Il profilo del Monte Taburno domina l’orizzonte, imponente. Il sole, ormai basso, prosegue il suo cammino verso occidente. Non manca molto al tramonto. La luce rossastra del crepuscolo rende particolari i colori delle foglie: sembra accendere quelle tonalità di giallo, arancione, rosso e marrone che hanno preso il posto del verde.
Davanti a noi ci sono dei piccoli gruppi di case, costruite con il legno. Sembrano capanne. Sono queste le abitazioni tipiche dei Sanniti.
E poi, c’è un edificio più grande, sviluppato in profondità, con una pianta rettangolare.
Un’altra casa?
Sì... ma più bella. È stata costruita sul modello delle case greche. Appartiene a dei ricchi.
Sì, proprio quelli che hanno ordinato il cratere ad Assteas. Si chiamano Mamerkis ed Helvidia. E oggi, finalmente, potranno mostrare quell’opera d’arte ai loro amici. Altri ricchi caudini, s’intende...
Andiamo a conoscerli.
Si entra da una porta situata al centro della facciata. Al lato dell’ingresso c’è un uomo dalle braccia massicce. Sembra un buttafuori, e in effetti svolge una funzione simile, se non identica. Fortunatamente ci lascia passare.
Non appena entrati, ci ritroviamo in una sorta di anticamera. Poco oltre, davanti a noi, c’è un pastàs, un patio, con al centro una vasca per l’acqua piovana. Tutte le camere affacciano su questo cortile interno, sembra quasi di essere in un piccolo convento.
Ma qui non regna il silenzio. Si sentono delle voci, dei rumori. Dalla stanza lì in fondo, sulla destra, viene un profumo di carne arrostita, e di altri cibi che a naso non riesco a definire.
È lì che stanno cenando.
Andiamo.
La porta è collocata in un angolo. Non appena la apriamo ci guardiamo intorno: la stanza è piuttosto grande. Notiamo subito quattro letti disposti a cerchio, più o meno al centro. I Greci li chiamano klínai, klíne al singolare.
Sulle quattro klínai sono disposte altrettante coppie, composte da uomini e donne. Hanno tratti somatici decisi, ma non rudi. Sono bruni, fieri nello sguardo e nel portamento. Appartengono a un popolo guerriero, e si vede. Ma in compenso, la vicinanza territoriale con le colonie greche, gli ha permesso di entrare in contatto con l’affascinante cultura ellenica.
I Caudini sono i più colti tra i Sanniti. È dai Greci che hanno appreso la pratica del simposio. Ne hanno assimilato tutti i dettagli, o quasi: nella versione ellenica, le donne non possono partecipare, se non per servire e intrattenere. Sono ben accette solo le etère, delle cortigiane esperte nelle arti e nella conversazione. Un po’ come le geishe giapponesi, per capirci.
Nel simposio dei popoli italici, invece, le donne possono partecipare, alla pari degli uomini. Per questo motivo, i Greci le considerano promiscue, assimilandole alle loro etère.
Donne a parte, il simposio italico è piuttosto simile a quello greco. Anche nel vestiario: gli uomini indossano il chitón, le donne il peplo. Si tratta di tuniche lunghe fino alle caviglie, fissate con delle fibule di bronzo di fattura abbastanza ricercata.
Oltre a queste spille, utili e allo stesso tempo ornamentali, le donne portano anelli, cerchi alle caviglie, braccialetti, collane fatte con dei grani di terracotta. Infine, una cintura metallica, ricca di spirali, dalla quale pendono piccoli amuleti e ciondoli.
A loro volta, gli uomini non si fanno mancare nulla in fatto di gioielli: indossano anelli, bracciali, spesso a coppia e terminanti con una testa di serpente, un collare arricchito da incisioni e amuleti, messo durante l’infanzia e mai più tolto. Ma soprattutto, portano un grosso cinturone in pelle, ricoperto in bronzo, simbolo di forza e virilità.
Infine, sia uomini che donne hanno fatto uso di profumi, semplici essenze naturali, efficaci ed economiche.
Piuttosto vanitosi, per essere dei contadini-guerrieri, non trovate?
Osservando i piedi dei partecipanti, notiamo che non hanno le scarpe: le hanno tolte e lasciate sotto le klínai.
Stanno mangiando. Prendono il cibo da alcuni tavolini, posti davanti a loro. Non usano forchette, né coltelli: le pietanze sono già tagliate, vengono prese con le dita della mano destra. Il braccio sinistro, invece, viene usato per tenersi rialzati sulla klíne. A giudicare dalla quantità di avanzi nei piatti, stanno per finire.
Vediamo che c’è di buono nel menu di oggi...
Quello che noi chiameremmo “primo” è una farinata di farro, condita con olio e miele.
Per “secondo” c’è la carne: sia di pecora che di lepre, arrostita e condita con olio e formaggio, oppure con una salsa piccante. Ma c’è anche un altro secondo, a ben vedere: formaggio di pecora, sia fresco che secco. E ci sono anche delle uova sode.
E poi i “contorni”: lenticchie bollite in acqua e latte, cavolo, porro, un misto di rucola e lattuga.
I Sanniti servono sempre insieme questi due tipi di insalata, per cercare di bilanciarne gli effetti: credono che la rucola sia afrodisiaca, e che la lattuga, al contrario, indebolisca gli organi genitali.
Il pane è bianco, di ottima qualità, e viene usato anche per pulirsi le dita.
La frutta è quella di stagione: mele, pere, uva, castagne, noci...
I dolci non sono niente male: lo zucchero e il cioccolato non sono ancora utilizzati, ma i Sanniti si arrangiano bene con quello che hanno. C’è un pane dolce fatto con miele, pinoli e altri frutti da guscio; ma anche dolci impastati col mosto, antenati dei mustaccioli moderni.
Da bere c’è l’acqua mulsa, una miscela di acqua, miele e frutta, lasciata fermentare per qualche tempo.
Insomma, un pranzo poco sofisticato nella preparazione delle pietanze, ma abbondante e molto calorico.
Osserviamo la disposizione dei partecipanti al banchetto. Sulla klìne più a destra ci sono i padroni di casa, Mamerkis e Helvidia. In senso orario, seguono Herennis e Voltinia, da Telesia; Dekis e Trebellia, da Caudium; Sepis e Dusmia, da Saticula. L’ordine segue una gerarchia precisa. Per non fare torto a nessuno, i padroni di casa hanno optato per una soluzione diplomatica: hanno dato il posto migliore alla coppia che è venuta da più lontano, il meno prestigioso agli altri Saticulani.
Ma nella sala non ci sono solo queste otto persone. Lontano dal centro, in piedi, possiamo vedere diversi uomini e donne. Sono qui per portare i cibi, versare le bevande, ravvivare il fuoco nei bracieri. Insomma, per servire i padroni e i loro ospiti.
Ma attenzione: non sono schiavi.
Sono cittadini liberi, lavoratori alle dipendenze dei signori locali.
Al tempo dei Sanniti, il potere era nelle mani di poche famiglie, che potremmo definire “aristocratiche”. Per certi versi, la società sannita ricorda il latifondismo, sopravvissuto nella stessa area geografica fino alla prima metà del Novecento.
Mamerkis osserva il cielo, attraverso la finestra: un piccolo buco quadrato, da tappare in caso di pioggia, privo di qualsiasi vetro.
Sta per imbrunire. È arrivato il momento del simposio. Guarda i suoi ospiti, per controllare a che punto sono con la cena. Sembrano sazi, non mangiano quasi più. Si limitano a spizzicare le cose più gustose.
Bene.
Il padrone di casa fa un cenno a uno dei lavoratori. Questi si avvicina e inizia a sparecchiare, imitato dagli altri. Quando i tavolini sono ormai liberi dalle stoviglie e dagli avanzi, i servitori puliscono il pavimento. Poi, una donna porta una coppa ai padroni di casa. È piuttosto capiente, simile a quella dello champagne, per forma, ma molto più larga. Ha il diametro di un piattino, grossomodo. Si chiama kylix.
Un’altra donna arriva con una brocca, che prende il nome di oinochoe, e riempie la kylix di vino puro.
A questo punto, Mamerkis beve il primo sorso. Subito dopo pronuncia una formula: "Per te, divino Loufir". È questo il nome sannita di Dioniso. Poi passa la coppa a sua moglie, che fa lo stesso. La kylix gira di mano in mano, finché tutti non hanno bevuto e reso omaggio agli dèi.
Poi cantano un inno sacro, accompagnati dal suono della lira e dell’aulòs, una sorta di flauto. Per il momento, sono i servitori a suonare.
Alla fine del canto, uomini e donne si sentono più vicini agli dèi.
Viene portata dell’acqua, per permettere a tutti di lavarsi le mani. Poi delle olive e altri “stuzzichini”, per lo più frutta a guscio, da mangiare per accompagnare il vino. Proprio come nei nostri aperitivi.
Successivamente, i partecipanti cingono la testa con delle corone di edera, pianta sacra a Loufir/Dioniso. Ognuno riceve una kylix, identica a quella dove ha bevuto il vino puro. Sul fondo di ogni coppa è stata dipinta la testa di una delle tre Gorgoni: Steno, Euriale e la famosa Medusa. Si tratta di tre sorelle, incarnazioni delle perversioni, capaci di incenerire con lo sguardo. È un modo per ricordare a chi beve che non conviene vuotare una kylix troppe volte, se si vogliono evitare conseguenze negative.
In alcuni casi, sugli orli delle coppe venivano dipinti degli occhi, come per dire agli altri simposiasti: “anche se ho la faccia coperta dalla kylix, io vi vedo, non pensate di tradirmi”. Ma a Mamerkis ed Helvidia questa usanza non piace. Sul lato esterno delle loro coppe ci sono solo delle belle decorazioni, raffiguranti un simposio.
«È arrivato il momento di scegliere il simposiarca» dice Mamerkis.
«Per me puoi farlo anche tu, è casa tua» risponde Sepis, l’altro saticulano.
«No! A me non sta bene. Ci hai invitati qui solo per mostrarci il cratere. Non abbiamo mangiato a sufficienza, e ho dovuto cavalcare fin da Caudium. Vantati pure, Mamerkis. Ma non accetto di prendere ordini da te» dice Dekis. Può sembrare un discorso molto polemico, ma in realtà è stato fatto col sorriso sulle labbra. Nessuno l’ha preso sul serio. Mamerkis sghignazza, divertito dalla provocazione dell’amico.
«E chi dovrebbe fare il simposiarca, sentiamo? Un uomo venuto da Caudium, per caso?» dice Mamerkis, scambiandosi uno sguardo d’intesa con Sepis.
«Per me può farlo tranquillamente Herennis. Lui è venuto da Telesia, ha fatto più strada di me» risponde Dekis, con una smorfia divertita.
«E sia. Quanti di voi vogliono Herennis come simposiarca?»
Tutti alzano la mano. Eleggere il simposiarca non è poi così importante, non c’è una vera competizione. Quest’uomo può solo stabilire delle norme per il simposio, come ad esempio il numero di coppe da bere, niente di più. Oggi può sembrare un’usanza bizzarra, ma tuttora in Georgia in occasione dei banchetti viene scelto un tamadan, equivalente del simposiarca.
Herennis solleva la coppa, per ringraziare. Poi si rivolge a Mamerkis.
«Allora, amico mio, vuoi farci vedere questo cratere o no?»
«Non aspetto altro, caro Herennis».
Poi si volta verso due servitori.
«Procediamo».
Quando il cratere viene posato al centro della sala, nessuno ha più voglia di scherzare. Sono tutti rapiti dalla bellezza di quest’opera. Da oggi in poi, ai loro occhi, solo questo vaso sarà degno di accogliere il dono di Loufir. Nessun cratere può reggere il paragone, nemmeno gli altri realizzati da Assteas.
I loro sguardi si perdono su quella superficie liscia, lucente, su quelle figure dotate di rara grazia. Osservano la principessa, il toro bianco, gli dèi, i mostri marini, i fregi. Le loro pupille sono avide di ogni dettaglio. Se solo potessero assorbire quel cratere con lo sguardo, lo farebbero all’istante.
Ma possono solo ammirarlo.
Helvidia osserva i volti degli amici: è così fiera di quelle espressioni, di quegli occhi che brillano, di quelle bocche semiaperte. Di quello stupore.
Il cratere è stato fatto per lei, è un regalo di suo marito. È il simbolo del loro amore, della loro ricchezza.
Ma allo sguardo attento di Helvidia, non sfugge un particolare importante: lentamente, Sepis e Dusmia vengono avvolti dalla tristezza. Nell’osservare quella ragazza seduta sul toro, la vecchia ferita si è riaperta.
Sono passati pochi anni da quando la loro primogenita è dovuta andare via. Era stata sacrata al dio Mamerte, equivalente di Marte, circa quindici anni prima. Questo sacrificio, per i Sanniti, era l’estremo tentativo di ingraziarsi il dio, nella speranza di risolvere un grave problema. Una carestia, una guerra imminente, un’epidemia. Insomma, un evento frutto dell’ira di Mamerte, o di chissà quale altra divinità.
Insieme a tutti gli altri fanciulli nati nella primavera di quell’anno difficile, la ragazza era dovuta andare via, lontano dal territorio dei Caudini, per fondare un nuovo villaggio. Il posto, però, non lo avrebbero deciso i sacrati. Sarebbe stato Mamerte a indicarglielo, tramite un animale guida. Un toro, appunto, simbolo del dio e degli stessi Sanniti.
Oggi questa pratica viene chiamata ver sacrum, cioè “primavera sacra”. Ma è un nome latino. Non sappiamo come la chiamassero gli antichi Sanniti, in lingua osca.
Il disagio della coppia non viene notato solo da Helvidia. Man mano, tutti gli altri si accorgono di quella tristezza, a prima vista inspiegabile in un contesto gioioso come il simposio.
Herennis decide di stroncare sul nascere ogni malinconia.
«Mamerkis, Helvidia, il vostro vaso è splendido».
«Grazie» risponde la donna.
«Adesso però, se non vi dispiace, lo farei riempire di vino. Siamo qui anche per bere, no?»
«Certamente» dice Mamerkis.
«E allora, avanti, riempiamo questo calice».
I servitori si mettono all’opera.
Portano un’anfora con del vino puro, una hydria piena d’acqua e degli aromi. Poi dei mestoli e un passino, in bronzo, per mescolare, attingere e filtrare il vino.
Quando tutto è pronto, i servitori restano fermi, in attesa. Guardano Herennis.
«Una parte di vino per due di acqua. Mettete poco miele».
La “ricetta” del simposiarca viene eseguita in tempi brevi.
Dapprima versano l’acqua, poi il vino. Quindi aggiungono gli aromi: miele, frutti di bosco, delle erbe raccolte alle pendici del Taburno. La bevanda viene miscelata, filtrata e versata in una prima oinochoe. A questo punto, una donna si fa avanti, prende la brocca e serve da bere ai simposiasti.
Mamerkis, Helvidia e i loro ospiti iniziano a sorseggiare il vino diluito.
Ma perché non lo bevono puro, come noi?
I motivi sono diversi.
Prima di tutto per non ubriacarsi. Il simposio non è l’equivalente di una sbronza tra amici. Certo, può capitare che alla fine della serata qualcuno sia ubriaco, ma di sicuro, diluendo il vino, si riesce a conversare più a lungo senza perdere il controllo.
Poi, perché sembra che a quel tempo il vino avesse una gradazione alcolica maggiore. E teniamo presente che le coppe usate, sia le kylikes che gli altri tipi, sono piuttosto grandi. Quindi si tende a bere di più.
Infine, diluire il vino, aromatizzarlo con miele, frutti e altro (talvolta anche con del formaggio grattugiato, cosa che per noi è insolita) è un modo come un altro per differenziarsi dai popoli più rozzi. Insomma, è anche una maniera per darsi delle arie.
Herennis lascia che i suoi amici bevano un po’ di vino. Vuole proporre un argomento importante, è necessario che tutti siano rilassati, ma lucidi. Per questo ha deciso di parlarne quasi subito.
Quando crede che sia giunto il momento adatto, si schiarisce la voce, per attirare l’attenzione dei simposiasti.
«Miei cari amici, ora che le nostre menti sono sgombre ma lucide, intendo porre alla vostra attenzione una questione che riguarda tutti noi. Forse è un problema, forse un’opportunità. Ma di sicuro, è qualcosa che non possiamo ignorare. Parlo dell’avanzata dei Romani».
Herennis fa una pausa, per vedere che effetto fanno quelle parole sui suoi amici. Mamerkis ha cambiato espressione, si è incupito. Sepis sembra sereno. Dekis è attento. Helvidia ha uno sguardo fiero, mentre Dusmia non si mostra turbata da quelle parole. Trebellia, la moglie di Dekis, è preoccupata ma cerca di non darlo a vedere. Suo figlio ha l’età giusta per combattere, e lei non vuole perderlo. Infine Volumnia, la compagna di Herennis, non mostra sorpresa. Ha sentito suo marito mentre preparava il discorso, più volte. Ricorda a memoria quelle parole. Sa bene che adesso suo marito dirà...
«Ormai la gente di Roma si avvicina alla valle del Liri. E lì stiamo per arrivare anche noi. Presto i nostri territori confineranno, e questo vuol dire solo due cose: alleanza o guerra».
Herennis beve un sorso di vino, poi prosegue.
«Il nostro popolo ha scelto bene il suo simbolo: proprio come un toro, non siamo abituati a indietreggiare, ma anzi, siamo pronti a caricare e distruggere il nostro nemico. Ma proprio come un toro non siamo immortali. Ogni volta che carichiamo contro un nemico, rischiamo di romperci il collo nell’urto.
E allora io vi dico: perché dobbiamo cercare nuovi nemici, quando ne abbiamo già diversi? Perché dobbiamo combattere i Romani, quando potremmo allearci con loro contro i Celti? Con quel popolo non possiamo stringere accordi, non hanno rispetto per noi. Pensano di poter venire qui e prendere tutto quello che vogliono, come hanno fatto a Roma, al tempo in cui mio padre era giovane?
E poi, i Greci vogliono prendere il nostro posto. Fino a oggi siamo stati amici, abbiamo scambiato le nostre ricchezze. Beviamo nelle coppe che loro hanno fatto. Ma a volte le cose cambiano rapidamente, e l’amico di ieri diventa il nemico di domani.
E anche i Romani, ambiziosi come sono, devono temere i Greci, e pure gli Etruschi. Voi uomini mi avete visto combattere, e sapete che non mi tiro indietro. Ma io vi dico che noi abbiamo bisogno di pace e prosperità, non di morte e dolore. Difendiamo le nostre terre, prendiamo una parte della valle del Liri, evitiamo le guerre che si possono evitare. È veramente il meglio che si possa desiderare, per noi. Così credo».
Una volta concluso il suo discorso, Herennis beve un sorso abbondante di vino. Ha la gola secca. Non appena abbassa la coppa, Mamerkis inizia a parlare.
«Tu non ti sei tirato indietro in battaglia, è vero. E allora perché ti tiri indietro proprio adesso? Sai bene che quella valle è importante per noi, e anche per loro. Fino a oggi, i Volsci, seppure deboli, ci hanno tenuti divisi dai Romani. Ma non appena quella gente verrà meno e la valle sarà una facile preda, dovremo essere veloci e decisi nel conquistarla. Non dobbiamo stringere alleanze con i Romani: è gente troppo ambiziosa, troppo fiera per dividere le terre con noi. E allora, che resti solo un popolo. Combattiamo, carichiamo, come dicevi tu, anche a costo di romperci il collo».
Helvidia è orgogliosa del discorso del marito. Si vede da come lo guarda, da come gli sfiora il braccio.
Al contrario, Dekis non sembra essere d’accordo.
«Caro Mamerkis, sei nato nel mese sacro a Mamerte, il tuo nome ce lo ricorda. Sei un guerriero valoroso e non temi la morte. Tutto questo ti fa onore. Ma io credo che la guerra con i Romani vada rimandata. Aspettiamo. Ti dico solo questo, aspettiamo. Prima facciamo in modo che questi altri popoli la smettano di infastidirci. Facciamo capire a ogni Celtico, a ogni Greco, che i Safineis non li temono. Facciamogli capire che il Safinim è nostro, e nostro resterà. Poi, quando non avremo nessuno da temere, concentreremo le forze contro i Romani, e li sconfiggeremo».
«È vero, non possiamo combattere contro tutti. Non possiamo pensare di marciare verso la valle del Liri e allo stesso tempo difendere i nostri confini a sud e a nord. Dividendo le forze, rischiamo di essere sconfitti su tutti i fronti» interviene Sepis.
Herennis è felice di quell’intervento. Solo Mamerkis è lontano dalla sua posizione, ma è da solo in quella piccola assemblea.
«Mio caro Mamerkis, parlare dei nemici non è divertente, e io non voglio rovinare questo bellissimo simposio. Avremo modo di parlare dei Romani con tutti i capi delle altre tribù. Ma adesso, prima di passare oltre, ti invito a considerare la proposta di Dekis. Nessuno parla di tirarsi indietro, o di sottomettersi. Per adesso, firmiamo una pace alla pari. Risolviamo i nostri problemi. Poi, al momento giusto, valuteremo cosa fare con i Romani. Tante cose possono cambiare, non serve immaginare il futuro. Occupiamoci del presente».
Mamerkis vuota la sua coppa di vino. Poi fa cenno a una donna di riempirgliela.
«Ci penserò, ve lo prometto».
Herennis lo osserva, attento. Non sembra troppo convinto. Ma è un inizio.
Lentamente, il simposio scivola verso argomenti più leggeri. Si parla della caccia, del vino, dell’amore. Si scambiano battute anche pesanti, ma sempre col sorriso sulle labbra. Nessuno si offende: ai Sanniti piace quest’umorismo grossolano. Anche se imitano i Greci in occasione del simposio, restano comunque persone semplici, abituate alla terra e alla guerra.
Poi si suona, a turno.
Man mano che il vino viene consumato, si tende sempre più a scherzare, a ridere. Ogni volta che una coppa viene vuotata, si lanciano i residui rimasti sul fondo contro un piattino di bronzo, per farlo cadere. È un gioco, si chiama kòttabos.
Poi si balla, al ritmo dei tamburi e dei crotali. Il dio del vino viene celebrato come più gli piace.
I limiti vengono superati, ma non del tutto. Si resta a metà tra l’umano e il divino, tra la ragione e l’istinto, finché la notte non si confonde con il giorno, rompendo l’incanto...
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