si dava alla fuga, inermi e
armati, schiavi e liberi, bambini e adolescenti, uomini e bestie. E non
sarebbe sopravvissuto nessun essere vivente, se i consoli non avessero
fatto suonare la ritirata, e non avessero spinto via a forza, con ordini
carichi di minacce, gli uomini assetati di sangue. E ai soldati inferociti
per l'interruzione imposta al piacere della vendetta i consoli tennero
immediatamente un discorso, per ricordare loro che essi non erano né
sarebbero stati secondi a nessuno dei soldati quanto a odio nei confronti
dei nemici: anzi, come li avevano guidati in guerra, così li avrebbero
portati a una vendetta senza pietà, se il pensiero dei 600 cavalieri
tenuti in ostaggio a Luceria non avesse frenato la loro animosità, per
paura che i nemici, non avendo più speranze di poter essere perdonati, si
lasciassero trascinare ciecamente a uccidere i prigionieri, scegliendo
così di annientare prima di essere annientati. I soldati salutarono queste
parole con un applauso, soddisfatti che i loro animi impetuosi avessero
trovato un freno, e si dissero pronti ad affrontare qualunque tipo di
sofferenza, pur di evitare che venisse compromessa la salvezza di tanti
nobili giovani romani.
15 Tolta l'assemblea, venne convocato un consiglio per stabilire se
si dovesse aggredire Luceria con tutte le forze, oppure inviare nei
dintorni uno degli eserciti consolari col comandante al fine di sondare le
intenzioni degli Apuli, la cui posizione era ancora incerta. Il console
Publilio, partito per una missione di perlustrazione attraverso l'Apulia,
con una sola spedizione sottomise alcune popolazioni con l'uso della
forza, mentre altre le accolse con patti all'interno della coalizione
romana. Anche per Papirio, che si era fermato ad assediare Luceria,
l'esito degli eventi fu in breve commisurato alle speranze. Infatti, dato
che tutte le strade attraverso le quali arrivavano i rifornimenti dal
Sannio erano bloccate, i Sanniti che erano di guarnigione a Luceria, vinti
dalla fame, inviarono degli ambasciatori al console romano, invitandolo ad
abbandonare l'assedio, una volta riavuti i cavalieri che erano la causa
del conflitto. Papirio rispose loro che, circa il trattamento da
riservarsi agli sconfitti, avrebbero dovuto andare a consultarsi con
Ponzio figlio di Erennio, l'uomo che li aveva convinti a far passare i
Romani sotto il giogo. Ma visto che preferivano farsi imporre delle
condizioni giuste dai nemici piuttosto che proporne essi stessi, ordinò di
comunicare a Luceria che venissero lasciati all'interno delle mura le
armi, i bagagli, le bestie da trasporto e l'intera popolazione civile.
Quanto ai soldati, li avrebbe fatti passare sotto il giogo con un solo
indumento addosso, più per vendicare l'umiliazione subita che per
infliggerne una nuova. Non venne respinta alcuna delle condizioni. A
passare sotto il giogo furono in 7.000 soldati, mentre a Luceria venne
rastrellato un ingente bottino. Tutte le insegne e le armi perdute a
Caudio vennero riprese , e - gioia questa superiore a ogni altra - furono
recuperati i cavalieri consegnati dai Sanniti affinché venissero custoditi
a Luceria come pegno di pace. Con quell'improvviso ribaltamento di fatti,
nessuna vittoria del popolo romano fu più splendida, e ancor di più se poi
è vero quanto ho trovato presso alcuni annalisti, e cioè che Ponzio figlio
di Erennio, comandante in capo dei Sanniti, venne fatto passare sotto il
giogo insieme agli altri, affinché espiasse l'umiliazione inflitta ai
consoli.
Il fatto che non sia certo se anche il comandante nemico sia stato
consegnato e fatto passare sotto il giogo non mi sorprende troppo: è molto
strano invece che persistano incertezze se quella campagna a Caudio e
quindi a Luceria l'abbia condotta il dittatore Lucio Cornelio con Lucio
Papirio Cursore in qualità di maestro di cavalleria, e Lucio Cornelio
abbia trionfato, unico vendicatore dell'ignominia inflitta ai Romani, con
il trionfo che ritengo probabilmente il più giusto fino a quei giorni dai
tempi di Furio Camillo, oppure se quell'onore sia da ascrivere ai consoli
e in particolare a Papirio. Ma a questo dubbio ne tiene dietro un altro:
se cioè nelle successive elezioni sia stato eletto console per la terza
volta Papirio Cursore (insieme a Quinto Aulo Cerretano console per la
seconda volta), a séguito di un rinnovamento della carica per la vittoria
ottenuta a Luceria, oppure Lucio Papirio Mugillano, e l'errore si sia
verificato nella trascrizione del nome.
16 In séguito ci si trovò d'accordo nell'affermare che le restanti
operazioni belliche erano state portate a compimento dai consoli. Con la
vittoria in un'unica battaglia, Aulo pose fine alla guerra coi Ferentani e
accettò la resa della loro città, dove era andato a rifugiarsi l'esercito
sbaragliato, imponendo la consegna di ostaggi. Stessa sorte ebbe la
campagna condotta dall'altro console contro i Satricani, i quali, non
ostante fossero cittadini romani, dopo la disfatta di Caudio erano passati
dalla parte dei Sanniti, e ne avevano accolto un presidio armato in città.
Quando l'esercito arrivò nei pressi delle mura di Satrico, dalla città
arrivarono degli ambasciatori con supplichevoli richieste di pace. Il
console però rispose con durezza che non tornassero da lui se non dopo
aver fatto a pezzi o consegnato il presidio dei Sanniti. Queste parole
spaventarono i coloni più di un attacco armato. Perciò gli ambasciatori
tornarono immediatamente dal console per chiedergli in che modo ritenesse
che loro, deboli e sparuti com'erano, avrebbero potuto sopraffare un
presidio tanto forte e armato. Allora il console ingiunse loro di andare a
farsi consigliare da quelle stesse persone che li avevano spinti ad
accettare il presidio in città. Poi, dopo aver a malapena ottenuto di
poter consultare il senato sulla questione e quindi di riferire la
risposta al console, si congedarono rientrando in città. All'interno del
senato c'erano due opposte fazioni: alla testa di una di esse c'erano
quanti avevano suggerito la defezione da Roma, a capo dell'altra c'erano
invece i cittadini rimasti fedeli. Ciò non ostante, pur di tornare alla
pace, entrambi gli schieramenti fecero a gara nel dimostrarsi premurosi
verso il console. Siccome il presidio sannita aveva intenzione di uscire
nel corso della notte successiva (non essendo in grado di sostenere un
assedio), una delle due fazioni non fece altro che informare il console a
quale ora della notte e per quale porta e strada il nemico sarebbe uscito.
L'altro partito invece - quello che si era opposto alla defezione dalla
parte dei Sanniti -, nel corso della stessa notte aprì le porte al console
e, senza farsi accorgere dal nemico, accolse in città i soldati romani.
Così, grazie a questo doppio tradimento, il presidio armato dei Sanniti fu
sorpreso e sopraffatto dai Romani che si erano andati ad appostare in una
fitta macchia lungo la strada, mentre in città si alzò alto il grido dei
soldati che vi erano penetrati. Nell'arco di un'ora i Sanniti furono
sbaragliati e Satrico occupata, e ogni cosa finì in potere del console:
istruita un'inchiesta sulle responsabilità dell'ammutinamento, fece
frustare e decapitare quanti vennero riconosciuti colpevoli e, dopo aver
imposto una forte guarnigione armata in città, fece disarmare i
Sanniti.
Gli autori che sostengono che Luceria venne riconquistata e i Sanniti
fatti passare sotto il giogo da Papirio Cursore, riportano che dopo quei
fatti Papirio rientrò a Roma per celebrarvi il trionfo. Papirio fu uomo
degno di ogni elogio sul piano militare, eccezionale non solo per la
tempra interiore, ma anche per la prestanza fisica. Era straordinariamente
veloce di gambe, qualità questa che gli valse il soprannome di Cursore, e
si dice che ai suoi tempi nessuno riuscisse a superarlo nella corsa, sia
per la grande forza fisica, sia per il notevole allenamento. Oltre a
questa caratteristica, era un mangiatore e un bevitore formidabile.
Durante il suo mandato, tanto per i fanti quanto per i cavalieri il
servizio militare era duro come non lo era mai stato agli ordini di nessun
altro, visto che egli stesso aveva un fisico contro il quale nulla poteva
la fatica: ad alcuni cavalieri che un giorno avevano avuto il coraggio di
chiedergli l'esenzione da un servizio come ricompensa a un'azione ben
condotta, rispose: «Perché non possiate dire che non vi abbia esentati da
alcunché, vi esimo dall'accarezzare il dorso dei cavalli quando scenderete
di sella». Il suo prestigio era grandissimo sia presso gli alleati sia
presso i concittadini. Una volta il comandante del contingente di Preneste
aveva per paura tardato a portare i suoi uomini dalle retrovie alla prima
linea: il console, passeggiando di fronte alla sua tenda, lo fece chiamare
fuori e poi diede ordine al littore di slegare la scure. Siccome il
prenestino, sentendo queste parole, era mezzo morto dallo spavento,
Papirio disse: «Avanti, o littore, taglia questa radice che dà fastidio a
chi passeggia», e quindi lasciò libero l'ufficiale alleato che era in
preda al panico per paura di una condanna a morte, non andando al di là
dell'imposizione di un'ammenda in denaro. E senza dubbio in quel periodo,
che fu ricco di valori più di ogni altro, non c'era nessun altro uomo su
cui la potenza di Roma potesse poggiare in maniera più sicura. Alcuni
sostengono addirittura che Papirio sarebbe stato un generale degno di
tenere testa ad Alessandro Magno, se solo quest'ultimo, una volta
sottomessa l'Asia, avesse rivolto i suoi eserciti contro l'Europa.
17 Si potrebbe rilevare che sin dall'inizio di quest'opera non ho
cercato di evitare niente con tanta attenzione quanto il discostarmi da
una trattazione ordinata degli eventi, e il cercare motivi di piacevole
svago per i lettori e un po' di riposo per la mia mente infarcendo questa
ricerca storica con amene digressioni. Ciò non ostante, l'aver menzionato
un re e un generale tanto grande, mi riporta a considerazioni che tante
volte ho fatto tra me e me, e non mi spiace ora valutare quale sarebbe
stata la sorte della potenza romana se si fosse scontrata con
Alessandro.
In guerra gli elementi che sembrano avere maggior peso sono il numero
degli effettivi e il loro valore, il talento dei generali, e la sorte, il
cui potere è grandissimo nelle cose degli uomini, e soprattutto nelle
guerre. Esaminando questi fattori - presi sia uno per uno sia nella loro
globalità -, emerge con evidente chiarezza che Roma, come non fu
sottomessa da altri re e da altri popoli, allo stesso modo non lo sarebbe
stata nemmeno da questo monarca. Innanzitutto, partendo da un confronto
tra i due generali, non posso certo negare che Alessandro sia stato un
grande condottiero. Ma la sua gloria è ulteriormente accresciuta dal fatto
di essere stato da solo al comando, e di essere morto giovane, nel momento
culminante della sua potenza, senza aver ancora sperimentato i rovesci del
destino. Tralasciando altri celebri sovrani e generali (illustri esempi
dei casi umani), che cosa fece sì che fossero in balia della sorte Ciro,
tanto celebrato dai Greci, e di recente Pompeo Magno se non la loro lunga
vita? Dovrei elencare i generali romani (e non tutti quelli di ogni
epoca), ma soltanto quelli, dittatori o consoli, contro i quali avrebbe
potuto combattere Alessandro, e cioè Marco Valerio Corvo, Gaio Marcio
Rutilo, Gaio Sulpicio, Tito Manlio Torquato, Quinto Publilio Filone, Lucio
Papirio Cursore, Quinto Fabio Massimo, i due Deci, Lucio Volumnio, Manio
Curio? A questi uomini ne seguirebbero altri famosi, se solo Alessandro
avesse anteposto la guerra contro Cartagine a quella contro Roma, e fosse
passato in Italia una volta raggiunta un'età più avanzata. Ciascuno di
questi uomini era naturalmente dotato di coraggio e di capacità pari ad
Alessandro, inoltre tutti avevano una competenza militare trasmessa di
mano in mano fin dalle origini di Roma, e giunta a essere una scienza
regolata da norme fisse. Così i re avevano combattuto le loro guerre, e
così quelli che li avevano cacciati, i Giunii e i Valerii, così in séguito
i Fabii, i Quinzi e i Cornelii, così Furio Camillo, che era già avanti
negli anni agli occhi di quegli uomini che, nel pieno della loro
giovinezza, avrebbero avuto in sorte il cómpito di affrontare
Alessandro.
Per quel che concerne le capacità dimostrate da Alessandro
nell'affrontare il combattimento (caratteristica questa che accresce ancor
di più il suo prestigio), se mai avessero dovuto affrontarlo in duello,
avrebbero di conseguenza avuto la peggio Manlio Torquato o Valerio Corvo,
famosi prima ancora come guerrieri che come generali, avrebbero avuto la
peggio i Deci che, avendo offerto in voto i propri corpi, si lanciarono
nel fitto delle file nemiche, avrebbe avuto la peggio Papirio Cursore,
forte nel fisico e nello spirito com'era? Per non fare i nomi a uno a uno,
la saggezza di un solo giovane avrebbe piegato quel senato la cui essenza
fu colta dall'uomo che lo definì composto di re? Questa è la sola cosa che
si sarebbe dovuta temere: cioè che Alessandro fosse in grado di scegliere,
con maggiore accortezza di uno qualsiasi dei personaggi sopramenzionati,
il punto in cui piazzare il campo, come preparare i rifornimenti, come
evitare gli agguati, come scegliere il momento opportuno per attaccare
battaglia, come schierare le truppe e come consolidarne la struttura con
gli uomini di riserva! Avrebbe detto di non aver più a che fare con Dario
che, trascinandosi dietro un esercito fatto di donne e di enuchi,
appesantito dall'oro e dalla porpora (segni tangibili della sua
condizione), più vicino allo stato di preda che non a quello di nemico,
era stato vinto senza spargimento di sangue, e senza che Alessandro avesse
alcun altro merito se non il coraggio di trattare con disprezzo tutta
quella vana ostentazione. L'Italia gli avrebbe fatto un'impressione del
tutto diversa dall'India, attraverso la quale avanzò tra una crapula e
l'altra con un esercito di avvinazzati, non appena avesse visto i passi
dell'Apulia e le montagne della Lucania e le tracce della recente disfatta
subita in famiglia, nel punto in cui poco tempo prima aveva trovato la
morte lo zio materno, Alessandro re dell'Epiro.
18 E stiamo parlando di un Alessandro non ancora sommerso
dall'eccesso di fortuna, che mai nessuno seppe reggere in maniera meno
decisa di lui. Se poi ci mettiamo a giudicarlo per il comportamento tenuto
nella nuova sorte e per il nuovo modo di essere di cui, per così dire, si
rivestì dopo aver trionfato, se ne può dedurre che in Italia sarebbe
arrivato più simile a Dario che ad Alessandro, trascinando un esercito che
ormai non aveva più memoria della Macedonia ed era precipitato nella
degenerazione morale dei Persiani. Dispiace dover menzionare in un sovrano
tanto grande l'arrogante trasformazione di costumi e modi di vita e la
volontà di farsi adulare dai sudditi in ginocchio (cosa questa difficile
da tollerare per dei vinti, figurarsi poi per i Macedoni reduci da tanti
trionfi), le vergognose condanne a morte e le uccisioni di amici nel pieno
della sbronza durante i banchetti, e il vezzo di attribuirsi falsi alberi
genealogici. E cosa dire poi della passione per il bere che giorno dopo
giorno cresceva sempre di più? E della sua ira truce e cieca (e qui non
sto certo a parlare di cose che siano in dubbio tra gli storici)? Bisogna
forse pensare che tutti questi difetti non danneggino le qualità di un
generale? Il pericolo era proprio questo - come più volte ripetono gli
storici greci meno affidabili, loro che arrivano a esaltare il valore dei
Parti per odio verso Roma -, e cioè che il popolo romano non fosse in
grado di sostenere l'altisonante nome di Alessandro (che in realtà ho
l'impressione non conoscessero neppure per sentito dire), e che l'uomo
contro il quale gli Ateniesi avevano avuto il coraggio di parlare a viso
aperto in assemblea, come risulta dalle orazioni, non ostante si
trovassero in una città piegata dalle armi macedoni, e che proprio in quel
momento vedeva quasi ancora fumare le rovine di Tebe, possibile che
nessuno di tutti quegli illustri uomini politici romani avrebbe osato
attaccarlo verbalmente in piena libertà?
Per quanto grande possa a noi sembrare la statura di quell'uomo, ciò
non ostante la sua sarà pur sempre la grandezza di un unico individuo,
concentrata in poco più di dieci anni di buona sorte. Quanti la esaltano,
sostenendo che il popolo romano, pur non avendo perduto alcuna guerra, è
stato tuttavia vinto in molte battaglie, là dove invece per Alessandro
nessuna battaglia ebbe esito sfortunato, non si rendono conto di
confrontare le imprese di un solo individuo (per di più giovane) con
quelle di un popolo che guerre ne combatte da ormai ottocento anni.
Dovremmo forse stupirci se, essendo da una parte il numero delle
generazioni superiore agli anni dell'altra, ci siano stati più
rivolgimenti del destino in uno spazio di tempo tanto lungo che nell'arco
di tredici anni? Perché mai non mettere a confronto la fortuna di un
individuo con quella di un altro individuo, di un generale con quella di
un altro generale? Quanti comandanti romani potrei menzionare, per i quali
l'esito della battaglia non fu mai sfavorevole? Basta scorrere gli annali
e i fasti dei magistrati per trovare i nomi di consoli e di dittatori
dotati di capacità e con successi ottenuti dei quali il popolo romano non
dovette mai dispiacersi. E, ciò che li rende più apprezzabili di
Alessandro o di qualsiasi altro sovrano, il fatto che alcuni di essi
detennero la dittatura per dieci o venti giorni, e nessuno il consolato
per un periodo più lungo di un anno. I tribuni della plebe ostacolavano
l'esecuzione delle leve militari, ed essi dovevano partire per il fronte
in ritardo, e venivano richiamati prima del mandato per presiedere le
elezioni. L'anno di carica scadeva esattamente nel momento di massimo
sforzo, e spesso l'imprudenza del collega o la sua cattiva disposizione
erano di ostacolo, arrivando a produrre anche danni. Avevano il cómpito di
condurre una campagna avviata malamente da altri, e si ritrovavano con un
esercito di reclute o di soldati privi di disciplina. Invece, per Ercole,
i re non sono soltanto liberi da qualunque condizionamento ma, padroni
degli eventi e del proprio tempo, non vanno dietro passivamente alle cose
che accadono, ma le governano piegandole alle loro idee. Di conseguenza
Alessandro si sarebbe scontrato con dei generali che non avevano
conosciuto la sconfitta, mettendo sulla bilancia le stesse garanzie del
destino. Anzi, avrebbe rischiato di più, per il fatto che i Macedoni
avevano un solo Alessandro, che non era solamente esposto a molteplici
pericoli ma vi si esponeva spontaneamente, mentre tra i Romani erano molti
gli uomini pari ad Alessandro per gloria e imprese, e ciascuno di essi
avrebbe potuto, a seconda del proprio destino, vivere o morire senza
esporre lo Stato ad alcun rischio.
19 Restano da confrontare le forze messe in campo dalle due parti:
il numero e la qualità degli uomini, l'entità dei contingenti ausiliari.
Nei censimenti di quell'epoca i cittadini romani ammontavano a 250.000
unità: di conseguenza, anche nell'eventualità che tutti gli alleati latini
si fossero dissociati in massa, la sola leva dei cittadini romani avrebbe
permesso l'arruolamento di dieci legioni. In quegli anni spesso accadeva
che partissero per il fronte quattro o cinque eserciti per volta, in
Etruria, in Umbria (dove ai nemici si erano aggiunti i Galli), nel Sannio
e in Lucania. In séguito, in tutto il Lazio, con i Sabini, i Volsci, gli
Equi, nell'intera Campania, in parte dell'Umbria e dell'Etruria, tra i
Piceni, i Marsi, i Peligni, i Vestini e gli Apuli, e lungo tutta la costa
tirrenica abitata da Greci, da Turi fino a Napoli e Cuma e di lì fino ad
Anzio e Ostia, Alessandro avrebbe trovato validi alleati oppure nemici già
sconfitti in guerra. Quanto a lui, avrebbe attraversato il mare coi
veterani macedoni (non più di 30.000 uomini) e con 4.000 cavalieri,
provenienti per buona parte dalla Tessaglia. Era infatti questo il meglio
delle sue truppe. Se invece avesse portato con sé anche i Persiani, gli
abitanti dell'India e altre popolazioni, si sarebbe trascinato dietro un
fastidio più che un valido supporto.
Si aggiunga poi a tutto ciò il fatto che i Romani avevano a portata di
mano dei riservisti da richiamare in servizio, mentre Alessandro,
combattendo in territorio nemico, avrebbe subito la stessa sorte toccata
in séguito ad Annibale, cioè il progressivo indebolimento dell'esercito
col passare del tempo. Passiamo, ora, alle armi: i Macedoni avevano il
clipeo e la sarissa (ovvero l'asta); i Romani lo scudo rettangolare, che
proteggeva meglio la figura, e il giavellotto, ovvero un'arma da lancio
capace di colpire con più precisione dell'asta. Erano entrambi, Macedone e
Romano, soldati di posizione, abituati a mantenere il proprio posto nello
schieramento, ma la falange macedone era poco mobile e compatta, mentre la
legione romana risultava più articolata, composta di varie parti e non
aveva difficoltà a doversi eventualmente dividere o ricomporre a seconda
del bisogno. E poi, chi era il soldato che potesse stare alla pari col
Romano nel campo dei lavori di fortificazione? Chi era più adatto a
sopportare le fatiche? Se Alessandro fosse stato sconfitto in un'unica
battaglia, avrebbe perso la guerra: quale armata avrebbe potuto piegare i
Romani, che non erano stati annientati dagli eventi di Caudio o di Canne?
Se avesse riportato delle vittorie anche solo all'inizio, avrebbe
rimpianto le spedizioni contro i Persiani, gli Indiani e l'imbelle Asia, e
avrebbe affermato di aver combattuto fino a quel momento contro delle
femminucce (come pare abbia detto Alessandro re dell'Epiro, ferito a
morte, paragonando i successi nelle guerre combattute dal giovane re con
le sue).
A dir la verità, quando penso che nel corso della prima guerra punica i
Romani combatterono ventiquattro anni di battaglie navali contro i
Cartaginesi, mi sembra che la vita di Alessandro sarebbe bastata a stento
per portare a termine quella sola guerra. E siccome Cartagine era unita a
Roma da un antico trattato di alleanza, è probabile che il timore avrebbe
portato a prendere insieme le armi contro il comune nemico le due città
più potenti per armamenti e per uomini, e Alessandro sarebbe stato
schiacciato dalle forze congiunte dei Cartaginesi e dei Romani. Anche se i
Macedoni non erano più sotto la guida di Alessandro e se la loro forza non
era più integra, i Romani ebbero ciò non ostante l'opportunità di
sperimentare le armi macedoni nei conflitti contro Antioco, Filippo e
Perseo, non solo senza mai subire sconfitte, ma senza mai correre alcun
pericolo. Possano le mie parole non essere fraintese e tacciano le guerre
civili: noi Romani non siamo mai stati messi in difficoltà da nemici a
cavallo o a piedi, in campo aperto, a parità di posizioni, e tanto meno in
zone a noi favorevoli. La nostra fanteria pesante può temere la
cavalleria, le frecce, gli avvallamenti del terreno, i punti dove i
rifornimenti risultino difficili, ma è perfettamente in grado di
respingere - e sempre lo sarà - migliaia di eserciti più imponenti di
quello dei Macedoni e di Alessandro, a patto però che duri per sempre
l'amore per questa pace nella quale adesso viviamo e la preoccupazione per
l'armonia nei rapporti tra i cittadini.
20 Vennero in séguito eletti consoli Marco Folio Flaccina e Lucio
Plauzio Venoce. Nel corso dell'anno numerose popolazioni sannite inviarono
ambasciatori per rinnovare il trattato di alleanza. Riuscirono a
commuovere il senato inginocchiandosi a terra, ma, rinviati al cospetto
del popolo, le loro preghiere non risultarono ugualmente efficaci. Di
conseguenza venne loro negato il rinnovo: dopo essersi sciolti in
suppliche ai singoli cittadini, per diversi giorni, ottennero la
concessione di una tregua biennale. In Apulia anche gli abitanti di Teano
e di Canusio, ridotti allo stremo dalle devastazioni, si arresero al
console Lucio Plauzio, accettando di consegnargli ostaggi. Nello stesso
anno, a Capua, vennero per la prima volta nominati dei prefetti, in base a
norme stabilite dal pretore Lucio Furio - avevano fatto richiesta dell'uno
e dell'altro provvedimento gli abitanti stessi di Capua, per rimediare
alle discordie interne alla città -. A Roma vennero aggiunte due nuove
tribù, la Ufentina e la Falerna.
La situazione in Apulia venne decisa una volta per tutte in favore dei
Romani, e gli Apuli di Teano si presentarono dai nuovi consoli Gaio Giunio
Bubulco e Quinto Emilio Barbula, con la richiesta di un trattato di
alleanza, garantendo al popolo romano il mantenimento della pace
nell'Apulia intera. Dato che offrivano questa coraggiosa garanzia,
ottennero un trattato di alleanza, le cui condizioni non furono però
paritarie, ma contemplavano la sovranità del popolo romano. Sottomessa
l'intera Apulia - Giunio si era infatti impossessato anche di Forento,
città molto ben fortificata -, si proseguì in direzione della Lucania. Lì
l'arrivo improvviso del console Emilio permise di prendere con la forza la
città di Nerulo. Quando tra gli alleati si diffuse la notizia che a Capua
la situazione era tornata alla normalità grazie all'intervento dei Romani,
anche gli abitanti di Anzio, i quali si lamentavano di esser costretti a
governarsi senza leggi sicure e magistrati, ottennero dal senato l'invio
di patroni col cómpito di promulgare leggi per la colonia stessa.
Ormai non erano solo le armi di Roma, ma anche le sue leggi ad affermarsi
in lungo e in largo.
21 Alla fine dell'anno i consoli Gaio Giunio Bubulco e Quinto
Emilio Barbula consegnarono le legioni non nelle mani dei consoli che essi
stessi avevano proclamati eletti, e cioè Spurio Nauzio e Marco Popilio,
bensì al dittatore Lucio Emilio. Quest'ultimo, accintosi insieme al
maestro di cavalleria Lucio Fulvio ad attaccare Saticula, offrì ai Sanniti
un motivo pretestuoso per riaprire le ostilità. Per i Romani ne conseguì
quindi una doppia minaccia: mentre da una parte i Sanniti, dopo aver
raccolto un grosso esercito, si erano andati ad accampare non lontano dai
Romani, nell'intento di liberare gli alleati dall'assedio, dall'altra gli
abitanti di Saticula, aperte all'improvviso le porte, attaccarono
violentemente i posti di guardia nemici. Così l'una e l'altra parte,
confidando più negli aiuti altrui che nelle proprie forze, diedero
immediato inizio alle ostilità e misero in difficoltà i Romani. Ma pur
avendo un impegno su due fronti, il dittatore riusciva a tenere duro da
entrambe le parti, perché aveva scelto una posizione difficile da
accerchiare, e aveva distribuito i suoi manipoli in diverse direzioni. Il
grosso delle forze lo concentrò però contro gli assediati che avevano dato
vita alla sortita, e riuscì a ricacciarli tra le mura dopo una lotta non
priva di durezze. Poi rivolse tutte le sue forze contro i Sanniti. In quel
settore la battaglia fu più accanita. La vittoria arrivò tardi, ma non fu
né incerta né limitata. E i Sanniti, dopo essersi rifugiati in disordine
all'interno dell'accampamento, spenti i fuochi in piena notte, si
ritirarono in silenzio, e, avendo perso ogni speranza di difendere
Saticula, si misero ad assediare Plistica, città alleata dei Romani, per
restituire al nemico un colpo di uguale portata.
22 A fine anno, la guerra fu poi proseguita dal dittatore Quinto
Fabio. I nuovi consoli, così come i loro predecessori, rimasero a Roma.
Fabio arrivò a Saticula con rinforzi per prendere in consegna l'esercito
da Emilio. I Sanniti, infatti, non erano rimasti nei dintorni di Plistica
ma, fatte arrivare dalla patria delle nuove forze e confidando nella loro
superiorità numerica, si erano accampati nella stessa posizione di prima,
e cercavano di distogliere i Romani dall'assedio provocandoli allo
scontro. E il dittatore, rivoltosi con impeto ancora maggiore contro le
mura nemiche, convinto che la vera guerra fosse soltanto quella che aveva
come meta ultima l'espugnazione della città, non dava troppo peso ai
Sanniti, opponendosi alle loro sortite solo con presidi armati a guardia
dell'accampamento, per premunirsi di fronte a un'eventuale incursione
nemica. Per questo i Sanniti cavalcavano tanto più baldanzosi davanti alla
trincea, senza concedersi un attimo di tregua. E poiché il nemico era
ormai quasi alle porte del campo, il maestro di cavalleria Quinto Aulio
Cerretano, senza richiedere il parere del dittatore, utilizzando tutti gli
squadroni di cavalleria, organizzò un'impetuosa sortita e respinse i
Sanniti. In quel frangente, in un combattimento che di solito non vede mai
troppa determinazione, la sorte esercitò il suo potere al punto da mietere
stragi in entrambi gli schieramenti e causare la morte gloriosa dei
comandanti stessi. Il capo dei Sanniti per primo, non accettando
l'eventualità di essere sconfitto e messo in fuga da posizioni occupate
con tanta ostinazione, pregò e incitò i suoi cavalieri a rituffarsi nella
mischia. Contro di lui, che si distingueva tra i suoi nel rinnovare la
battaglia, il maestro di cavalleria romano, la lancia spianata, spronò il
cavallo con tanta furia da sbalzarlo esanime di sella al primo colpo. Le
truppe, contrariamente al solito, non furono scoraggiate dalla caduta del
loro comandante: anzi, si infiammarono. I Sanniti in massa scagliarono le
loro frecce contro Aulio, che si era spinto imprudentemente in mezzo agli
squadroni nemici. Fu soprattutto al fratello che gli dèi concessero la
gloria di vendicarsi del comandante sannita caduto: dopo aver trascinato
giù dal cavallo il maestro di cavalleria vincitore, lo massacrò col cuore
gonfio di rabbia e di dolore, e poco mancò che i Sanniti si
impossessassero anche della salma, finita tra gli squadroni nemici. Ma i
Romani scesero immediatamente da cavallo e si misero a combattere da
fanti, costringendo i Sanniti a fare altrettanto. L'improvvisata fanteria
iniziò il combattimento intorno ai cadaveri dei comandanti. I Romani
ebbero la meglio, rientrando così in possesso del corpo di Aulio, che
riportarono vittoriosi all'accampamento, divisi tra il dolore e la gioia.
I Sanniti, perso il comandante, stremati dalla battaglia a cavallo,
abbandonarono Saticula, che ormai sembrava inutile difendere, e tornarono
all'assedio di Plistica. Così, nell'arco di pochi giorni, i Romani presero
Saticula che si arrese spontaneamente, mentre i Sanniti conquistarono
Plistica con il ricorso alla forza.
23 In séguito il teatro delle operazioni cambiò: dal Sannio e
dall'Apulia gli eserciti vennero trasferiti a Sora, città passata ai
Sanniti dopo che i coloni romani ivi residenti erano stati uccisi. Siccome
l'esercito romano vi era arrivato per primo a marce forzate nell'intento
di vendicare l'uccisione dei concittadini e riappropriarsi della colonia,
gli osservatori disseminati lungo le strade tornarono uno dopo l'altro
riferendo che le truppe sannite seguivano da presso e si trovavano ormai
non troppo lontane. I Romani andarono allora incontro al nemico, e a
Lautule si combatté una battaglia dall'esito incerto. A separare i
contendenti non furono né le perdite patite, né la fuga di una delle parti
in causa, quanto piuttosto la notte, che lasciò gli uni e gli altri nel
dubbio di essere vincitori o vinti. Presso alcuni autori ho trovato che
l'esito di quella battaglia fu sfavorevole ai Romani e che in essa perse
la vita il maestro di cavalleria Quinto Aulio. Per rimpiazzare il defunto,
da Roma giunse con un nuovo esercito il maestro di cavalleria Gaio Fabio,
il quale mandò avanti messaggeri per chiedere al dittatore un consiglio
sul luogo appropriato per fermarsi, nonché sul momento e sulla direzione
dalla quale il nemico avrebbe dovuto essere attaccato. Ottenute tutte le
informazioni sul piano di battaglia, si attestò in un punto nascosto.
Il dittatore, dopo aver trattenuto per alcuni giorni dopo la battaglia
i suoi uomini all'interno della trincea (così da farli sembrare più
assediati che assedianti), diede all'improvviso il segnale di battaglia, e
pensando che il più grosso stimolo per gli animi di uomini valorosi fosse
riporre ogni speranza esclusivamente in se stessi, non rivelò loro
l'arrivo imminente del maestro di cavalleria insieme al nuovo esercito.
Come se quella sortita fosse l'unica speranza di salvezza, disse: «O
soldati, siamo intrappolati in un luogo chiuso, e non abbiamo altra via
d'uscita se non quella che ci potremo aprire con la vittoria. Il nostro
accampamento è ben protetto dalle fortificazioni, ma esposto alla mancanza
di viveri: infatti tutti i paesi dei dintorni che ci potevano far
pervenire dei rifornimenti si sono ribellati, e se anche potessimo trovare
aiuto negli esseri umani, a esserci avversi sono i luoghi. Per questo io
non ho alcuna intenzione di ingannarvi lasciando l'accampamento qui, dove
vi potreste rifugiare nel caso non vi dovesse arridere la vittoria, come
successo nei giorni scorsi. Le fortificazioni devono essere protette dalle
armi, e non le armi dalle fortificazioni. Un accampamento lo tengano e vi
cerchino scampo quelli che hanno interesse a tirare la guerra per le
lunghe: noi non dobbiamo considerare altro scampo se non nella vittoria.
Gettatevi all'assalto del nemico: quando le truppe avranno superato la
trincea, diano fuoco alle strutture quelli cui sarà stato dato ordine di
farlo. Soldati, il danno che subirete sarà ricompensato dal bottino
strappato a tutte le popolazioni dei dintorni che ci hanno tradito». I
soldati si lanciarono contro i nemici infiammati dal discorso del
dittatore, che aveva segnalato la gravità estrema del frangente; e anche
lo scorgere dietro le spalle gli accampamenti in fiamme (benché per ordine
del dittatore il fuoco fosse stato appiccato soltanto alle tende più
vicine) fu motivo di forte incitamento. Lanciatisi in avanti come
forsennati, travolsero al primo urto le file nemiche, e al momento
opportuno il maestro di cavalleria, quando vide da lontano levarsi le
fiamme dall'accampamento (era questo il segnale convenuto), assalì il
nemico alle spalle. Così, presi tra due fronti, i Sanniti si diedero alla
fuga sparpagliandosi dove meglio ciascuno riusciva, in tutte le direzioni.
Una grande quantità di nemici, che in preda al terrore si erano
asserragliati in cerchio e nella calca generale si intralciavano a vicenda
nei movimenti, venne fatta a pezzi sul posto. L'accampamento nemico venne
preso e saccheggiato. Il dittatore riportò nel campo romano i soldati
carichi di bottino, felici sia per la vittoria conseguita sia per aver
ritrovato intatte le tende contro ogni speranza (fatta eccezione per una
piccola area danneggiata dall'incendio).
24 Si ritornò poi all'assedio di Sora. E i nuovi consoli Marco
Petelio e Gaio Sulpicio ricevettero dal dittatore Fabio il comando
dell'esercito, licenziando gran parte degli effettivi avanti con gli anni
e aggiungendo al loro posto nuove coorti. Ma poiché per la difficile
posizione naturale della città non si riusciva a trovare un sistema
abbastanza sicuro per espugnarla, e la vittoria sembrava restare o troppo
in là nel tempo o esposta a rischi eccessivi, un disertore di Sora uscito
di nascosto dalla città e arrivato fino ai posti di guardia romani si fece
immediatamente portare al cospetto dei consoli, ai quali promise di
consegnare la sua città nelle loro mani. Alle richieste dei consoli che
cercavano di sapere in che modo avrebbe potuto garantire l'impresa l'uomo
replicò con risposte che non lasciavano dubbi; così sembrò che le sue
argomentazioni non fossero vane parole, e il disertore convinse i Romani a
spostare di sei miglia dalla città l'accampamento, che adesso era invece
quasi attaccato alle mura: di giorno la vigilanza delle sentinelle si
sarebbe così allentata. Lui stesso poi, nel corso della notte successiva,
dopo che ad alcune coorti venne data disposizione di attestarsi in un
bosco sotto la città, attraverso sentieri impervi e quasi inaccessibili
portò con sé dieci soldati romani sulla rocca, dove aveva raccolto un
numero di aste di gran lunga superiore alle necessità di quel manipolo.
C'erano anche parecchi sassi, parte dei quali si trovavano lì per ragioni
naturali (come sempre nei luoghi dirupati), mentre parte erano stati
ammucchiati intenzionalmente dagli assediati, nell'intento di rendere più
sicura la postazione.
L'uomo portò in quel punto i Romani, e indicando loro un sentiero
stretto e scosceso che dalla città saliva fin sulla rocca disse:
«Basterebbero anche solo tre uomini armati per impedire la salita
all'esercito più massiccio: voi siete in dieci e - ciò che più conta -
siete Romani, e tra i Romani siete anche i guerrieri più forti. Dalla
vostra parte avrete la posizione e la notte, che nell'incertezza fa
apparire più grosso qualunque pericolo a chi già sia spaventato. Io adesso
farò in modo di seminare il panico ovunque: voi limitatevi a tenere
saldamente la rocca». Detto questo, si lanciò giù di corsa gridando con
quanta più voce aveva dentro: «Allarmi! Cittadini, aiuto, la rocca è in
mano ai nemici! Presto, correte a difenderla!». Così gridava di fronte
alle dimore dei capi, a chi incontrava e alla gente che si riversava
terrorizzata nelle strade. Per tutta la città si diffuse il panico
suscitato da un solo individuo. I magistrati affannosamente mandarono
soldati in avanscoperta alla rocca e quando si sentirono riferire che essa
era occupata da uomini (il cui numero venne esagerato) con le armi in
pugno, abbandonarono ogni speranza di poterla riconquistare. Fu allora una
fuga generale e precipitosa, e le porte furono sfondate dalla folla quasi
del tutto inerme e appena alzatasi dal letto. Attirato dalle grida, il
contingente romano irruppe attraverso uno degli ingressi massacrando la
gente che correva terrorizzata per le strade. Sora era già conquistata,
quando all'alba arrivarono i consoli che accettarono la resa di quanti per
motivi contingenti erano rimasti in città dopo la strage notturna e la
fuga. Ne vennero condotti a Roma in catene 225, quelli cioè che l'opinione
pubblica additava come primi responsabili dell'infausto massacro di coloni
e della defezione. Il resto della popolazione fu lasciato incolume a Sora,
dove venne insediato un presidio armato. Gli uomini deportati a Roma
furono bastonati e decapitati in pieno Foro con grande gioia della plebe,
cui premeva la sicurezza dei cittadini inviati nelle colonie.
25 Partiti da Sora, i consoli trasferirono la guerra nelle campagne
e nelle città degli Ausoni. L'arrivo dei Sanniti in concomitanza con la
battaglia di Lautule aveva infatti favorito un'insurrezione generale, e in
molte zone della Campania erano stati organizzati complotti contro Roma,
tanto che neppure Capua restò esente da sospetti (anzi, l'inchiesta arrivò
addirittura fino a Roma e ad alcuni dei cittadini più in vista). Per altro
i Romani giunsero ad avere il controllo del popolo degli Ausoni a séguito
di un tradimento, come già successo a Sora. Dodici nobili giovani
provenienti dalle città di Ausona, Minturno e Vescia, dopo aver deciso di
consegnare le proprie città in mano ai Romani, si presentarono ai consoli
e li informarono che i loro concittadini speravano già da tempo
nell'arrivo dei Sanniti e, non appena erano venuti a conoscenza dell'esito
della battaglia di Lautule, considerando ormai sconfitti i Romani, avevano
offerto un supporto ai Sanniti inviando uomini e armi. E adesso che i
Sanniti erano stati sbaragliati e messi in fuga, si mantenevano in un
rapporto di pace ambigua, e non chiudevano le porte in faccia ai Romani
solo per evitare lo scoppio di un conflitto; se però l'esercito romano si
fosse avvicinato, erano più che decisi a chiuderle. In una simile
incertezza, sarebbe stato facile averne la meglio cogliendoli di sorpresa.
Seguendo i loro suggerimenti, i Romani avvicinarono l'accampamento, e nel
contempo inviarono nei dintorni delle tre città uomini armati, con
l'ordine di rimanere nascosti nei pressi delle mura, e altri in abiti
civili, con le spade nascoste sotto la veste e col cómpito di entrare in
città all'alba attraverso le porte aperte. Furono questi ultimi che
iniziarono a eliminare le sentinelle e contemporaneamente a dare il
segnale ai compagni armati, perché uscissero in fretta dai loro
nascondigli. Così vennero occupate le porte e nello stesso istante anche
le tre città furono catturate, con il medesimo espediente. Ma poiché
l'assalto non avvenne alla presenza dei capi, non vi fu freno al massacro,
e gli Ausoni vennero decimati per un'accusa di tradimento poco affidabile,
come se si fosse trattato di una guerra all'ultimo sangue.
26 Nel corso dello stesso anno Luceria passò dalla parte dei
Sanniti dopo aver consegnato in mano nemica il presidio armato romano. Ma
il tradimento non tardò a essere punito: l'esercito romano si trovava
nella zona e la città, in aperta pianura, venne catturata al primo
assalto. Gli abitanti di Luceria e i Sanniti furono passati per le armi e
la rabbia arrivò a un punto tale che, quando a Roma si discusse in senato
circa l'invio di una colonia a Luceria, molti espressero l'avviso di
radere al suolo la città. A prescindere dal risentimento - fuor di misura
nei confronti di un popolo sottomesso già due volte -, l'idea di inviare
cittadini in una zona così lontana dalla patria e in mezzo a genti tanto
ostili era in sé poco accetta. Ciò non ostante prevalse il parere di
mandare coloni, in numero di 2.500.
Nello stesso anno, mentre per i Romani la situazione era ovunque
difficile, anche a Capua i membri più eminenti della città organizzarono
in segreto una congiura. Al senato giunse notizia della cosa, e la voce
non fu affatto trascurata: venne anzi aperta un'inchiesta e si decise di
eleggere un dittatore che se ne occupasse. L'incarico toccò a Gaio Menio,
che scelse Marco Folio in qualità di maestro di cavalleria. Quella
magistratura metteva in grandissima soggezione: perciò, spinti dalla paura
o dalla consapevolezza della propria colpa, i Calavii Ovio e Novio, i
maggiori responsabili della congiura, prima ancora di comparire di fronte
al dittatore, evitarono il processo togliendosi la vita (non vi fu dubbio
che si trattasse di suicidio).
Venuta meno la materia di indagine in Campania, l'inchiesta si spostò a
Roma, dove la si interpretò nel senso che il senato avesse dato
disposizione di indagare non solo sui responsabili del complotto di Capua,
ma più in generale su tutte quelle persone che, in qualunque parte,
avessero preso degli accordi privati o congiurato contro lo Stato (di
conseguenza anche le coalizioni realizzate per ottenere incarichi politici
risultavano ai danni dello Stato). L'indagine era destinata a estendersi
in relazione sia ai fatti indagati sia agli inquisiti, e il dittatore non
faceva nulla per impedire che il suo diritto di inchiesta risultasse
illimitato. Vennero così incriminati alcuni esponenti del patriziato, il
cui appello ai tribuni risultò vano perché nessuno di essi volle
intervenire contro le denunce a loro carico. E allora l'intero corpo
nobiliare - e non solo coloro contro cui erano dirette le accuse -
sostenne che quelle accuse non dovevano essere rivolte ai patrizi (per i
quali la via alle cariche non avrebbe avuto ostacoli se le cose si fossero
svolte senza brogli), ma agli uomini nuovi: quanto al dittatore e al
maestro di cavalleria, in relazione al reato inquisito erano loro stessi
più degni di fare da imputati che da inquisitori, e se ne sarebbero resi
conto non appena il loro mandato fosse scaduto.
Menio allora, preoccupandosi più della propria rispettabilità che non
della carica detenuta, prese la parola di fronte all'assemblea e pronunciò
questo discorso: «Voi tutti siete al corrente dei miei trascorsi, Quiriti,
e questa stessa carica che mi è stata conferita è la prova inconfutabile
della mia onestà. Infatti per portare avanti un'inchiesta avete dovuto
ricorrere, per avere un dittatore, non a chi si fosse maggiormente
distinto per valori militari (come in altri casi in cui le esigenze del
paese rendevano necessaria una scelta di quel genere), bensì a chi avesse
trascorso i suoi giorni il più lontano possibile da quelle conventicole.
Ma siccome alcuni esponenti della nobiltà hanno prima cercato con ogni
mezzo di mandare a monte l'inchiesta - preferisco che il motivo lo
giudichiate voi, piuttosto che ad affermare una cosa non provata sia io
nella mia qualità di magistrato -, successivamente, non essendo riusciti
nei propri intenti, e volendo evitare di comparire in giudizio per
difendersi, si sono ridotti all'arma difensiva propria degli avversari, e
cioè l'appello al popolo e il veto dei tribuni. E alla fine, poiché anche
in quella direzione la via era sbarrata, ogni altra soluzione è sembrata
loro più sicura che provare la propria innocenza, al punto da lanciarsi
addosso a noi, senza nemmeno vergognarsi, da privati cittadini quali sono,
di pretendere che sul banco degli imputati salga il dittatore. E io,
perché tutti, uomini e dèi, sappiano che essi tentano anche l'impossibile,
pur di non dover rendere conto della propria condotta di vita, e che non
mi oppongo all'accusa e mi offro ai nemici in qualità di imputato,
rinuncio alla dittatura. Vi prego, consoli, se il senato vi affiderà
l'incarico di portare avanti l'inchiesta contro di me innanzitutto e
contro Marco Folio, di fare in modo che risulti in maniera evidente che a
tutelarci dalle accuse rivolte da queste persone non è stato il rispetto
per la carica che ricopriamo, bensì la nostra innocenza». Poi rinunciò
alla dittatura, e dopo di lui fu Folio a deporre sùbito la carica di
maestro di cavalleria. E dopo esser stati sottoposti a processo per primi
dai consoli (ai quali il senato aveva affidato l'inchiesta), furono
assolti in maniera onorevole, non ostante le testimonianze contrarie dei
nobili. Anche Publilio Filone, che in passato aveva più volte ricoperto le
più alte cariche per essersi distinto in pace e in guerra, ma non aveva il
favore della nobiltà, venne processato e assolto. Ma come spesso accade,
l'inchiesta relativa alle personalità di maggiore spicco non andò oltre le
fasi iniziali, spostandosi poi tra gli strati subalterni della
popolazione, fino a esser messa a tacere dagli ambienti e dai circoli
contro cui era stata istruita.
27 La notizia di questi eventi, ma più ancora la speranza di una
defezione della Campania (e il complotto era stato ordito in questa
direzione), fece di nuovo convergere su Caudio i Sanniti diretti verso
l'Apulia; si proponevano così di essere più vicini a Capua e di tentare di
strapparla ai Romani, nel caso in cui qualche contrasto interno ne avesse
offerto l'occasione. I consoli si diressero in quella zona con un forte
esercito. In un primo tempo i due schieramenti indugiarono in prossimità
delle gole, perché era un rischio per entrambi marciare dritti contro il
nemico. Poi i Sanniti, dopo una lieve diversione in zone aperte, scesero
verso la pianura, nelle terre campane, dove in un primo tempo collocarono
l'accampamento in vista del nemico, per poi mettere reciprocamente alla
prova le rispettive forze in scaramucce di poco conto, più spesso
ingaggiate dalla fanteria che dalla cavalleria. Ai Romani non dispiaceva
né l'esito di queste schermaglie né che la guerra andasse per le lunghe.
Ai comandanti sanniti sembrava invece che le loro forze venissero ridotte
dalle perdite quotidiane, che si logorassero per il protrarsi del
conflitto.
Per questo uscirono allo scoperto schierandosi in ordine di battaglia,
e divisero la cavalleria disponendola sulle due ali, con l'ordine di
badare all'accampamento alle spalle piuttosto che alla battaglia in corso
(per evitare appunto un assalto nemico in quella direzione). Per garantire
saldezza al fronte avanzato dello schieramento sarebbe bastata la
fanteria. Dei due consoli, Sulpicio occupò l'ala destra, Petelio la
sinistra. Sulla destra i contingenti vennero schierati con intervalli più
ampi, perché anche i Sanniti avevano disposto in quel settore i loro
reparti in ordine più rado, vuoi per aggirare il nemico, vuoi per non
essere aggirati a loro volta. A sinistra, oltre al fatto che le file erano
già di per sé più serrate, il console Petelio decise all'improvviso di
aggiungere nuovi contingenti, mandando sùbito in prima linea le coorti dei
riservisti, che di norma venivano mantenute integre per eventuali
prolungamenti dello scontro. Impiegando tutte le forze a disposizione, al
primo urto, costrinse il nemico a indietreggiare. Vedendo che le linee
della fanteria stavano vacillando, i cavalieri sanniti si fecero avanti
subentrando nello scontro. Contro di loro che avanzavano dai fianchi fra
le due prime linee si lanciò la cavalleria romana, seminando lo scompiglio
tra i reparti e le file di fanti e cavalieri, fino a mettere in rotta da
quella parte l'intero fronte sannita. All'ala sinistra era venuto a
incitare le truppe non soltanto Petelio, ma, udito l'urlo levatosi per
primo da quella parte, anche Sulpicio, che aveva lasciato i suoi uomini
ancora inattivi. Quando constatò che in quel settore la vittoria era ormai
sicura, tornò verso la sua ala con 1.200 uomini. Lì però trovò una
situazione molto diversa, perché i Romani erano stati costretti a
indietreggiare e i nemici vittoriosi incalzavano i suoi ormai allo sbando.
Ma all'improvviso le cose cambiarono radicalmente con l'arrivo del
console: vedendo infatti il loro comandante, i soldati ripresero coraggio,
e poi il validissimo contingente arrivato con lui costituì un supporto ben
più massiccio di quanto il suo numero non facesse prevedere. E quando
infine udirono - e videro coi loro occhi - che l'altra ala aveva avuto la
meglio, rimisero in piedi le sorti dello scontro. Ormai i Romani stavano
prevalendo su tutta la linea e i Sanniti, smesso il combattimento, vennero
uccisi o fatti prigionieri, fatta eccezione per quelli che ripararono a
Malevento, la città che oggi si chiama Benevento. Stando alla tradizione,
30.000 Sanniti sarebbero stati uccisi o fatti prigionieri.
28 Dopo quella splendida vittoria, i consoli guidarono sùbito
l'esercito all'assedio di Boviano, dove si accamparono per l'inverno, fino
a quando assunse il comando delle truppe il dittatore Gaio Petelio, eletto
dai consoli Lucio Papirio Cursore e Gaio Giunio Bubulco (rispettivamente
al quinto e al secondo mandato), con Marco Folio in qualità di maestro di
cavalleria. Venuto a sapere che la rocca di Fregelle era stata occupata
dai Sanniti, il dittatore lasciò Boviano e si mosse rapidamente in quella
direzione. I Sanniti avevano abbandonato la città nel corso della notte, e
Fregelle fu ripresa senza scontro; lasciatovi un forte presidio, il
dittatore tornò in Campania, determinato a riprendere Nola con le armi.
Con l'avvicinarsi del dittatore, tutti i Sanniti e gli abitanti della
campagna di Nola si erano rifugiati all'interno delle mura cittadine. Il
dittatore, esaminata la posizione della città, per avere più libero
accesso alle fortificazioni, fece incendiare tutti gli edifici che si
trovavano addossati all'esterno delle mura e nei quali vivevano moltissime
persone. Nola fu presa in poco tempo: secondo alcuni autori dal dittatore
Petelio, secondo altri dal console Gaio Giunio. Quelli che attribuiscono
al console il merito della conquista di Nola aggiungono che anche Atina e
Calazia furono catturate dalla stessa persona, e che a séguito di una
pestilenza Petelio venne nominato dittatore con il cómpito di piantare un
chiodo.
Nello stesso anno vennero fondate le colonie di Suessa e di Ponzia.
Suessa prima dipendeva dagli Aurunci, mentre Ponzia, un'isola in vista
della costa, era abitata da Volsci. Un decreto del senato stabilì la
deduzione di una colonia anche a Interamna Sucasina. Però la nomina dei
triumviri preposti e l'invio di 4.000 coloni furono opera dei consoli
dell'anno successivo, e cioè Marco Valerio e Publio Decio.
29 Mentre la guerra con i Sanniti era ormai avviata alla
conclusione, prima ancora che il senato si fosse liberato di quel
pensiero, cominciò a circolare la voce di una guerra scatenata dagli
Etruschi. Galli a parte, in quel tempo non c'era nessun popolo le cui armi
facessero più paura, sia per la prossimità sia per il numero. E così,
mentre l'altro console portava a termine le ultime operazioni belliche nel
Sannio, Publio Decio, rimasto a Roma perché seriamente ammalato, su
proposta del senato nominò dittatore Gaio Giunio Bubulco. Quest'ultimo,
poiché la situazione era così critica da renderlo necessario, bandì una
leva militare di tutti i giovani, e provvide con estrema cura alle armi e
alle altre necessità del momento. Pur confortato da questa grande
disponibilità di mezzi, il dittatore non aveva l'intenzione di muovere
guerra per primo, ma, senza dubbio, di attendere che gli Etruschi
prendessero l'iniziativa. Senonché anche gli Etruschi si comportarono
nella stessa maniera, facendo grossi preparativi bellici ma rinunciando a
scatenarla. Di conseguenza nessuna delle due parti in causa uscì dal
proprio territorio.
In quell'anno fu memorabile la censura di Appio Claudio e Gaio Plauzio,
anche se dei due il nome che rimase più a lungo presso i posteri fu quello
di Appio, in quanto fece costruire una strada e l'acquedotto che porta
l'acqua a Roma; queste opere le portò a termine da solo, perché il
collega, per colpa di una revisione della lista dei senatori che aveva
attirato dure critiche e risentimento contro i censori, aveva ceduto alla
vergogna rinunciando alla carica. Appio allora, che dagli antenati aveva
ereditato l'ostinazione tipica della famiglia, esercitò la censura da
solo. Per iniziativa dello stesso Appio, la gens Potizia - cui in
passato era riservato il culto dell'ara massima di Ercole - aveva
istituito servi pubblici per affidare loro l'incombenza dei riti di quel
culto. Stando a quanto si racconta, a séguito di questa decisione si
verificò un fatto prodigioso che arrivò a creare scrupoli religiosi in
quanti avessero voluto inserire delle innovazioni nei riti sacri: mentre
in quel periodo le famiglie facenti capo alla gens Potizia erano
dodici e comprendevano circa trenta uomini in età adulta, prima della fine
dell'anno tutti i suoi membri con la relativa discendenza morirono. E non
solo sparì il nome dei Potizi, ma alcuni anni dopo anche il censore Appio
venne privato della vista dagli dèi, memori di quel fatto.
30 E così i consoli dell'anno successivo, Gaio Giunio Bubulco per
la terza volta e Quinto Emilio Barbula per la seconda, appena entrati in
carica si lamentarono di fronte al popolo del fatto che il corpo dei
senatori fosse stato deformato dalla pessima scelta operata, in virtù
della quale erano stati esclusi parecchi individui migliori di quelli
eletti, e si rifiutarono di garantire validità alla lista dei nuovi membri
del senato, dicendo che era stata stilata in base al capriccio e alle
amicizie personali, senza distinzione tra buoni e cattivi; così
convocarono immediatamente il senato attenendosi all'elenco in vigore
prima della censura di Appio Claudio e Gaio Plauzio. Quell'anno vennero
attribuite in base al voto del popolo due cariche di natura militare: il
primo provvedimento stabiliva l'elezione da parte del popolo di sedici
tribuni militari per quattro legioni, mentre in precedenza i posti
riservati ai candidati di nomina popolare erano pochi, e l'assegnazione
della carica era appannaggio quasi esclusivo di dittatori e consoli. La
proposta venne presentata dai tribuni della plebe Lucio Atilio e Gaio
Marcio. Il secondo provvedimento stabiliva invece che spettasse al popolo
nominare anche i duumviri navali, il cui cómpito era quello di allestire
la flotta e di organizzarne la manutenzione. L'iniziativa di questo
plebiscito fu del tribuno della plebe Marco Decio.
In quel medesimo anno si verificò un episodio di cui non parlerei
perché privo di importanza, se non fosse che sembrò toccare la sfera
religiosa. I flautisti, indignati perché gli ultimi censori avevano loro
vietato di celebrare il tradizionale banchetto nel tempio di Giove (usanza
tramandata fin dai tempi antichi), si recarono in massa a Tivoli, sicché a
Roma non rimase nessuno in grado di accompagnare con la musica i riti
sacrificali. Il senato guar-dò alla cosa come a un'irregolarità di natura
religiosa, e inviò a Tivoli degli ambasciatori con il cómpito di fare
tutto il possibile per ricondurre a Roma i suonatori. I Tiburtini
garantirono il loro interessamento: in un primo tempo convocarono i
flautisti nella curia e li invitarono a rientrare a Roma; ma poi, vedendo
che non riuscivano a convincerli, li ingannarono ricorrendo a un
espediente del tutto appropriato alla natura di quelle persone. In un
giorno di festa i cittadini, chi in un modo chi in un altro, invitarono i
flautisti nelle loro case con il pretesto di rallegrare il banchetto con
la musica, e li fecero bere - i flautisti sono solitamente molto amanti
del vino -, finché si addormentarono. Così, immersi nel sonno com'erano,
li misero su dei carri e li riportarono a Roma. I flautisti non si
accorsero di nulla, se non quando la luce del giorno li sorprese ancora in
preda ai fumi dell'ebbrezza, sui carri abbandonati nel Foro. L'afflusso di
popolo che ci fu li convinse a rimanere. Fu loro concesso di andare in
giro per la città, tre giorni all'anno, suonando ornati a festa,
abbandonandosi a quel tipo di baldoria che è in uso ancora oggi, e venne
di nuovo assicurato il diritto di celebrare il banchetto nel tempio di
Giove a quanti accompagnavano i riti sacri con la musica. Tutto questo
avveniva nel pieno della preoccupazione per due grandi guerre.
31 I consoli si divisero gli incarichi: a Giunio toccò in sorte la
spedizione contro i Sanniti, mentre a Emilio la nuova guerra contro gli
Etruschi. Nel Sannio la guarnigione romana di Cluvie, dopo aver respinto
un attacco nemico, poiché non era stato possibile prenderla con la forza,
una volta sottoposta ad assedio aveva dovuto arrendersi per fame ai
Sanniti; questi massacrarono a bastonate e trucidarono i soldati già
arresisi. Indignato per questa crudeltà, e ormai convinto che l'attacco
contro Cluvie fosse la più urgente delle cose da farsi, quello stesso
giorno Giunio assalì le mura della città e la catturò uccidendo tutti gli
adulti. Di lì l'esercito vittorioso venne trasferito a Boviano, capitale
dei Sanniti Pentri e città ricchissima, anche di armi e di uomini. Non
essendoci motivo di particolare risentimento, i soldati si impossessarono
della città per la speranza di razziare del bottino. Fu per questo che
infierirono meno sui nemici, portando via però un bottino quasi più
cospicuo di quanto non ne avessero rastrellato in tutto il Sannio; il
console generosamente lo concesse tutto agli uomini.
Poiché allo strapotere militare dei Romani non riuscivano a resistere
né gli eserciti, né gli accampamenti fortificati, né le città, i pensieri
di tutti i comandanti sanniti si concentrarono a individuare un punto
propizio per un agguato, se per caso fossero riusciti a sorprendere
l'esercito romano intento alle sue razzie. Alcuni contadini che avevano
disertato o erano stati fatti prigionieri, giunti tra i Romani in parte
per puro caso e in parte per una precisa scelta, si trovarono d'accordo
nel riferire al console (e per altro la cosa corrispondeva a verità) che
una grande quantità di bestiame era stata concentrata in un impervio passo
sulle montagne, e così convinsero il console a portate in quel punto le
legioni armate alla leggera, nell'intento di fare del bottino. Lì, in
prossimità dei sentieri, si era andato a nascondere un forte contingente
nemico che, sbucando fuori quando vide i Romani entrare nel passo, li
assalì all'improvviso con urla e grande frastuono. Sulle prime la sorpresa
seminò il panico fra i Romani, che afferravano le armi e accatastavano i
bagagli nel mezzo della strada. Poi però, mano a mano che ciascun uomo si
liberava del carico e si armava, da ogni parte i soldati accorrevano alle
proprie insegne e l'esercito, senza bisogno di ordini, prese a schierarsi
secondo l'ordine ben noto per la lunga esperienza di guerra. E il console,
precipitatosi nel punto in cui la battaglia era più accesa, saltò giù da
cavallo e chiamò Giove, Marte e gli altri dèi a testimoni di essere venuto
su quel passo non tanto per cercare gloria individuale, quanto bottino per
gli uomini, e di non poter essere biasimato di nient'altro se non
dell'eccessivo desiderio di fare arricchire i soldati romani ai danni del
nemico. Ma in quel momento la sola cosa che lo potesse salvare dal
disonore era il valore delle truppe. Che dunque si unissero tutti in uno
sforzo comune per gettarsi su un nemico già superato sul campo di
battaglia, già privato del suo accampamento, delle città, e che tentava il
tutto per tutto con quell'indegno espediente, affidandosi al luogo e non
certo alle armi. Ma quale luogo, ormai, era inespugnabile per il valore
romano? Bastava ricordare le rocche di Fregelle e di Sora, e tutti i
successi ottenuti in zone sfavorevoli.
Esaltati da queste parole, gli uomini - dimentichi di tutte le
difficoltà - si riversarono sulla schiera nemica che si trovava in
posizione sopraelevata. Sulle prime dovettero faticare molto per risalire
la china. Ma poi, non appena i primi manipoli ebbero raggiunto la sommità
del crinale e l'esercito si sentì saldamente piazzato su un'area
pianeggiante, la paura si rivolse sùbito contro i responsabili
dell'agguato i quali, liberandosi delle armi e fuggendo in tutte le
direzioni, cercarono scampo in quegli stessi anfratti che prima erano loro
serviti da nascondigli. Ma la conformazione accidentata del terreno,
scelta apposta per creare problemi al nemico, andava adesso a loro
discapito, impedendone i movimenti. Di conseguenza furono pochi quelli che
riuscirono a salvarsi: vennero uccisi circa 20.000 uomini, e i Romani
reduci dal trionfo si sparsero nei dintorni a fare razzia del bestiame
offerto loro dal nemico in persona.
32 Mentre nel Sannio succedevano queste cose, ormai tutti i popoli
dell'Etruria - fatta eccezione per gli abitanti di Arezzo - erano corsi
alle armi, scatenando, con l'assedio di Sutri, città alleata dei Romani e
sorta di ingresso dell'Etruria, una guerra di grosse proporzioni. Il
console Emilio con un esercito si mosse in quella direzione per liberare
gli alleati dall'assedio. All'arrivo dei Romani, gli abitanti di Sutri
portarono una grande quantità di vettovaglie nell'accampamento davanti
alla città. Gli Etruschi spesero il primo giorno discutendo se accelerare
o tirare in lungo la guerra. All'alba del giorno successivo, visto che i
comandanti avevano deciso di optare per la soluzione più rapida anziché
per la più sicura, diedero il segnale di battaglia e, armatisi, scesero in
campo. Informato, il console fece immediatamente diffondere tra gli uomini
l'ordine di mangiare, e di armarsi sùbito dopo essersi rimessi in forze.
Una volta eseguiti gli ordini, il console, non appena li vide pronti e con
le armi in pugno, fece uscire l'esercito fuori dalla trincea e lo schierò
in ordine di battaglia non lontano dai nemici. Per qualche tempo entrambe
le parti si studiarono, nell'attesa che l'avversario alzasse per primo il
grido di guerra e desse inizio alla battaglia. Ma mezzogiorno passò senza
che da una parte e dall'altra venisse lanciata una sola freccia. Poi gli
Etruschi, per non doversi ritirare senza risultato, levarono il grido di
battaglia e si lanciarono all'assalto al suono delle trombe. Ma anche i
Romani si gettarono nella mischia con non minore determinazione. Si
scontrarono con estrema animosità: se i nemici erano numericamente
superiori, i Romani sopravanzavano per coraggio, e l'incertezza dello
scontro fece molte vittime da entrambe le parti; caddero tutti i più forti
in campo. La situazione rimase in bilico finché la seconda linea romana
non diede il cambio alla prima, con gli uomini freschi al posto di quelli
ormai provati. Gli Etruschi, poiché non avevano a disposizione riservisti
freschi a supporto della prima linea, caddero in massa davanti e intorno
alle loro insegne. In nessun'altra battaglia la strage sarebbe stata più
impressionante e più esiguo il numero dei fuggiaschi, se il buio non
avesse protetto gli Etruschi, la cui ostinazione a combattere era tanta
che i vincitori abbandonarono la battaglia prima dei vinti. Dopo il
tramonto venne dato il segnale della ritirata, e nella notte i due
eserciti fecero rientro ai rispettivi accampamenti.
Nella parte residua dell'anno, presso Sutri non accadde nulla che fosse
degno di essere ricordato, perché l'intera prima linea dell'armata nemica
era stata distrutta in quell'unica battaglia, e agli Etruschi rimanevano
solo i riservisti, appena sufficienti per difendere l'accampamento. Ma
anche da parte romana i feriti furono molti, al punto che i morti a
séguito di ferite contratte furono più numerosi dei caduti in
battaglia.
33 Quinto Fabio, console l'anno successivo, assunse il comando
delle operazioni sotto Sutri. Suo collega fu Gaio Marcio Rutilo. Fabio
portò anche rinforzi da Roma, mentre per gli Etruschi arrivò un nuovo
esercito dalle loro terre.
Era già da molti anni che tra magistrati patrizi e tribuni della plebe
non c'erano motivi di contrasto, quand'ecco che un attrito venne causato
dalla famiglia cui sembrava fosse toccato in sorte il destino di essere in
perenne lite con i tribuni e con la plebe. Il censore Appio Claudio, a
diciotto mesi di distanza dalla fine del suo mandato (era l'arco di tempo
previsto dalla legge Emilia), benché il suo collega Gaio Plauzio avesse
rinunciato alla magistratura, non si lasciò convincere da alcun tipo di
pressione a fare altrettanto. Tribuno della plebe era Publio Sempronio, il
quale aveva intrapreso un'azione legale per far sì che alla censura
venisse posto termine entro il limite cronologico previsto dalla norma,
azione non meno popolare che giusta, e non meno gradita al popolo che ai
patrizi. Il tribuno, dopo aver letto e riletto la legge Emilia e aver
elogiato il dittatore Mamerco Emilio che l'aveva presentata, perché aveva
ridotto a diciotto mesi il limite della censura prima quinquennale,
diminuendo così l'eccesso di potere che la lunga durata conferiva a quella
magistratura, così parlò: «Ebbene, Appio Claudio, dimmi che cosa avresti
fatto se tu fossi stato censore quando lo furono Gaio Furio e Marco
Geganio?». Appio rispose che la domanda del tribuno non aveva troppa
pertinenza col suo caso: infatti anche se la legge Emilia aveva colpito i
censori durante il cui mandato essa era stata promulgata, poiché il popolo
aveva approvato la legge dopo l'elezione di quei censori (e la volontà
espressa dal popolo ha valore di legge), ciò non ostante né lui né
chiunque altro fosse stato nominato censore dopo l'approvazione di quella
legge poteva esser tenuto a rispettarla.
34 Mentre Appio Claudio ricorreva a questi cavilli, senza tuttavia
trovare alcuno che lo sostenesse, Sempronio disse: «Ecco a voi, Quiriti,
un discendente di quell'Appio che, eletto decemviro per un anno, l'anno
successivo si nominò da solo, e nel corso del terzo anno - pur non essendo
stato nominato né da se stesso né da alcun altro - mantenne le insegne del
potere anche come privato cittadino, e abbandonò la carica soltanto quando
fu travolto da un potere male acquisito, mal gestito e mal conserva-to.
Questa è la stessa famiglia che a forza di violenze e di soprusi vi
spinse, esuli dalla terra natia, a ritirarvi sul monte Sacro. La stessa
contro la quale voi vi siete tutelati creando l'intercessione dei tribuni.
La stessa per colpa della quale due vostri eserciti sono andati ad
accamparsi sull'Aventino, la stessa che si è sempre schierata contro le
leggi sul tasso di interesse e le leggi agrarie. È stata questa famiglia a
opporsi ai matrimoni tra patrizi e plebei, e a sbarrare alla plebe la
strada alle magistrature curuli: per la vostra libertà questo è un nome
molto più pericoloso di quello dei Tarquini. Dunque, Appio Claudio, pur
essendo già trascorsi cento anni dalla dittatura di Mamerco Emilio, dei
tanti censori che ci sono stati - uomini tra i più nobili e validi -,
possibile che nessuno di loro abbia letto le XII tavole? Che nessuno di
loro fosse al corrente che l'ultima deliberazione presa dal popolo ha
valore di legge? A essere sinceri lo sapevano tutti, e proprio per questo
hanno obbedito alla legge Emilia piuttosto che a quella in virtù della
quale vennero nominati i primi censori, perché era questa l'ultima
approvata dal popolo, e poi perché, nel caso di due leggi in contrasto, è
sempre la nuova ad abrogare la vecchia.
Oppure sostieni, o Appio, che il popolo non è tenuto a rispettare la
legge Emilia? O che il popolo è tenuto a farlo, mentre tu sei il solo a
esserne esentato? La legge Emilia vincolò quei censori violenti, Gaio
Furio e Marco Geganio, i quali dimostrarono quale sia il danno
potenzialmente arrecabile allo Stato da quella magistratura, nel momento
in cui, volendosi vendicare della limitazione imposta alla loro autorità,
retrocedettero nell'ultima classe Mamerco Emilio, l'uomo migliore del suo
tempo in pace e in guerra. Quella legge ha poi vincolato cento anni di
censori, e adesso è un vincolo per il tuo collega Gaio Plauzio, eletto in
base ai tuoi stessi auspici e dotato dei tuoi stessi diritti. Oppure il
popolo non lo ha eletto censore con pieni diritti? Sei tu la sola
eccezione, e vale soltanto per te questo bizzarro e unico privilegio? Ma
allora quale re dei sacrifici nomineresti? Visto che ha il nome di re,
potrà credere di essere nominato re di Roma con pieni diritti? A chi pensi
che basterà una dittatura di sei mesi o un interregno di cinque giorni?
Chi avrai il coraggio di eleggere dittatore solo per piantare un chiodo o
per far svolgere i giochi? Come devono sembrare stupidi e insensati a
quest'uomo coloro che, compiute gesta memorabili, rinunciarono alla
dittatura a venti giorni dalla nomina, o quelli che rinunciarono
all'incarico per essere stati eletti in maniera irregolare! Ma perché
andare a frugare nel passato? Di recente, circa dieci anni or sono, il
dittatore Gaio Menio, mentre stava conducendo un'inchiesta con un rigore
eccessivo per la sicurezza di taluni potenti, accusato dai propri nemici
dello stesso reato sul quale stava indagando, rinunciò alla dittatura per
poter affrontare l'accusa nelle vesti di privato cittadino. Da te non
pretendo certo una simile misura, ma non voglio nemmeno che tu finisca per
tralignare da una famiglia superba e arrogante quanto nessun'altra: non
abbandonare la tua carica un solo giorno e una sola ora prima del dovuto,
lìmitati soltanto a non superare il termine previsto. Ti è sufficiente
aggiungere alla censura un giorno o un mese? "Terrò la censura" replichi
tu "tre anni e sei mesi più del limite concesso dalla legge Emilia, e lo
farò da solo". Ma questo sì che è come essere re!
Oppure nominerai al posto di Plauzio un altro collega, quando non è
consentito sostituire nemmeno un censore defunto? Non ti rimorde, o
meticoloso censore pieno di scrupoli, di aver sottratto un rito
antichissimo - il solo istituito di persona dal dio in onore del quale
viene celebrato - ai nobilissimi sacerdoti di quel culto, per affidarlo a
servi dello Stato, e di vedere una famiglia più antica delle origini di
questa città, sacra per aver offerto ospitalità agli dèi immortali,
estinguersi sin nelle radici nell'arco di un anno e solo per colpa tua e
della tua censura? No, tu vuoi contaminare la repubblica tutta con
quell'istinto criminoso che la mia mente inorridisce anche solo a
nominare! Roma finì in mano nemica in quel lustro durante il quale, morto
il censore Gaio Giulio, il collega Lucio Papirio Cursore, per non
rinunciare alla carica, nominò al suo posto Marco Cornelio Maluginense. E
quanto più misurata fu la sua ambizione, Appio! Infatti Lucio Papirio non
detenne la censura da solo né oltre i termini consentiti dalla legge.
Eppure non trovò nessuno che in séguito si uniformasse alla sua
iniziativa: col passare del tempo, tutti i censori rinunciarono alla
carica dopo la morte del collega. Tu non ti fai trattenere né dalla
scadenza del termine prefissato per la censura, né dalle dimissioni del
collega e neppure dalla legge e dalla vergogna. Tu ritieni che l'arroganza
sia una virtù, e così la sfrontatezza e il disprezzo degli dèi e degli
uomini.
Per la maestà e il rispetto dovuto alla magistratura che hai detenuto,
Appio Claudio, vorrei non solo evitare di arrivare alla violenza, ma anche
di rivolgerti una sola parola meno che riguardosa. La tua caparbietà e la
tua arroganza mi hanno però costretto a usare le parole che hai appena
sentito, e se non ti atterrai alla legge Emilia, darò ordine di farti
arrestare. E siccome i nostri avi hanno stabilito che, nelle elezioni a
censore, se due candidati non hanno raggiunto il tetto di voti previsto
dalla legge, si ripeta la votazione, senza però nominare censore il solo
candidato che abbia raggiunto il tetto di voti previsto, dato che tu non
puoi nominarti censore da solo, adesso io non permetterò che tu eserciti
da solo la censura». Pronunciato questo discorso, ordinò di arrestare e
imprigionare Appio. Mentre sei dei tribuni approvarono l'azione proposta
dal collega, furono in tre a intercedere per Appio il quale aveva fatto
ricorso all'appello. E così egli tenne da solo la censura, tra il
disprezzo di tutte le classi di cittadini.
35 Mentre a Roma si verificavano questi fatti, Sutri era stretta
d'assedio dagli Etruschi, e il console Fabio, che stava guidando
l'esercito lungo le pendici dei monti Cimini per portare aiuto agli
alleati e attaccare i dispositivi di difesa dei nemici, se avesse trovato
qualche passaggio praticabile, si imbatté nell'esercito etrusco schierato
in ordine di battaglia. L'ampia pianura sottostante gli permetteva di
constatare che le forze del nemico erano cospicue, e cercando di sopperire
all'inferiorità numerica dei suoi con la posizione occupata, fece loro
deviare leggermente la marcia, in modo tale da farli risalire lungo il
declivio (che era scosceso e coperto di massi); quindi rivolse il fronte
contro il nemico. E gli Etruschi, non pensando ad altro che alla loro
superiorità numerica, nella quale avevano una cieca fiducia, si buttarono
nella mischia con una foga e una impazienza tali che, per arrivare il più
in fretta possibile al corpo a corpo, gettarono a terra le aste e
avanzarono contro gli avversari con le spade sguainate. I Romani, invece,
non smettevano di scagliare verso il basso tanto i loro giavellotti quanto
i sassi, arma questa offerta in abbondanza dal luogo. Pertanto per gli
Etruschi non era facile arrivare al corpo a corpo perché, anche quando non
venivano feriti, rimanevano storditi dai colpi che piovevano sugli elmi e
sugli scudi, e non avevano armi da lancio con le quali affrontare il
combattimento a distanza. E mentre restavano fermi, esposti ai colpi,
senza che ormai nulla li potesse più proteggere, e alcuni cominciavano a
ritornare sui propri passi, gli hastati e i principes,
levando di nuovo il grido di battaglia, si lanciarono con le spade in
pugno contro quella massa instabile e ondeggiante. Gli Etruschi non
ressero l'urto, e voltate le spalle fuggirono disordinatamente in
direzione dell'accampamento. Ma i cavalieri romani attraversarono la
pianura in diagonale, andando a sbarrare la strada ai fuggitivi, che,
rinunciando a raggiungere l'accampamento, ripiegarono verso i monti. Di
lì, quasi disarmati e ridotti a mal partito dalle ferite, si rifugiarono
nella selva Ciminia. I Romani, dopo aver massacrato parecchie migliaia di
Etruschi e aver loro sottratto trentotto insegne militari, si
impadronirono anche dell'accampamento nemico, raccogliendovi un grosso
bottino. Fu allora che si iniziò a pensare al modo di dare la caccia al
nemico.
36 In quel tempo la selva Ciminia era più impervia e spaventosa di
quanto non siano di recente sembrate le foreste della Germania, e fino ad
allora non l'aveva mai attraversata nessuno, nemmeno dei mercanti. E quasi
nessuno, fatta eccezione per il comandante in persona, aveva il coraggio
di addentrarvisi: in tutti gli altri era ancora vivo il ricordo della
disfatta di Caudio. Allora, tra i presenti, il fratello del console Marco
Fabio (altri sostengono si chiamasse Cesone, altri ancora Gaio Claudio,
indicandolo come fratello del console soltanto per parte di madre) disse
che sarebbe andato in avanscoperta e che di lì a poco avrebbe riportato
notizie sicure. Cresciuto a Cere presso suoi ospiti, aveva avuto
un'istruzione a base di lettere etrusche e parlava bene l'etrusco. Secondo
alcuni autori, come adesso si ha l'abitudine di istruire i ragazzi romani
nelle lettere greche, allo stesso modo in quel tempo li si istruiva in
quelle etrusche. Ma è più vicino alla verità il fatto che l'uomo che andò
a mescolarsi tra i nemici con una messinscena tanto temeraria avesse già
avuto qualche esperienza in tal senso. A quanto sembra fu accompagnato
soltanto da uno schiavo, che era cresciuto con lui e quindi aveva una
certa competenza in quella stessa lingua. Prima di partire, dell'area in
cui stavano per addentrarsi non avevano alcuna cognizione, se non qualche
sommario ragguaglio circa la natura del luogo e i nomi dei capi delle
varie popolazioni, sui quali avevano preso informazioni per evitare di
essere smascherati da esitazioni su fatti risaputi. Partirono vestiti da
pastori, con addosso armi da campagna, una falce e due spiedi a testa. Ma
a proteggerli non furono tanto la conoscenza della lingua né il tipo di
armi o di vesti, quanto piuttosto il fatto che nessuno si potesse
immaginare uno straniero addentratosi nella selva Ciminia. Pare siano
arrivati fino agli Umbri Camerti. Lì Fabio ebbe il coraggio di rivelare la
loro identità e, introdotto nel senato locale, a nome del console propose
di stipulare un trattato di amicizia e di alleanza. Gli riservarono una
generosa ospitalità, e lo pregarono di riferire ai Romani che, se il loro
esercito si fosse spinto in quella zona, avrebbe avuto a disposizione cibo
per trenta giorni, e che la gioventù degli Umbri Camerti sarebbe stata
pronta a prendere le armi agli ordini dei Romani.
Quando queste cose vennero riferite al console, alle prime luci della
sera, mandati avanti gli uomini con i bagagli, diede ordine alla fanteria
di seguirli. Egli rimase fermo con la cavalleria e alle prime luci del
giorno successivo passò a cavallo di fronte ai posti di guardia nemici
collocati al di fuori del bosco. Dopo aver impegnato per qualche tempo i
nemici, rientrò all'accampamento e uscendo dalla porta opposta raggiunse
la fanteria prima del buio. All'alba del giorno dopo aveva già raggiunto
le cime dei monti Cimini. E dopo aver contemplato da quel punto le ricche
terre d'Etruria, inviò i suoi uomini a metterle a ferro e fuoco. E i
Romani avevano già raccolto un bel bottino, quando si trovarono di fronte
squadre raccogliticce di contadini etruschi formate in tutta fretta dai
capi della zona, ma in maniera così disordinata, che quanti erano venuti a
riprendersi la preda per poco non finirono essi stessi oggetto di preda.
Dopo aver eliminato o messo in fuga i nemici, e dopo aver razziato in
lungo e in largo le campagne, i Romani rientrarono al campo in trionfo e
carichi di ogni avere. Lì erano arrivati casualmente cinque delegati e due
tribuni della plebe per comunicare a Fabio l'ordine del senato di non
attraversare la selva Ciminia. Felicitatisi per essere arrivati troppo
tardi per impedire lo scoppio della guerra, rientrarono a Roma ad
annunciare la vittoria.
37 Invece di porre termine alla guerra, questa spedizione del
console ne aveva ampliato il raggio: infatti le genti che abitavano ai
piedi dei monti Cimini erano state gravemente danneggiate dalle incursioni
romane, e avevano contagiato con il loro risentimento non solo i popoli
dell'Etruria, ma anche quelli confinanti dell'Umbria. Per questo motivo
misero insieme nei pressi di Sutri un esercito più numeroso di quanto non
avessero mai fatto prima, e non si limitarono soltanto a trasferire
l'accampamento al di là della selva ma, per l'impazienza di arrivare allo
scontro, portarono anche l'esercito nella pianura. Poi, schieratisi in
ordine di battaglia, in un primo tempo rimasero fermi sulle loro
posizioni, lasciando ai Romani lo spazio necessario per disporsi di
fronte. Vedendo però che i nemici si rifiutavano di venire a battaglia, si
presentarono sotto la trincea. Quando poi si resero conto che anche le
postazioni più avanzate erano state ritirate all'interno delle
fortificazioni, si levò sùbito dalle file un urlo rivolto ai comandanti,
col quale chiedevano venissero loro portati dall'accampamento i viveri per
quel giorno. Sarebbero rimasti lì con le armi in pugno, e nel corso della
notte - o, al più tardi, alle prime luci del giorno - avrebbero attaccato
il campo nemico. L'esercito romano, pur essendo certo non meno impaziente,
venne trattenuto sul posto dalle disposizioni del comandante. Erano più o
meno le quattro del pomeriggio, quando il console ordinò ai soldati di
consumare il rancio, e li avvisò di farsi trovare armati, in qualunque ora
del giorno o della notte egli avesse dato il segnale di attacco. Rivolse
un breve discorso alle truppe, esaltando le guerre contro i Sanniti,
sminuendo gli Etruschi, e sostenendo che i due nemici non erano da mettere
sullo stesso piano né per valore né per numero di effettivi. Aggiunse poi
che vi era un'altra arma segreta che avrebbero conosciuto a tempo debito,
ma che per il momento era necessario rimanesse nascosta. Con questi
accenni sibillini voleva alludere al fatto che i nemici erano minacciati
alle spalle, e lo faceva per confortare il morale dei soldati, spaventati
dalla grande quantità dei nemici. La messinscena era resa più verosimile
dal fatto che il nemico aveva preso posizione senza però costruire
dispositivi di difesa.
Dopo aver ridato vigore ai corpi col rancio, si lasciarono andare al
sonno. Furono svegliati verso le quattro del mattino e presero le armi
senza fare rumore. Ai portatori vennero distribuite le asce per abbattere
il terrapieno e riempire le fosse. L'esercito venne schierato al di qua
delle fortificazioni, mentre le coorti scelte furono piazzate alle uscite
delle porte. Avendo poi ricevuto il segnale poco prima dell'alba - ovvero
l'ora che nelle notti d'estate è più propizia al sonno intenso -,
l'esercito abbatté il terrapieno e saltò fuori, assalendo i nemici
coricati in maniera disordinata. La morte ne sorprese alcuni del tutto
immobili, altri mezzo addormentati nei loro giacigli, e la maggior parte
mentre cercava affannosamente di prendere le armi. Soltanto a pochi venne
lasciato il tempo di armarsi: ma anche questi, non avendo insegne da
seguire e comandanti cui obbedire, vennero sbaragliati, messi in fuga e
inseguiti. Disseminati in tutte le direzioni, tentarono di raggiungere
l'accampamento o il fitto della boscaglia. E furono proprio le selve a
offrire un rifugio più sicuro, perché l'accampamento situato in aperta
campagna venne catturato nel corso di quello stesso giorno. L'ordine fu di
consegnare oro e argento al console, mentre tutto il resto venne lasciato
ai soldati. Quel giorno furono uccisi o fatti prigionieri 60.000
nemici.
Alcuni autori sostengono che questa battaglia tanto gloriosa fu
combattuta al di là della selva Ciminia nei pressi di Perugia, e che a
Roma si stette in grande ansia, per paura che l'esercito tagliato fuori da
quel bosco impraticabile che faceva da barriera venisse sopraffatto dagli
Etruschi e dagli Umbri insorti da ogni parte. Ma in qualunque punto sia
avvenuta la battaglia, è certo che a vincere furono i Romani. Da Perugia,
Cortona e Arezzo, che a quell'epoca erano le città più in vista di tutto
il mondo etrusco, arrivarono ambasciatori con richieste di pace e alleanza
rivolte ai Romani. Venne loro concessa una tregua di trent'anni.
38 Mentre in Etruria erano in corso questi avvenimenti, l'altro
console Gaio Marcio Rutilo strappò ai Sanniti la città di Alife
conquistandola con la forza. Molte altre fortezze e villaggi vennero
conquistati e distrutti oppure finirono in mano ai Romani ancora del tutto
integri.
Nel contempo la flotta romana, pilotata verso la Campania da Publio
Cornelio, cui il senato aveva affidato il cómpito di vigilare sulle coste,
sbarcò a Pompei, e di lì i contingenti della marina forniti dagli alleati
puntarono su Nocera per saccheggiarne il territorio. Dopo fulminee razzie
nelle zone dei dintorni, da dove era più facile rientrare alle navi,
attirati - come spesso accade - dalla sete di fare bottino, si spinsero
troppo nell'interno, attirandosi addosso i nemici. Per tutto il tempo che
rimasero disseminati per la campagna, dove avrebbero potuto essere fatti a
pezzi dal primo all'ultimo, per fortuna non si imbatterono in nessuno.
Invece, proprio mentre tornavano sui loro passi marciando senza alcuna
precauzione, vennero raggiunti non lontano dalle navi dai villici della
zona che si ripresero il bottino, uccidendone anche un certo numero. Il
manipolo disordinato dei superstiti si rifugiò sulle navi in preda al
panico.
La notizia che Quinto Fabio si era addentrato nella selva Ciminia, così
come aveva tenuto Roma in apprensione, allo stesso modo era stata motivo
di tripudio per i Sanniti, per i quali era come se l'esercito romano,
tagliato fuori dalla patria, si trovasse in stato d'assedio: per i Romani
si profilava una disfatta pari a quella delle Forche Caudine. Quella
gente, perennemente avida di nuove conquiste, era stata spinta dalla
temerarietà di sempre in quelle regioni inospitali, dove adesso era
circondata dall'impraticabilità dei luoghi più che dalle armi nemiche. Ma
la gioia si mescolava già con una certa quale invidia, perché la sorte
aveva trasferito dai Sanniti agli Etruschi l'onore della guerra contro
Roma. Per questo, dopo aver raccolto uomini e armi, si misero in movimento
per schiacciare il console Gaio Marcio, e se quest'ultimo non avesse
accettato di dare battaglia, avevano intenzione di trasferirsi
immediatamente in Etruria passando attraverso i territori dei Marsi e dei
Sabini. Il console li andò ad affrontare, e lo scontro dall'esito incerto
che ne seguì fu durissimo. Benché entrambe le parti avessero avuto perdite
ugualmente gravi, tuttavia la voce comune attribuì ai Romani la sconfitta,
perché avevano perso degli uomini di rango equestre, alcuni tribuni
militari, un luogotenente e - ciò che aveva suscitato maggiore scalpore -
era rimasto ferito addirittura il console.
Poiché le voci avevano ingigantito la sconfitta, come sempre succede, i
senatori vennero presi dal panico al punto da voler nominare un dittatore,
e nessuno aveva dubbi sul fatto che la scelta sarebbe caduta su Papirio
Cursore, considerato il miglior generale del suo tempo. Però non si era
sicuri di poter fare arrivare la notizia nel Sannio, dato che tutta la
regione pullulava di nemici, né si era al corrente se il console Marcio
fosse ancora vivo. L'altro console, poi, era un nemico personale di
Papirio. Per evitare che questo attrito andasse a discapito degli
interessi dello Stato, il senato decise di mandare a Fabio una delegazione
composta di ex consoli, i quali, avvalendosi del proprio prestigio
personale, oltre che dell'autorità conferita loro dallo Stato, lo
convincessero a dimenticare la rivalità di un tempo in nome del bene della
patria. Quando gli ambasciatori arrivati al cospetto di Fabio gli ebbero
comunicato la decisione del senato, descrivendola con parole all'altezza
dell'incarico ricevuto, il console abbassò gli occhi a terra e si
allontanò silenzioso dai delegati, che non avevano idea di che decisione
avrebbe potuto prendere. Poi, nel silenzio della notte (come tradizione
vuole), nominò dittatore Lucio Papirio. Quando gli inviati lo
ringraziarono per aver piegato al meglio la propria disposizione d'animo,
Fabio rimase ostinatamente in silenzio, e senza fornire risposta o
commenti al suo gesto, licenziò gli inviati, perché fosse chiaro che
grande dolore il suo animo stesse soffocando.
Papirio scelse come maestro di cavalleria Gaio Giunio Bubulco. Mentre
era impegnato a presentare ai comizi curiati la legge che gli conferiva
l'autorità, venne costretto a rimandare il rituale da un presagio di
cattivo augurio. La votazione, infatti, era iniziata dalla curia Faucia,
celebre per due disastri, e cioè la presa di Roma e la pace di Caudio:
ora, in entrambi gli anni in cui quei fatti si erano verificati, la sorte
aveva affidato alla stessa curia il cómpito di avviare la votazione.
Licinio Macro aggiunge che quella curia era di cattivo augurio anche per
una terza disfatta, ovvero quella subita nei pressi del Cremera.
39 Il giorno successivo, rinnovati gli auspici, il dittatore fece
approvare la legge. Partito da Roma con le legioni appena arruolate
sull'onda del panico generato dalla notizia che l'esercito aveva superato
la selva Ciminia, giunse nei pressi di Longula. Ricevute dal console
Marcio le legioni già in servizio, schierò i suoi in ordine di battaglia.
E i nemici non parvero riluttanti all'idea di combattere. Quando le due
parti erano già schierate e con le armi in pugno, senza però che nessuna
delle due volesse iniziare il combattimento, vennero sorprese dal calar
della notte. Rimasti inattivi per qualche tempo da quel momento in poi,
pur non mancando di fiducia nei propri mezzi né sottovalutando il nemico,
i due contendenti collocarono i rispettivi accampamenti fissi a breve
distanza l'uno dall'altro.
Anche contro gli Umbri i Romani si misurarono in campo aperto: i nemici
furono messi in fuga, subendo però poche perdite, perché non resistettero
a lungo allo scontro, nel quale si erano lanciati con estremo accanimento.
Anche gli Etruschi, arruolato con una legge sacrata un esercito, nel quale
ogni uomo si sceglieva un altro uomo, si scontrarono presso il lago di
Vadimone, con uno spiegamento di forze e un accanimento mai visti in
passato. La battaglia venne combattuta con un furore tale, che nessuno dei
due contendenti arrivò a scagliare le armi da lancio. Lo scontro iniziato
con le spade divenne via via sempre più acre, mantenendosi a lungo
nell'incertezza, al punto che i Romani non avevano l'impressione di
combattere contro gli Etruschi già sconfitti tante altre volte, ma contro
qualche popolo nuovo. Nessuna delle due parti accennava alla fuga: gli
uomini della prima linea crollarono e, per evitare che i reparti
restassero privi di copertura, la seconda fila rimpiazzò la prima. Poi
vennero chiamati allo scontro anche gli ultimi riservisti. E la situazione
arrivò a essere talmente critica, che i cavalieri romani, scendendo da
cavallo, raggiunsero le prime file di fanti avanzando tra le armi e i
corpi dei caduti. Entrati in campo, come un esercito fresco, in mezzo a
uomini stanchi, gettarono lo scompiglio tra le linee etrusche. Seguendo
poi il loro slancio, il resto delle truppe, pur allo stremo delle forze,
riuscì finalmente a prevalere sullo schieramento nemico. Allora la tenacia
degli Etruschi cominciò a cedere e alcuni manipoli presero a
indietreggiare, dandosi inequivocabilmente alla fuga non appena ebbero
voltato le spalle. Quel giorno venne spezzata per la prima volta la
potenza etrusca, in auge dai tempi antichi. Il fiore delle loro truppe
venne massacrato sul campo, e con quello stesso attacco i Romani ne
catturarono l'accampamento saccheggiandolo.
40 Poco tempo dopo i Romani corsero un pericolo analogo, riportando
però un successo altrettanto netto contro i Sanniti i quali, oltre agli
altri preparativi militari, avevano fatto sì che le loro armate fossero
più splendenti grazie a una nuova e brillante armatura. Gli eserciti erano
due: uno aveva lo scudo cesellato in oro, l'altro in argento. La forma
dello scudo era questa: più largo in alto per coprire il petto e le
spalle, il bordo livellato e, sul fondo, fatto a cuneo per renderlo più
maneggevole. A protezione del torace avevano una corazza spugnosa, mentre
per la gamba sinistra c'era uno schiniere. Gli elmi erano dotati di
cresta, per accrescere l'imponenza delle persone. Le tuniche dei soldati
provvisti di scudo dorato erano di varie tinte, mentre quelle dei soldati
con lo scudo d'argento erano di lino bianchissimo. Ai primi venne affidata
l'ala sinistra, ai secondi la destra. Ma i Romani erano già stati
informati di quell'armatura splendente, e i comandanti avevano ricordato
loro che il soldato deve avere un aspetto rude, non avere addosso armi
cesellate d'oro e d'argento, ma confidare nella propria spada e nel
proprio valore. A essere sinceri, non armi erano quelle, ma futuro
bottino: brillanti prima dello scontro, segno di infamia tra il sangue e
le ferite. Il valore era l'ornamento dei soldati: tutto quel prezioso
splendore sarebbe stato il séguito della vittoria, e un nemico ricco era
il premio del vincitore, per quanto povero questi potesse essere.
Risollevati i suoi uomini con queste parole, Cursore li guidò in
battaglia. Egli andò ad occupare l'ala destra, mentre alla sinistra
collocò il maestro di cavalleria. All'inizio dello scontro la lotta col
nemico fu accesa, e non meno viva la competizione tra il dittatore e il
maestro di cavalleria per stabilire chi avesse dato il via per primo alla
vittoria. Il destino volle che Giunio fosse il primo a far indietreggiare
i nemici, attaccando con l'ala sinistra il fianco destro del nemico
(composto di uomini votatisi agli dèi, secondo la tradizione sannita, e
per questo vestiti tutti di bianco). Proclamando che avrebbe immolato i
nemici all'Orco, Giunio si lanciò all'attacco e ne scompigliò le file,
costringendo il fronte a indietreggiare sensibilmente dalla sua linea.
Quando il dittatore se ne accorse, disse: «Allora la vittoria inizierà
dall'ala sinistra, e l'ala destra, con le truppe del dittatore, starà a
guardare le sorti del combattimento altrui, non farà la parte del leone
nella vittoria?». Con questo intervento infiammò gli animi dei suoi
soldati, e i cavalieri non furono da meno dei fanti quanto a valore
dimostrato, così come i luogotenenti non lo furono rispetto ai comandanti.
Marco Valerio all'ala destra, Publio Decio a sinistra (entrambi ex
consoli), si lanciarono dalla parte dei cavalieri schierati alle due ali,
esortandoli a conquistarsi la loro parte di gloria. Poi andarono
all'assalto in diagonale contro i fianchi del nemico. Poiché questa nuova
minaccia si era abbattuta sullo schieramento avversario da entrambe le
parti, e la fanteria romana, vedendo i Sanniti in preda al panico, aveva
di nuovo levato il grido di battaglia prendendo ad avanzare, i Sanniti
cominciarono a fuggire. Le campagne già erano ingombre di cumuli di
cadaveri e armi luccicanti. In un primo momento i Sanniti, terrorizzati,
si andarono a rifugiare nell'accampamento; poi però non riuscirono a
tenere nemmeno questo, che prima del calar della notte venne conquistato,
saccheggiato e dato alle fiamme.
Su decreto del senato il dittatore ottenne il trionfo, il cui più
splendido ornamento furono le armi strappate ai Sanniti. Sembrarono così
straordinarie, che gli scudi dorati furono consegnati ai banchieri,
affinché fungessero da addobbo per il Foro. Si dice che di lì sia nato
l'uso degli edili di adornare il Foro per le processioni solenni sui
carri. Mentre i Romani utilizzarono le armi dei nemici per rendere omaggio
agli dèi, i Campani, per sfrontatezza e risentimento verso i Sanniti,
dotarono con quelle armature i gladiatori che si esibivano durante i
banchetti, e diedero loro il nome di Sanniti.
Nello stesso anno il console Fabio combatté contro i resti
dell'esercito etrusco nei pressi di Perugia, che aveva violato la tregua,
e conseguì una vittoria facile e netta. E avrebbe anche espugnato con la
forza la città - alle cui mura si stava già avvicinando dopo la vittoria
-, se non ne fossero usciti ambasciatori a offrire la resa. Lasciata una
guarnigione armata a Perugia, il console mandò avanti in senato, a Roma,
gli ambasciatori etruschi con la richiesta di un trattato di amicizia, ed
entrò poi in città in trionfo, dopo aver conseguito una vittoria ancora
più memorabile di quella del dittatore. A dir la verità, gran parte del
merito della sconfitta inflitta ai Sanniti venne attribuito ai
luogotenenti Publio Decio e Marco Valerio, i quali, nel corso delle
successive elezioni, vennero nominati con ampia maggioranza console il
primo e pretore il secondo.
41 Come premio per la brillante sottomissione dell'Etruria Fabio
ottenne il prolungamento del consolato, avendo Decio come collega. Valerio
venne eletto pretore per la quarta volta. I consoli si divisero tra loro
gli incarichi: a Decio toccò in sorte l'Etruria, mentre a Fabio andò il
Sannio. Partito alla volta di Nocera Alfaterna, Fabio, dopo aver respinto
la richiesta di pace fatta da quella città (perché non aveva voluto
accettarla quando essa era stata offerta dai Romani), la attaccò
costringendola alla resa incondizionata. Affrontò poi in campo aperto i
Sanniti, sconfiggendoli senza eccessivo impegno. Di questa battaglia non
ne sarebbe rimasta notizia, se nell'occasione i Marsi non avessero
combattuto per la prima volta contro i Romani. Alla defezione dei Marsi
seguì quella dei Peligni, che andarono incontro allo stesso destino.
La guerra ebbe esito positivo anche per l'altro console, Decio, il
quale spaventò i Tarquiniensi al punto tale da costringerli a fornire
frumento all'esercito e a chiedere una tregua quarantennale. Prese poi con
la forza alcune roccaforti degli abitanti di Volsinii, distruggendone una
parte, per evitare che offrissero rifugio ai nemici. Scorrazzando e
devastando in lungo e in largo la zona, seminò un panico tale da portare
l'intera gente etrusca a chiedere al console un trattato di pace. Il
trattato fu negato, mentre venne concessa una tregua di un anno, il cui
prezzo fu il pagamento all'esercito romano dello stipendio di quell'anno
in corso, e la fornitura di due tuniche a ogni soldato.
A turbare la situazione ormai sotto controllo in Etruria fu la
sollevazione degli Umbri, popolo che non aveva avuto ancora contatti con i
disastri della guerra, salvo il fatto di aver subito da parte dei Romani
devastazioni delle campagne. Chiamati alle armi tutti i loro giovani e
sobillata gran parte degli Etruschi a ricominciare la guerra, gli Umbri
raccolsero un esercito tanto massiccio che, lasciatisi alle spalle Decio
in Etruria, nutrivano il baldanzoso progetto di porre l'assedio a Roma, e
nei loro discorsi mostravano grande fiducia nei propri mezzi e disprezzo
per i Romani. Quando la notizia dei loro movimenti arrivò alle orecchie
del console Decio, questi a marce forzate si diresse dall'Etruria a Roma,
fermandosi nella regione di Pupinia, in attesa di notizie sul nemico. A
Roma la guerra contro gli Umbri non veniva trascurata, e già soltanto le
minacce lanciate dal nemico avevano spaventato la gente, che in occasione
del disastro causato dai Galli avevano già avuto modo di saggiare quanto
fosse insicura la posizione della città. E proprio per questo inviarono
una delegazione al console Fabio con l'ordine di portare immediatamente
l'esercito in Umbria, se solo la guerra contro i Sanniti gli avesse
lasciato un attimo di tregua. Il console obbedì, e si diresse a marce
forzate verso Mevania, dove in quel momento si trovavano le forze degli
Umbri.
L'arrivo improvviso del console, che i nemici credevano fosse lontano
dall'Umbria alle prese con un altro conflitto nel Sannio, li terrorizzò a
tal punto che c'era chi proponeva di barricarsi all'interno delle mura,
chi invece di lasciar perdere la guerra. Una sola popolazione - da loro
chiamata Materina - non si limitò soltanto a convincere le altre a
rimanere in armi, ma le trascinò sùbito allo scontro. Assalirono Fabio
mentre era impegnato a fortificare il campo. E il console, quando li vide
riversarsi in massa contro le difese, richiamò i soldati dalle loro
occupazioni e li schierò come la conformazione del terreno e le
circostanze gli permettevano. Li esortò ricordando con parole accorate i
grandi riconoscimenti militari ottenuti combattendo sia in Etruria sia nel
Sannio, e li invitò a porre fine a quella ridicola appendice della guerra
con gli Etruschi, e a far scontare agli Umbri le loro scellerate
dichiarazioni, che minacciavano un attacco a Roma. Le sue parole
suscitarono un entusiasmo tale negli uomini da portarli a levare un urlo
spontaneo col quale interruppero il discorso del comandante. Prima ancora
di ricevere l'ordine, prima che i corni e le trombe si mettessero a
suonare, si lanciarono contro il nemico correndo col cuore in gola. Si
gettarono come se gli altri non fossero guerrieri, quasi non indossassero
le armi. E - cosa questa ben più difficile a credersi - cominciarono a
strappare di mano le insegne agli alfieri, per poi trascinare addirittura
gli alfieri di fronte al console, spingere tra le linee romane i soldati
nemici con ancora le armi in pugno e, là dove la lotta infuriava, servirsi
più degli scudi che delle spade, scaraventando a terra gli avversari con
la punta dello scudo o con una spallata. Il numero dei prigionieri superò
quello dei caduti, mentre per tutto il campo si sentiva soltanto una voce,
ovvero quella dei vincitori che li invitavano a deporre le armi. Fu così
che, nel mezzo dello scontro, si arresero proprio quelli che avevano
scatenato la guerra. L'indomani e i giorni successivi si arresero anche le
altre tribù di Umbri: agli abitanti di Ocricoli venne però formalmente
promesso che sarebbero stati accolti tra gli amici di Roma.
42 Fabio, trionfatore in una guerra destinata dalla sorte al
comando di altri, riportò l'esercito nella zona di sua competenza. Perciò,
a séguito di quelle imprese tanto fortunate, come l'anno prima il popolo
gli aveva concesso di ripetere il consolato, così adesso il senato (non
ostante l'opposizione soprattutto di Appio) gli prorogò il comando delle
operazioni per l'anno successivo, durante il quale furono eletti consoli
Appio Claudio e Lucio Volumnio.
In alcuni annali ho trovato che Appio aveva presentato la sua
candidatura al consolato quand'era ancora censore, e che il tribuno della
plebe Lucio Furio aveva opposto il proprio veto a tale elezione, fino a
quando non avesse rinunciato alla censura. Nominato console, mentre al
collega venne affidata una nuova guerra (contro i Sallentini), Appio
rimase a Roma, per incrementare il proprio potere con attività civili,
dato che la gloria in campo militare era appannaggio di altri.
Volumnio non ebbe motivo di dispiacersi dell'incarico toccatogli,
perché ebbe la meglio in parecchi scontri e prese con la forza numerose
città nemiche. Era molto generoso in materia di bottino, e tale munificità
già di per sé gradita era impreziosita dalla sua affabilità: queste doti
avevano spinto i suoi uomini ad affrontare fatiche e pericoli.
Quinto Fabio, col grado di proconsole, affrontò in campo aperto
l'esercito sannita nei pressi della città di Alife. La vittoria non
presentò margini di incertezza: i nemici vennero travolti e costretti a
rientrare al campo. E non sarebbe loro rimasta neppure questa possibilità,
se il giorno non fosse stato ormai alla fine. Ciò non ostante vennero
circondati prima del buio, e guardati a vista durante la notte, per
evitare che qualcuno fuggisse. All'alba i Sanniti cominciarono a trattare
la resa, ottenendo come condizioni che ciascuno di loro fosse liberato e
fatto passare sotto il giogo con addosso un solo indumento. I loro alleati
non ebbero alcun tipo di garanzia: furono venduti all'asta in numero di
7.000. Quanti invece avevano dichiarato di essere cittadini ernici,
vennero separati e custoditi a parte, per poi essere inviati in massa da
Fabio di fronte al senato di Roma. Lì venne loro chiesto se avessero
combattuto come volontari oppure fossero stati arruolati con una regolare
leva militare; poi furono affidati alle varie genti latine col cómpito di
sorvegliarli. I consoli neoeletti, ovvero Publio Cornelio Arvina e Quinto
Marcio Tremulo nominati poco tempo prima, ricevettero disposizione di
aprire un'inchiesta sull'intera faccenda e di riferirne al senato. Gli
Ernici si risentirono: e poiché la gente di Anagni aveva convocato
l'assemblea plenaria di tutta la gente ernica nel circo oggi chiamato
Marittimo, tutto il popolo ernico, con la sola eccezione di Alatri,
Ferentino e Veroli, dichiarò guerra a Roma.
43 Poiché Fabio aveva lasciato la zona, anche nel Sannio ripresero
le ostilità. I Sanniti espugnarono Calazia e Sora con i presidi romani che
vi si trovavano, e infierirono barbaramente sui prigionieri. Per questo
Publio Cornelio venne mandato là con un esercito. A Marcio venne invece
affidata la spedizione contro i nemici recenti, visto che agli Anagnini e
al resto degli Ernici era già stata dichiarata guerra. In una prima fase i
nemici occuparono tutti i punti strategici tra gli accampamenti dei due
consoli, così che non poteva passare nemmeno un messaggero disarmato, e
per parecchi giorni i consoli rimasero senza notizie preoccupandosi l'uno
e l'altro delle sorti del collega. L'apprensione contagiò anche Roma, al
punto che tutti i giovani vennero chiamati alle armi; furono formati così
due eserciti completi per affrontare gli imprevisti del caso. Ma la guerra
contro gli Ernici non corrispose alle paure che aveva suscitato né alla
gloria militare che quel popolo aveva dimostrato in passato. Non presero
mai, da nessuna parte, alcuna iniziativa degna di essere menzionata: persi
tre accampamenti nel giro di pochi giorni, scesero a patti ottenendo una
tregua di trenta giorni, in maniera da poter inviare una delegazione al
senato di Roma; la condizione fu che pagassero lo stipendio all'esercito,
e fornissero i viveri per due mesi e una veste per ogni soldato. Il senato
li indirizzò a Marcio, cui conferì con un proprio decreto pieni poteri
circa le condizioni da imporre agli Ernici. Ed egli ne accettò la resa.
Nel Sannio l'altro console, pur avendo la superiorità numerica, era in
difficoltà per la natura impervia dei luoghi. I nemici avevano sbarrato
tutte le vie di comunicazione, occupando i passi praticabili per impedire
i rifornimenti. E il console, pur schierando ogni giorno il suo esercito
in ordine di battaglia, non riusciva a trascinare i Sanniti allo scontro,
ed era evidente che né i Sanniti avevano intenzione per il momento di
accettare battaglia, né i Romani di sopportare che la guerra venisse
tirata per le lunghe. L'arrivo di Marcio, accorso in aiuto del collega
dopo aver sottomesso gli Ernici, tolse però ai nemici la possibilità di
evitare ancora lo scontro. Infatti, siccome già prima non si ritenevano in
grado di affrontare in campo aperto un solo esercito, adesso erano
convinti di non avere più alcuna speranza, nel caso in cui avessero
permesso ai due eserciti consolari di riunirsi. E per questo piombarono
sulle truppe di Marcio che si stavano avvicinando in formazione poco
compatta. Il console fece sùbito abbandonare a terra i bagagli e schierò i
suoi come il caso gli permetteva. In un primo tempo arrivò al campo il
frastuono delle urla, poi il polverone alzato in lontananza destò grande
apprensione nell'accampamento dell'altro console. Questi immediatamente
diede ordine di armarsi e, dopo aver tempestivamente schierato i suoi in
ordine di battaglia, assalì il fianco delle truppe nemiche, già impegnate
in un altro scontro, urlando che sarebbe stata una grossa umiliazione se
avessero lasciato all'altro esercito l'onore di entrambe le vittorie,
senza rivendicare per se stessi la gloria nella guerra toccata loro.
Sfondarono là dove avevano attaccato e, attraversate le linee avversarie,
avanzarono fino all'accampamento nemico, che presero e diedero alle fiamme
perché completamente sguarnito. Quando i soldati di Marcio videro le
fiamme e anche i nemici si voltarono a guardare, i Sanniti cominciarono a
darsi alla fuga da una parte e dall'altra: ovunque però furono raggiunti
dal massacro, senza trovare scampo in alcuna direzione.
Dopo che già 30.000 nemici erano stati uccisi, il console fece suonare
la ritirata. Stavano già raccogliendo le truppe complimentandosi a
vicenda, quando all'improvviso apparvero all'orizzonte nuovi contingenti
nemici (erano ausiliari inviati a sostegno): così la strage fu completa.
Senza nemmeno aspettare l'ordine dei consoli né il segnale di battaglia, i
vincitori si riversarono loro addosso, urlando che i Sanniti avrebbero
dovuto iniziare la loro ferma con un duro tirocinio. I consoli non si
opposero allo slancio delle legioni, consapevoli del fatto che le giovani
reclute nemiche, mescolate ai veterani in rotta, non avrebbero neppure
avuto il coraggio di tentare il combattimento. Il loro ragionamento non si
dimostrò sbagliato: tutte le forze sannite, vecchie e nuove, fuggirono
verso i monti circostanti. Ma anche l'esercito romano si diresse da quella
parte, e non c'era più un punto che fosse sicuro per gli sconfitti,
scacciati anche dalle alture che avevano occupato. Ormai chiedevano la
pace a una voce sola. Dopo aver subito l'onere di fornire il grano per tre
mesi, pagare lo stipendio per un anno e dotare ogni soldato di una tunica,
i Sanniti inviarono al senato una delegazione per chiedere la pace.
Cornelio rimase nel Sannio. Marcio ritornò a Roma, dove entrò in
trionfo per la vittoria sugli Ernici, e gli venne decretata una statua
equestre nel Foro, che fu collocata di fronte al tempio di Castore. Alle
tre città erniche di Alatri, Veroli e Ferentino vennero lasciate le loro
leggi, perché avevano preferito questa condizione alla cittadinanza
romana, e fu loro concesso il diritto di contrarre matrimonio misto
(diritto questo che essi furono i soli tra gli Ernici a conservare a
lungo). Agli abitanti di Anagni e al resto delle genti che avevano preso
le armi contro Roma fu concessa la cittadinanza romana senza diritto di
voto, venne revocato il diritto di libera assemblea e di matrimonio misto,
e fu loro vietato di avere dei magistrati propri, fatta eccezione per
quelli che si occupavano del culto.
Nello stesso anno il censore Gaio Giunio Bubulco appaltò la costruzione
del tempio della Salute da lui promesso in voto quand'era console durante
la guerra contro i Sanniti. Lo stesso Giunio insieme al collega Marco
Valerio Massimo fece costruire a spese dello stato una rete di strade che
attraversava le campagne. E ancora in quell'anno venne rinnovato per la
terza volta il trattato con Cartagine, e gli ambasciatori venuti a Roma
per questo scopo ricevettero doni e un trattamento di grande cortesia.
44 Lo stesso anno ebbe come dittatore Publio Cornelio Scipione, e
Publio Decio Mure in qualità di maestro di cavalleria. I due presiedettero
le elezioni consolari (cómpito per il quale erano stati nominati, in
quanto nessuno dei due consoli aveva potuto allontanarsi dal fronte).
Vennero eletti consoli Lucio Postumio e Tiberio Minucio. Questi consoli
per Pisone seguono a Quinto Fabio e a Publio Decio, saltando però il
biennio durante il quale abbiamo riferito che i consoli furono Claudio con
Volumnio e Cornelio con Marcio. Non è chiaro se Pisone li abbia
dimenticati nel redigere gli annali, oppure se abbia omesso di proposito i
due consolati, ritenendoli privi di fondamento.
Nel corso dello stesso anno ci furono incursioni da parte dei Sanniti
nella pianura Stellate in Campania. Entrambi i consoli vennero inviati nel
Sannio, dirigendosi però in zone diverse, Postumio a Tiferno e Minucio a
Boviano. Il primo scontro avvenne a Tiferno, agli ordini di Postumio:
alcuni autori sostengono che i Sanniti vennero sconfitti in maniera netta
e che furono fatti 20.000 prigionieri; altri invece che le parti si
allontanarono dopo una battaglia dall'esito rimasto incerto, che Postumio,
fingendo di aver paura, marciando di notte andò a nascondere le sue truppe
sui monti, e che i nemici gli tennero dietro, accampandosi a due miglia di
distanza da lui in una posizione ben protetta. Il console, volendo dare
l'impressione di aver scelto quella zona per porre l'accampamento fisso,
in quanto sicura e ricca (come in effetti era), in un primo tempo fece
dotare il campo di difese, attrezzandolo con ogni tipo di materiale. Dopo
avervi lasciato una massiccia guarnigione armata, nel pieno della notte
guidò lungo il percorso più breve possibile le sue truppe equipaggiate
alla leggera fino a raggiungere il collega, accampato di fronte a un altro
esercito nemico. Lì, su consiglio di Postumio, Minucio attaccò battaglia,
e poiché lo scontro andò avanti nell'incertezza fino a giorno inoltrato
Postumio aggredì all'improvviso con le sue forze ancora fresche i nemici
ormai stremati. E così, visto che i Sanniti non riuscivano a fuggire per
la stanchezza e le ferite riportate, furono uccisi tutti dal primo
all'ultimo, mentre i Romani catturarono ventuno insegne, dirigendosi poi
verso l'accampamento di Postumio. Qui i due eserciti vincitori, gettandosi
sui nemici demoralizzati per le notizie ricevute, li travolsero
costringendoli alla fuga e catturando ventisei insegne militari, più il
comandante dei Sanniti Stazio Gellio, molti altri uomini ed entrambi gli
accampamenti. Il giorno successivo venne iniziato l'assedio di Boviano,
catturata anch'essa in breve tempo, e i due consoli che tanta gloria
avevano conquistato con quelle imprese celebrarono il trionfo. Alcuni
autori sostengono che il console Minucio, riportato nell'accampamento con
una ferita molto grave, morì sul posto, e che per sostituirlo venne
nominato console Marco Fulvio il quale, subentrando a Minucio nel comando
del suo esercito, avrebbe conquistato Boviano.
Nel corso di quell'anno Sora, Arpino e Cesennia vennero nuovamente
strappate ai Sanniti, mentre una grande statua di Ercole venne collocata
in Campidoglio e lì consacrata.
45 Durante il consolato di Publio Sulpicio Saverrione e di Publio
Sempronio Sofro, i Sanniti - nel desiderio di porre fine alla guerra o di
ottenere una tregua - inviarono a Roma ambasciatori per discutere la pace.
Alle loro suppliche venne replicato che, se i Sanniti non avessero di
frequente richiesto la pace continuando in realtà a preparare la guerra,
si sarebbe potuto stipulare un trattato di pace con una semplice
discussione tra le due parti in causa. Ma ora che le parole a tale
riguardo si erano dimostrate vane, era necessario starsene ai fatti. Il
console Publio Sempronio si sarebbe recato di lì a poco nel Sannio con un
esercito, e non gli sarebbe certo potuto sfuggire che intenzioni avessero
i Sanniti, se bellicose o pacifiche. Chiarito ogni aspetto, avrebbe
riferito al senato. Che quindi i delegati seguissero il console al suo
rientro dal Sannio. Quell'anno, poiché un esercito romano che l'aveva
percorso in lungo e in largo aveva trovato il Sannio in condizioni
pacifiche ed era stato generosamente rifornito dalle genti del posto, ai
Sanniti venne di nuovo concesso il trattato di pace di una volta.
Le armi di Roma si rivolsero poi contro gli Equi, antichi nemici, che
per anni non avevano dato fastidi, sotto le apparenze di una pace di cui
non ci si poteva fidare, ma che prima della disfatta inflitta agli Ernici
avevano con questi ripetutamente inviato aiuti ai Sanniti, e che dopo la
sottomissione degli Ernici erano passati quasi in massa dalla parte del
nemico senza che venisse nascosta l'ufficialità di tale decisione. E
quando poi - conclusa a Roma la pace coi Sanniti - erano arrivati i
feziali a chiedere soddisfazione, gli Equi avevano sostenuto trattarsi di
una manovra fatta dai Romani per convincerli ad accettare la cittadinanza
romana forzandoli con lo spauracchio di una guerra. Ma quanto la cosa
fosse desiderabile, erano stati loro Ernici a mostrarlo, scegliendo,
quando ne venne data l'opportunità, le proprie leggi in luogo della
cittadinanza romana. Quanti invece non avevano avuto l'opportunità di
scegliere la soluzione preferita avevano dovuto loro malgrado accettare la
cittadinanza romana come un castigo. Siccome i discorsi che si tenevano
nelle assemblee erano in genere di questo tenore, il popolo romano ordinò
di fare guerra agli Equi. E i due consoli, partiti alla volta del nuovo
conflitto, si attestarono a quattro miglia dal campo nemico.
L'esercito degli Equi, che non combattevano più guerre per conto
proprio da moltissimi anni, costituito com'era da truppe raccogliticce,
prive di comandanti e di precise autorità interne, era in grave affanno. E
mentre alcuni proponevano di uscire allo scoperto e altri di difendere
l'accampamento, la maggior parte fremeva al pensiero delle campagne
devastate e delle città distrutte, essendo rimaste prive di guarnigioni
armate. E così, quando tra le molte proposte se ne sentì una che lasciava
da parte la causa comune invitando i singoli a preoccuparsi del proprio
interesse particolare (e cioè a uscire, col calar della notte,
dall'accampamento e portar via ogni cosa, rientrando nelle rispettive
città per mettersi al riparo delle mura), venne accolta da un grande
applauso collettivo. Quando i nemici si erano già sparsi per le campagne,
all'alba i Romani si schierarono in ordine di battaglia. Ma dato che
nessuno si faceva avanti, si diressero sùbito verso l'accampamento nemico.
Quando videro che lì non c'erano sentinelle alle porte né gente di guardia
dietro la trincea, e che non si sentiva il brusio tipico degli
accampamenti, preoccupati da quel silenzio anomalo si fermarono per paura
di finire in un'imboscata. Scavalcata poi la trincea e avendo trovato
tutto deserto, cercarono di mettersi sulle tracce dei nemici. Ma le orme
che portavano in tutte le direzioni (come sempre succede nel corso delle
ritirate inconsulte), in un primo tempo sviarono i Romani. Quando poi
vennero a sapere da informatori le vere intenzioni dei nemi-ci,
cominciarono ad attaccare le città una dopo l'altra. In cinquanta giorni
ne espugnarono trentuno fortificate, la maggior parte delle quali venne
rasa al suolo e data alle fiamme, mentre quasi l'intera etnia degli Equi
andò distrutta. Per il successo sugli Equi venne celebrato il trionfo. Il
loro annientamento servì da esempio ai Marrucini, ai Marsi, ai Peligni e
ai Frentani, che inviarono a Roma delegati per chiedere pace e amicizia. E
a questi popoli che ne facevano richiesta venne concesso un trattato di
alleanza.
46 Nello stesso anno, lo scrivano Gneo Flavio, figlio di un liberto
(uomo per altro in gamba e ottimo parlatore) e di condizione molto umile,
venne eletto edile curule. In alcuni annali ho trovato che, quando faceva
ancora lo scrivano al servizio degli edili, vedendo che le tribù lo
stavano designando edile ma che il suo nome non era tenuto in
considerazione per la sua occupazione, depose la tavoletta giurando che
non avrebbe mai più fatto quel lavoro. Ma Licinio Macro sostiene che
Flavio doveva aver smesso molto prima di fare lo scrivano, perché era già
stato tribuno della plebe e triumviro per due volte, la prima addetto alla
vigilanza notturna, la seconda alla deduzione di una colonia. È comunque
assodato che lottò con grande fermezza contro i nobili i quali ne
disprezzavano le umili origini. Rese di pubblico dominio le formule del
diritto civile, custodite negli archivi segreti dei pontefici, e fece
affiggere nel Foro il calendario dei giorni fasti, perché tutti fossero al
corrente dei giorni nei quali potevano adire le vie legali. Consacrò il
tempio della Concordia nell'area di Vulcano, suscitando grande
indignazione tra i nobili, perché in quell'occasione il pontefice massimo
Cornelio Barbato fu costretto dal consenso unanime del popolo a
suggerirgli le formule del rituale, non ostante continuasse a ripetere che
per tradizione i soli autorizzati a consacrare un tempio erano il console
o il comandante in capo delle forze armate. In séguito a quell'episodio,
su proposta del senato, venne presentata al popolo una legge in virtù
della quale nessuno poteva consacrare un tempio o un altare senza
l'autorizzazione del senato o della maggioranza dei tribuni della
plebe.
Riferirò poi un episodio che di per sé non avrebbe alcuna importanza,
ma che risulta essere una prova tangibile del senso di libertà della plebe
davanti alla tracotanza nobiliare. Poiché Flavio era andato a fare visita
a un collega malato, e i giovani nobili seduti intorno non si erano alzati
di proposito al suo arrivo, egli fece portare laggiù la sedia curule e
dall'alto di quel simbolo della sua autorità rimase a guardare i suoi
avversari che si consumavano di rabbia.
A eleggere Flavio era stata la fazione del Foro, divenuta potente
grazie alla censura di Appio Claudio, che era stato il primo a contaminare
la purezza del senato immettendovi figli di liberti. Ma poiché nessuno
aveva considerato valida quella scelta ed egli non era riuscito a ottenere
in senato quel potere politico che intendeva raggiungere, divise fra tutte
le tribù i cittadini di più umile estrazione, corrompendo così il Foro e
il Campo Marzio. E l'elezione di Flavio suscitò un tale sdegno, che la
maggior parte dei nobili abbandonò l'anello d'oro e il medaglione da
cavalieri.
Da quel momento la città risultò divisa in due partiti: da un lato la
parte di popolo che non era ancora corrotta e che sosteneva e rispettava i
cittadini di estrazione più elevata, mentre dall'altro c'era la feccia del
Foro, fino a quando vennero nominati censori Quinto Fabio e Publio Decio,
e Fabio - vuoi per evitare che i comizi finissero in mano alla canaglia
più abietta, vuoi per ristabilire la concordia - separò tutta la plebaglia
del Foro, concentrandola in quattro tribù cui diede il nome di "urbane". A
quanto si racconta i cittadini avrebbero avuto per lui una gratitudine
tale da attribuirgli, in relazione a questo assennato riordinamento delle
classi, il soprannome di Massimo, che non era riuscito a ottenere pur con
tutte le vittorie sul campo. Sembra che sia stato ancora Fabio ad avere
introdotto l'usanza di passare in rassegna i cavalieri alle idi di
luglio.
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