IL LAZIO MERIDIONALE
FRA VOLSCI E SANNITI
Anna Maria Reggiani
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La storia del territorio laziale è fortemente condizionata dalle vie naturali che permisero alle comunità gravitanti intorno alla valle del Tevere e al mondo etrusco di entrare in contatto con l'ambiente centro-italico sannita e con quello della Campania. In particolare, la cosiddetta valle Latina, formata dal bacino del Sacco e del Liri costituiva, a partire da Palestrina, un lungo corridoio obbligato che aveva reso possibile, con la penetrazione in Campania, il consolidarsi di una rete di contatti stabili con l'entroterra appenninico, che veniva raggiunto attraverso una serie di assi trasversali di transumanza; si costituì in tal modo, sin dal periodo preromano, una rete di commerci che ha svolto un ruolo fondamentale nel sistema economico e sociale dell'Italia centrale.
In questo quadro si inseriscono la penetrazione degli Ernici a ridosso dell'agro prenestino e quella, più consistente, dei Volsci.
Una rivisitazione della presenza dei Volsci nel Lazio meridionale interno è stata riproposta ultimamente sottolineando le evidenze sparse nei centri della valle del Liri, costituite da armi e oggetti di ornamento personale databili tra il VII e il VI secolo a.C., che presentano elementi tipici delle culture centro-italiche (1). A Cassino, Atina, San Biagio Saracinisco, Alvito, ma anche ad Anagni, San Giorgio a Liri, infatti, si trovano fibule ad arco doppio e a tre bozze, in bronzo e in ferro, dischi-corazza, spade tipo Alfedena, mentre per quanto riguarda la ceramica, l'elemento guida è costituito dall'anforetta costolata con anse a doppio bastoncello, collegate da un setto intermedio. L'area geografica così configurata rientra nel bacino del Liri, tra Alfedena e la zona di influenza campana: dal quadro tracciato la valle del Liri si conferma, ancora una volta, come un itinerario di passaggio, fra i poli estremi di Frosinone e Cassino.
I Volsci, stanziati in età règia nell'alta valle del Liri, secondo quanto raccontano le fonti, sospinti da Marsi e Sanniti, penetrarono nel Lazio meridionale, tra Aurunci e Latini, fino ad occupare stabilmente la pianura pontina nel corso del VI secolo a.C. Nella valle del Liri ebbero una fase volsca i centri di Frusino, sulla sinistra del Sacco, Fabrateria Vetus sulla riva destra, Fregellae, Arpinum, Aquinum e Casinum sulla sinistra del Liri, Satricum e Sora sulla destra; infine Atina nella valle del Melfi.
La confederazione volsca fu un pericolo incombente per Roma e i Latini fino a tutto il V secolo a.C.; ma nel secolo successivo la situazione si capovolse a favore dei Sanniti che, distrutta Fregellae poco prima della metà del IV secolo a.C., firmarono un trattato di pace con i Romani nel 354 a.C. che fissava al Liri i rispettivi territori di influenza: a nord quello di Roma, a sud quello della confederazione sannitica (2). Arpinum divenne l'avamposto sannita verso occidente, a diretto contatto con l'area di espansione romana.
I centri nominati, ubicati tutti in collina con difese naturali, furono organizzati militarmente con fortificazioni in opera poligonale.
Alcuni centri volsci noti solo dalle fonti sono stati variamente localizzati; se Adriano La Regina ha identificato la Satricum volsca con Montenero Diruto, presso Castro dei Volsci (3), in questo sito recenti ricognizioni condotte dalla Soprintendenza Archeologica per il Lazio hanno confermato la presenza di materiale di abitato riconducibile a una comunità volsca, che rende più che verosimile la localizzazione. Le indagini volte a identificare il sito di Ecetra, che Livio colloca non lontano da Fermentino (4), sono invece ancora in corso.
Una serie di colonie latine, da Cales (la più antica, del 334 a.C.) a Fregellae (328 a.C.), Interamna Lirenas (312 a.C.) e Sora (303 a.C.), costituiranno, nel IV secolo, una barriera a contenimento dei Sanniti.
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Valle di Comino. Viabilità del territorio.
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Nella media valle del Liri, fra Sora e Ceprano, si concentra una serie di assi viari che sono stati fondamentali per la dinamica dei rapporti appena abbozzati: la via di fondovalle che collegava Sora con Atina, localmente nota con il vecchio nome di "Sferracavalli" che portava anche a Cassino e alla valle del Volturno; la via che, staccandosi dal tracciato di fondovalle in corrispondenza di Vicalvi, attraverso Alvito e San Donato Val di Comino, portava a Forca d'Acero, giungendo sino alla valle del Sangro e ad Alfedena da un lato, e che proseguiva verso Arpino, dall'altro, costituendo il collegamento tra il Sannio e questa città: il passaggio naturale costituito dalla valle di Roveto, al di sopra di Sora, che mette in comunicazione la media valle del Liri con l'area marsicana del Fucino; infine, la cosiddetta via "Pedemontana", che passava attraverso gli attuali centri di Castrocielo, Roccasecca, Arce, ove si congiungeva con i percorsi provenienti da Sora e dalla valle di Roveto e con quello che portava alle miniere di ferro della Meta e delle Mainarde.
Il sistema di comunicazione così delineato fu in parte sostituito dalla via Latina che, escludendo i centri volsci e sanniti, collegava direttamente tra loro le nuove colonie latine.
Atina deve la sua importanza allo sfruttamento delle miniere dei vicini monti della Meta ove si trovavano giacimenti di argento, rame e soprattutto ferro e alla sua posizione strategica per la grande transumanza, che ne fecero un centro ambito, anche se poche sono le notizie riportare dalle fonti sulla sua storia. La città viene ricordata da Livio soprattutto per il sistematico saccheggio del suo territorio, operato dai consoli Spurio Carvilio e Papirio Cursore nel 290 a.C. (5). A differenza di altri centri che dopo essere stati con i Volsci erano passati dalla parte dei Sanniti, mantenendo un atteggiamento ambivalente fra questi ultimi e i Romani, Atina rimase fedele al Sannio fino a tutta la III Guerra Sannitica, quando fu conquistata da Roma per diventare Praefectura e Civita Sine Suffragio (6).
Una cinta muraria in opera poligonale racchiudeva le due sommità di Colle Santo Stefano e del Colle, ove si estendeva l'abitato.
Il circuito delle mura in opera poligonale di II maniera, datato da Lugli al II secolo a.C. (7), è stato recentemente rialzato in più riprese al III secolo da E. A. Beranger (8) e al IV da G. Bellini (9); in particolare, quest'ultima ritiene che Atina abbia costituito l'ultimo e "più imponente baluardo sannita a difesa delle vie di accesso al Sannio". Il contesto dei rapporti fra Atina e il Sannio in questa prospettiva è in gran parte inedito.
L'analisi tecnica delle mura di Atina ha portato a distinguere due fasi costruttive: una preromana, in opera poligonale di I e II maniera, e una posteriore, in opera poligonale di III e IV maniera e in opera quadrata, che costituisce un circuito a se stante a delimitazione del pianoro su cui sorge la città romana.
La fase preromana è a sua volta costituita da due circuiti: uno esterno, che comprende il Monte Marrone, il Monte Prato, il Colle, e uno interno, a difesa della collina di Santo Stefano, in cui si identifica l'acropoli, probabilmente aggirata completamente da questo circuito interno, a sua totale difesa.
Parte integrante del sistema a difesa delle vie di comunicazione con il Sannio è anche il circuito murario in opera poligonale del borgo di Vicalvi - che La Regina identifica con Caesennia (10) - da considerare una cima apicale di difesa primitiva e di avvistamento sulla via di penetrazione da Sora.
Il territorio di San Biagio Saracinisco, nella valle di Comino, ha restituito in passato materiale soprattutto funerario, compreso in un arco cronologico molto ampio, fra l'VIII-VI e il IV-III secolo a.C.
Qui doveva essere ubicato un centro sannita di una qualche rilevanza (a controllo del percorso fra Atina e il Sannio, all'imbocco della valle del Rio Chiaro, affluente del Volturno), che La Regina propone di identificare con il centro di Duronia, citato da Livio (11).
Nel corso di recenti indagini e ricognizioni condotte dalla Soprintendenza, nell'area fra il Monte Santa Croce, l'alto corso del Rapido e gli altipiani del Gallo e del Gallo Maggiore, sono state individuate tracce di un articolato complesso insediamentale che acquista un significato particolare alla luce di questa proposta. Le evidenze, costituite da materiale fìttile e resti di strutture in opera poligonale o pietrame a secco, si concentrano prevalentemente lungo le pendici, sulla sommità e alla base di Monte Santa Croce (luogo di provenienza dei cinturoni di area sannita, conservati presso il Museo Nazionale Romano).
Al momento è stato possibile accertare l'esistenza di un recinto murario in opera poligonale di I maniera, scarsamente conservato a causa dei danneggiamenti compiuti nel corso della II Guerra Mondiale, che cinge la parte alta del Monte (a quota m.1.180 s.l.m.); di una seconda cinta muraria esterna alla precedente, in opera poligonale di I maniera, riportata in luce per un centinaio di metri e che sembra estendersi anche sui rilievi vicini al Monte Santa Croce; di diverse decine di terrazzamenti in opera poligonale o pietrame a secco, che corrono lungo le pendici e alla base del Monte Santa Croce, che al loro interno racchiudono materiale fittile (tegole e coppi associati a ceramica di impasto a vernice nera), resti di fondazione e parti di elevato di strutture in grossi blocchi di calcare squadrati.
Infine, sono stati individuati almeno quattro distinti nuclei sepolcrali, attestati da due fasi di frequentazione risalenti al VI-V e al IV-III secolo a.C., quasi certamente in rapporto con l'insediamento descritto (12).
I primi rinvenimenti di materiale funerario si sono verificati alle pendici di Monte Santa Croce, nella località denominata Ominimorti, a seguito dei lavori di bonifica dagli ordigni bellici, iniziata a partire dal 1949. Le tombe della fase più antica sono a fossa terragna delimitata da pietre e scheggioni di calcare; quelle più recenti sono a cappuccina con copertura e piano
di deposizione in embrici e coppi. Il corredo della prima fase è costituito prevalentemente da vasi in ceramica grezza di fabbricazione locale e di uso domestico, di impasto bruno nerastro o rossastro: olle globulari con anse a bastoncello oblique semicircolari, ollette ovoidi con prese a lingua e cordone digitalato o steccato, impostato al di sotto dell'orlo; anforette costolate tipo Alfedena; anforette con anse "a feritoia", decorate alla base del collo e sul corpo con bande ondulate di puntini impressi o a linee serpeggianti rilevate che richiamano motivi dell'età del Ferro. Sono presenti anche oinochoai a bocca trilobata e kantharoi di produzione campana in bucchero pesante, che permettono di datare la maggior parte delle sepolture di questa fase tra il 570-560 e il 520 a.C. Il corredo della fase più recente è costituito da cinturoni, fibule, punte di lancia e vasellame ceramico di chiara connotazione sannita.
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San Biagio Saracinisco - Anfore tipo Alfedena (fine VI - prima metà V secolo a.C.)
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Allo stato attuale della ricerca, si ha ragione di ritenere di trovarsi di fronte a un insediamento sannita di dimensione vicanica, che deve supporsi di rilevante estensione, già stabilmente occupato in età tardoarcaica. Quanto alla sua identificazione, se è plausibile ricercare Duronia nel territorio di San Biagio Saracinisco, è più di una suggestiva ipotesi di lavoro quella di identificare detto centro sannita con i resti del complesso vicanico testé descritto. L'insediamento era destinato, verosimilmente, al controllo dello sbocco orientale della valle di Comino verso il Molise e del tracciato che collegava la media valle del Liri con l'alta valle del Volturno.
Nel IV secolo a.C. il tracciato viario Sora-Atina riveste ancora una grande importanza sia come via commerciale, sia per lo spostamento delle truppe durante le guerre fra Romani e Sanniti.
Lungo questa strada, nel territorio che rientra attualmente nel Comune di Casalvieri, e in stretta connessione con Vicalvi e Alvito, sorge il santuario di Pescarola.
Il materiale votivo, in parte conservato nei depositi della Soprintendenza e in parte raccolto nella collezione Iacobelli di Casalvieri e nel Museo della media valle del Liri a Sora, è costituito da laminette in bronzo a figura umana, maschili e femminili, statue e statuette fittili, testine, maschere, votivi miniaturistici, anatomici, spiedi, armi, cinturoni e monete di zecche osche e magnogreche, in un arco cronologico compreso fra l'età arcaica e il I secolo a.C. (13).
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Pescarola - Laminette antropomorfe
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Gli scavi condotti negli ultimi anni dalla Soprintendenza hanno permesso di delineare una situazione di grande interesse.
Nell'area da cui provenivano i votivi è stato individuato un esteso deposito all'interno di quello che successive indagini geologiche e osservazioni sulla stratigrafia hanno permesso di interpretare come uno specchio d'acqua.
Sono state così ipotizzate più fasi. Durante la prima, corrispondente al periodo di maggiore frequentazione, dal IV al I secolo a.C., il lago, formato da acque con proprietà salutari, era una mèta abituale sia per le popolazioni preromane stanziate nella zona (Volsci e poi Sanniti) sia per quelle transumanti lungo la via Sora-Atina. La divinità, sulla base delle caratteristiche dei votivi, si può identificare forse con Mefitis, cui i fedeli rivolgevano preghiere lasciando votivi e monete e in onore della quale compivano l'immersione rituale.
Nella fase finale (fìne repubblica - inizi impero), le acque del lago vengono sfruttate per l'impianto termale, che subisce successive modificazioni forse durante il II secolo d.C. Lo studio dei metalli, invece, riporta in ambiente sannitico.
Il santuario, pur inquadrandosi nella tipologia dei santuari della media valle del Liri, in cui i culti di tipo terapeutico-salutare legati alle acque giocano un ruolo fondamentale, si presenta come un centro di elaborazione di una produzione originale a contatto diretto con l'area campana, rappresentata dal santuario di Mefite della valle di Ansanto (14) e con l'area centro-italica della valle del Salto e del bacino del Fucino, cui rimandano i fittili più diffusi all'interno del deposito (maschere e testine)(15). Ma al di là di queste conclusioni, si sottolinea come le offerte votive del santuario di Pescarola, grazie alla varietà dei materiali, rappresentino uno spaccato della vita quotidiana della zona attraverso le armi (VII-V secolo a C.), i cinturoni (età arcaica), le monete (IV-II secolo a.C.) e l'ampia tipologia dei votivi anatomici e della piccola statuaria.
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Tratto da "Studi sull'Italia dei Sanniti" - Catalogo della mostra tenutasi
a Roma presso il Museo Nazionale Romano - Terme di Diocleziano
A cura del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali
Soprintendenza Archeologica di Roma.
Casa Editrice Electa - Milano 2000
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NOTE
(1) Gatti 1995; Cristofani 1992. pp.13-24.
(2) Salmon 1985.
(3) La Regina 1989. p.398: Bellini c.s.
(4) LIV. IV, 61, 5-9.
(5) LIV. X, 39, 2-4.
(6) LIV. X, 39, 5; CIL. X, 5064-5066-5067.
(7) Lugli 1957, p.378.
(8) Beranger, Sorrentino 1980.
(9) Bellini 1989, pp. 27-35.
(10) La Regina 1989, p.398.
(11) LIV. X, 39, 4; La Regina 1989, p.399.
(12) Devo le notizie relative all'insediamento a G. Bellini ed E. Nicosia che hanno diretto i lavori di scavo dell'area. Cfr. Bellini 1997, p.15.
(13) Anche in questo caso devo l'inquadramento del santuario a G. Bellini, che ne ha diretto lo scavo; cfr. Bellini 1997, p.13.
(14) Rizzello 1980.
(15) Reggiani Massarini 1988.
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Storia dei Sanniti e del Sannio. Il Lazio meridionale fra Volsci e Sanniti.
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